«Admeto deve morire. Quando? Adesso».
Nella essenzialità di Rilke, nella sua straordinaria Alcesti, si condensa questo verso. Da qui possiamo partire per tentare un ragionamento su un tema emerso (liminale eppure fortissimo) negli ultimi giorni.
Mentre il 77enne Biden batte il 74enne Trump (hurrà), in Italia, nella generale e dolorosa confusione che si diffonde dopo l’ennesimo DPCM, si è sollevata – per un istante nemmeno troppo breve – una discussione che se non fosse agghiacciante, sarebbe comica. Il fatto è che si è ipotizzato, per un attimo di fare dei lockdown selettivi, ovvero di limitare la libertà degli Over70.
Una discussione ben rappresentata dal quotidiano Repubblica del 2 novembre scorso, quando una pagina era equamente divisa in due tra la 79enne sociologa e filosofa Chiara Saraceno e l’87enne storico della Letteratura Alberto Asor Rosa. Tema della doppia intervista: i giovani.
Curioso, no? A parlare di giovani sono due over 70. Nella gerontofilia tutta italiana, i cosiddetti “giovani” non hanno diritto di parola, nemmeno quando si parla di loro. Nella patria del Conte Ugolino, di innumerevoli Anchise che non ci pensano nemmeno a mollare le spalle di Enea, di nonni sempre più fondamentali nel gestire nipoti che genitori disperati e privi di ogni tutela pubblica non possono nemmeno vedere, in questo paese tutto improntato al passato, alla conservazione del patrimonio, alla tutela dei beni culturali, alla imponenza delle rovine e delle vestigia della storia – e così poco attento alla ricerca, agli investimenti, al futuro – l’emergenza scopre i nervi di una ciclica infiammazione, di un non detto e non risolto che sempre di nuovo si propone.
Il fatto è che nello straziante clima di pandemia, gli anziani sono, nel bene o nel male, protagonisti: riporta ancora Repubblica che nella seconda ondata di è alzata sia l’età media delle vittime del virus (81,3) defunte sia quella degli over 70 contagiati negli ultimi trenta giorni (11,7%).
Allora ecco il dibattito a distanza tra Saraceno e Asor Rosa.
La prima dice:«è la mia generazione che deve fare un passo indietro… Nessuno nega che sia dura. Ma se si dovesse fare una scelta, è evidente che dobbiamo cedere il passo ai giovani». E aggiunge: «Sento molto egoismo da parte dei miei coetanei. Senza contare che siamo proprio noi, gli over 70, i primi bersagli del virus». Il ragionamento di Chiara Saraceno è naturalmente più ampio, e mi perdonerete se estrapolo – tendenziosamente – solo questa manciata di frasi.
A far da contrappunto, anche qui in una lunga intervista è il critico letterario Alberto Asor Rosa, che dice: «Ci si può ammalare di clausura prima che di Covid… è come se volessero anticipare la nostra scomparsa dal mondo… La tentazione di rinchiudere gli ultrasettantenni ha un evidente retro-pensiero secondo il quale sono una delle scocciature fondamentali dell’esistenza contemporanea».
Ecco, improvvisamente, siamo ancora ad Alcesti.
Nella tragedia di Euripide, così felicemente evocata da Rainer Maria Rilke, Apollo incontra Thanatos, giunto per dare «dare la morte a quelli che sono maturi per morire». Ma Apollo aveva già sistemato tutto: Admeto, «in punto di morte, avrebbe potuto scampare, purchè desse agli dei inferi in sua vece un altro morto. Tutti i suoi cari cercò e mise alla prova, il padre e la vecchia madre che l’aveva partorito, ma non trovò chi volesse morire per lui e non vedere più la luce, tranne la sua donna».
Non pensiamo adesso, per un istante, la tragedia della giovane moglie Alcesti, per concentrarci proprio sul rapporto padre-figlio. Perché Admeto ce l’ha con il padre Ferete: «Condolerti dovevi piuttosto quando io stavo per morire. Ma allora te ne sei stato in disparte e hai lasciato morire un altro, un giovane, vecchio come sei». E aggiunge: «tu che arrivato a questa età non hai voluto, non hai saputo morire per tuo figlio e avete lasciato morire una donna estranea», fino a gridare «come è spudorata la vecchiaia!».
