“Je me suis dit qu’on écrivait toujours sur le corps mort
du monde et, de même, sur le corps mort de l’amour.”
Marguerite Duras, L’été
Come ha scritto Roland Barthes, la fotografia «ripete meccanicamente ciò che non potrà mai ripetersi esistenzialmente». Quello che viene rappresentato da Annie Ernaux nell’opera L’usage de la photo, scritta a quattro mani con Marc Marie (Gallimard 2005), è la narrazione sperimentata a partire dalla fotografia. Ernaux compie un salto nell’etere della coscienza, dove la parola si rarefà lasciando il posto a frammenti d’istantanee: in questo andare e venire «fra me e me», alla maniera di Marguerite Duras, l’immagine gioca un ruolo fondamentale in quanto esprime il punto di partenza che trascende la frontiera della semantica per disegnare nuovi significati.

Quattordici fotografie definiscono l’amplesso. Godimento. Passione. Desiderio. Eppure, quello che appare non sempre coincide con ciò che è realmente. E così i vestiti sparpagliati, gli oggetti abbandonati dalla foga del possesso fisico, persino il letto isolato dallo scatto fotografico, tutto è proiettato in una realtà che pur affondando le radici nel presente narrativo, attinge alla memoria personale ora di Annie Ernaux ora di Marc Marie.
Spinta dal tentativo di salvare dall’oblio il momento successivo all’amore fisico, Ernaux inizia a scattare una serie di fotografie ai vestiti ammassati sul pavimento. Era così affascinata dalla bellezza fugace che mai avrebbe potuto lasciare che si perdesse senza memoria: «Fixer, sauver cette beauté fugitive a constitué le premier usage de ces photos», dirà Ernaux in un’intervista subito dopo la pubblicazione del libro. Fissare, salvare la bellezza dall’oblio.

La scrittura di recupero di Ernaux (come la definisce Denis Fernandez-Recatala), che in opere come Il posto, Gli anni, Memoria di ragazza, Una donna e L’evento (tutte tradotte da Lorenzo Flabbi per L’Orma editore) tenta di comprendere una storia passata, attraverso L’usage de la photo costruisce un’architettura narrativa attorno a una storia passionale ancorata al presente. In queste pagine non c’è opposizione tra parole e fotografie: del resto, è la stessa Ernaux ad ammettere che il libro non esisterebbe se non ci fossero le immagini. Ognuna di esse svela quello che Barthes ha chiamato il punctum: taglio, ferita, lacerazione. Gli abiti lasciati cadere con noncuranza sui tappeti, sulle poltrone, la stessa parrucca gettata a terra, tutto non fa altro che rivelare il vuoto di un corpo ferito, costretto a indossare una maschera per nascondere le sofferenze dovute alla chemioterapia alla quale Ernaux si stava sottoponendo, proprio in quel periodo, per combattere il tumore al seno.