Ancora più forte è la sintesi poetica di Rilke: «Padre, importa molto a te di questo avanzo di vita che ti vieta ormai l’amplesso? Su, gettalo. E anche tu, tu, vecchia donna, Matrona, perché vivi tu ancora? Hai partorito».
Il Temeto di Euripide, come Asor Rosa, è solido nella sua posizione. Quando Admeto gli chiede se è la stessa cosa la morte di un giovani o di un vecchio, il padre risponde:«Abbiamo tutti una vita da vivere, non due».
Poi sappiamo come andrà a finire, come vorremmo finisse anche questa tragedia pandemica: che un semidio come Eracle arrivi a salvare tutti.
Ma la questione è ancora più vasta. E la drammaturgia ha sempre affrontato lo scontro generazionale come uno dei motori potenti per lo sviluppo della narrazione tragica. Shakespeare lo sapeva bene, se è vero – come è vero – che buona parte della sua produzione teatrale affronta proprio la dialettica feroce tra generazioni. Si sa: Amleto è il manuale del figlio incompreso e incapace ad agire: come ha ampiamente spiegato la psicoanalisi, è colui che, sulle tracce di Edipo, avrebbe voluto “uccidere” simbolicamente il padre per crescere.
Se Romeo e Giulietta si può inquadrare come un necessario sacrificio di giovani per far modificare le strategie politiche degli anziani, in termini affettivi ed emotivi, la tragedia di Re Lear altro non è che un aspro scontro materico e materiale per la successione al trono.
Comunque, tornando all’oggi, la questione del trapasso “naturale” – prima gli anziani, poi i giovani quando saranno anziani – e della inconcepibile perdita del Figlio è dunque il nucleo incandescente sotteso alla “confronto” tra Asor Rosa e Saraceno.
Che il paradigma generazionale si sia ribaltato, è evidente: l’eterna giovinezza è a portata di mano e, con buona pace di Dorian Gray, c’è chi si accontenta del lifting o dell’abbronzatura perenne per sentirsi “ancora” giovane.
Ma la questione è spinosa, e diventa ancora più tragica quando già si prefigura quel che sarà il caos da distribuzione dell’atteso vaccino. A chi prima? Agli anziani più fragili o ai giovani che sono il futuro? Indubbiamente ci saranno dei criteri più funzionali: prima il personale sanitario, il più esposto.
Eppure, la forza tragica di una domanda eterna scandisce queste giornate come una lugubre scoccare di campane. Chi si salva? Il pensiero discriminante tra i “sommersi (molti) e i salvati (pochi)”, torna a risuonare con la freddezza di una lama tagliente. Evoca spettri passati, distinzioni ciniche e fasciste tra chi poteva “servire” e chi no. E nella stagione della psicopolitica, del produttivismo a tutti i costi, della sistematica “espulsione dell’Altro” in una «società (che) non si trova ancora in una condizione conciliata», per usare parole di Byung-Chul Han, in cui siamo sempre più incapaci di ascoltare e di prestare attenzione, sbarazzarsi in fretta di tutto ciò che è scomodo, pesante, antiquato, inutile – alla fine “diverso” – è una via non solo concepibile, ma concepita.
E la vecchiaia, l’eterno tabù del presentismo dei nostri tempi, resta come convitato di pietra, come confronto inesorabile verso quel che non si vuole vedere di se stessi.
Lo sapeva bene quel genio malinconico di Anton Cechov: nel suo Zio Vanja c’è un dialogo (dei tanti) davvero meraviglioso. Si ricorderà: la bella e giovane Elèna Andrèevna ha sposato il vecchio professore Serebrjakòv. Sono chiusi nella casa di campagna. In una notte di temporale, il vecchio si lamenta degli acciacchi, della salute, della sua vita. Dice Serebrjakov: «Io voglio vivere, io amo il successo, amo la notorietà, il rumore, e qui mi sento come al confino. Ogni minuto a rimpiangere il passato, seguire i successi degli altri, aver paura della morte… Non posso! Non ho forza! E per giunta non mi si vuol perdonare la mia vecchiaia!». E lei, stanca, forse esasperata, risponde: «Aspetta, abbi pazienza: tra cinque o sei anni sarò vecchia anche io».
Degna chiusura di una discussione ancora, tristemente, aperta.
In copertina: Glenda Jackson e Ruth Wilson, protagoniste di un allestimento di ‘King Lear’ diretto da Sam Gold a Broadway nell’aprile del 2019. (ph. Annie Leibovitz, ‘Vogue’, Aprile 2019)