Nell’Usage de la photo la contingenza di un momento, l’urgenza della conservazione attraverso lo scatto fotografico per trasformare l’effimero in eterno, è quasi contemporanea alla parola scritta. Difatti, dirà Ernaux, la sola fotografia non è sufficiente a rivestire il ruolo di prova materiale dell’evento, «c’est l’écriture seule qui donnerait un supplément de réalité». Attraverso le quattordici fotografie, Ernaux e Marie attuano una riscrittura, tessendo la trama di una storia a due che diventa storia del singolo. Ogni fotografia diventa la tela di un quadro personale, costituito da sensazioni ed emozioni che riguardano esclusivamente l’io scrivente. Un lavoro a maglia nel quale il lettore non può far meno di trovarsi inestricabilmente coinvolto.
L’esplorazione fenomenologica alla quale si affida Ernaux in nome di un’osservazione che protende a una dimensione analitica affonda le radici in una scrittura etnologica quale modo di catalogazione della realtà «à la fois des éléments pour une étude de l’aliénation et une mise en creux de la distance». Sono parole di Annie Ernaux nel suo «journal d’écriture», L’atelier noir (Éditions des Busclats 2011).
L’affermazione è datata 8 aprile 1982: quel giorno Ernaux scrive del suo approccio a una scrittura etnologica e sociologica, in continua tensione tra indagine antropologica e sacralità della parola scritta. «Aliénation» e «distance» da intendersi come sentimenti che si frappongono tra Ernaux e la sua famiglia, nelle figure specifiche dei suoi genitori. Ernaux avverte un dolore diffuso che trascende l’oggetto del compianto risalendo all’infanzia come momento originario. In questo travagliato lavoro di scavo nel passato, l’autrice non solo rivive a ritroso la sua vita attraverso una serie di ricordi come diapositive messe l’una di fianco all’altra ma costruisce la lingua, una sorta di ricognizione linguistica: «au fond, c’est une question de sincérite de l’écriture».
Se da un lato la sincerità della scrittura ernauxiana lavora con l’immagine, mettendo sullo stesso piano la voce e gli eventi narrati e trasformando la memoria nel campo sul quale si dibatte l’apparente antinomia tra l’urgenza della parola e la necessità di esporsi a partire dalle fotografie («j’entrevois la possibilité de quelque chose d’ethnologie d’après les photos»), dall’altro la continua fedeltà alla verità del suo scritto («écrire pour faire venir un peu de vérité») oscilla tra estensione individuale e collettiva. Da questa mutevole identità fondata sull’alterità, emerge il corpo a corpo con la scrittura. È un processo di esplorazione dall’interno verso l’esterno, a partire dal quale Annie Ernaux colloca l’io in una posizione secondaria e non primaria, rintracciando negli altri il principio attraverso il quale riconoscere se stessa. Da questa prospettiva, Ernaux sembra mettere in atto ciò che Foucault teorizza, nel suo cammino di studi, circa la decostruzione del rapporto tra verità e soggetto nella civiltà occidentale: distanza e allontanamento da sé, proiettarsi in un altrove senza luogo per localizzare e comprendere se stessi. Non solo. La sincerità della scrittura ernauxiana è permeata, per sua stessa ammissione, dalle analisi foucaultiane circa l’etnologia e la psicoanalisi «pour penser l’impensé».
Il risultato di questa scrittura è racchiuso nell’auspicio che Ernaux riporta in esergo al suo libro, L’evento (L’Orma Editore 2019): «che l’evento diventi scritto, che lo scritto diventi evento»: le parole sono di Michel Leiris contenute nel Journal (Gallimard 1992). È qui che scorgo l’incontro tra Annie Ernaux e Michel Leiris. Dal «résidu d’une douleur» di Ernaux (Non sono più uscita dalla mia notte, Rizzoli 1998) e dalle «vivantes cendres, innommées» di Leiris (Vivantes cendres, innommées, Jean Hugues 1961) ha origine l’architettura narrativa delle loro opere. L’autosociobiografia etnografica di Ernaux e l’autoetnografia di Leiris risultano, di fatto, speculari.
Etnologo, sociologo, amico di Bataille, di formazione surrealista, Leiris ha scritto d’arte ed è affascinato dai moti reconditi dell’animo umano. Anche lui, come Ernaux, in continua lotta con la scrittura, un corpo a corpo che Leiris mette in relazione alla tauromachia: il momento in cui l’uomo è prossimo alla morte coincide con la massima esposizione e quindi con la comprensione del significato ultimo del reale che ci circonda. Fin dalle prime esperienze letterarie, l’esposizione autobiografica (relegata in quelle che Aliette Armel ha definito «Dans le secret des origines»: Michel Leiris, Fayard 1997) condurrà Leiris a confrontarsi con i temi irrisolti della sua infanzia, con i suoi fantasmi.

La spedizione Dakar-Gibuti, nella quale si ritrova coinvolto in seguito all’invito di Marcel Griaule per quasi tre anni, dal 1931 al 1934, dà vita a un diario di viaggio (L’Afrique fantôme) redatto quotidianamente e che si rivelerà essere una delle testimonianze più importanti sull’Africa nera francese non solo da un punto di vista etnografico ma anche per le implicazioni linguistiche, sociologiche e psicoanalitiche. Recentemente ripubblicato da Quodlibet nell’edizione arricchita e curata da Barbara Fiore, che firma anche un saggio critico dal titolo Fantasmi d’Africa, L’Africa fantasma è altresì accompagnata dal testo del curatore francese di Leiris, Jean Jamin, e da una selezione di fotografie in gran parte inedite.
Arruolato nella spedizione con l’incarico di segretario e storiografo, Leiris si occupa anche dell’archivio fotografico e dell’organizzazione del materiale informativo. Proprio le fotografie rappresentano la chiave di lettura dell’intera opera. Pur essendo realizzate da Marcel Griaule, Eric Lutten e dallo stesso Leiris, le fotografie vengono attribuite tutte a Griaule e, nell’intento specificatamente scientifico della spedizione, rappresentano un punto di vista estremamente oggettivo. Nonostante ciò, alcune immagini, molte delle quali presentano diverse angolature per uno stesso soggetto, rivelano lo slancio surrealista di Leiris, ma è soprattutto nella scrittura in accompagnamento ad esse che la sua individualità emerge. Una scrittura che, se pecca (come lo stesso Griaule lo accuserà) di mancata scientificità, è pur vero che trabocca di quella soggettività portata agli estremi che è la sola strada, secondo Leiris, per raggiungere l’oggettività.
Il diario di viaggio espone i desideri, le ansie e i disagi di un ragazzo che tenta di comprendere l’assenza ontologica dell’essere cercando nella scrittura un mezzo per esorcizzare le sue crisi depressive ed esistenziali, quelle che la stessa Armel ha definito un vuoto profondo nel quale lui stesso non riesce e ritrovarsi. Eppure, c’è qualcosa che provoca in lui un’agitazione maggiore delle parole, qualcosa in grado, scomodando nuovamente Barthes, di raccontare «l’indicibile che vuole esprimersi»: si tratta della fotografia quale prova empirica di una religiosità che Leiris non ha mai incontrato a Parigi. La sacralità nel quotidiano unita alla indebita appropriazione di oggetti simbolici (il furto era una pratica incoraggiata, se non esercitata dagli stessi organizzatori della spedizione) accentua in Leiris quelle crisi psichiche di cui già soffriva a Parigi.
L’Africa fantasma svela una scrittura capace di analizzare le tracce di un io sepolto, orientandosi verso quell’autobiografia transpersonale che sarà praticata in seguito da Annie Ernaux. Come l’io di Ernaux si traduce in un io collettivo attraverso una trasposizione letteraria che riscrive la soggettività in virtù di un «je transpersonnel» (Vers un je transpersonnel, in Autofictions & Cie, a cura di Serge Doubrovsky e Jacques Lecarme, Nanterre, Université Paris X, 1993), l’autobiografismo di Leiris ricorre a una continua dissoluzione del soggetto. L’edificio narrativo di Ernaux e di Leiris si fonda su una scrittura ancorata a un dolore ancestrale, una scrittura che ha lo scopo di catturare l’essenza degli eventi, fermando l’immagine nella memoria allo stesso modo di come la macchina fotografia ferma l’istante da ricordare. Per entrambi si tratta di un lavoro di scavo e di recupero che tende a portare alla luce il sostrato emotivo.
Nell’Usage de la photo così come tra le pagine dell’Africa fantasma, scrittura e immagini danno corpo e forma all’invisibile e all’indicibile permettendo di ripensare l’assenza, la morte e la sacralità del corpo. I vestiti ammassati sul pavimento e fotografati da Ernaux assurgono a reliquie rasentando la stessa simbologia degli oggetti fotografati in Africa dai compagni di (e dallo stesso) Leiris. Nelle foto scelte da Ernaux e Marie, il corpo è presente nell’assenza. Le sagome spogliate dal calore umano restituiscono quelle sensazioni che incontriamo nella Ernaux degli Armadi vuoti e nelle significazioni personali e segrete leirisiane che rivestono le parole «maison vide». «Rien de nos corps sur les photos. Rien de l’amour que nous avons fait. La scène invisible. La douleur de la scène invisible. La douleur de la photo»: è il dolore riversato sulla carta da Ernaux. La sofferenza per il corpo che diventa preludio di una morte annunciata si confonde con lo smarrimento di Leiris mentre si trova nel cuore dell’Africa francese, «quell’Africa in cui avevo trovato molte cose ma non la liberazione».

In copertina: Annie Ernaux, 1958