Inesplicabilità dell’immagine

L’Annunciazione dell’Osservanza di Francesco del Cossa

Vi sono immagini che mantengono nei secoli un fondo irriducibile di inesplicabilità, una sorta di segreto o di mistero che non cessa di sorprendere – e perfino di entusiasmare – chi si dispone a coglierlo nella sua evidenza di elemento ben visibile (come è visibile l’immagine) e tuttavia in ampia misura “imprendibile”, cosí potente da negare perfino la piena visibilità dell’immagine che lo accoglie. Fu cosí credo, lungo un percorso di oltre trecento anni, per lo specchio che è cuore e motore di Las Meninas di Velázquez (1656), riconosciuto come tale (come specchio) solo da Michel Foucault nel 1966 (introduzione a Les mots et les choses) e tuttavia capace di far percepire l’intero dipinto come un “mistero” già da Luca Giordano nel 1692 («È la teologia della pittura» – si dice abbia esclamato il napoletano in visita alle collezioni reali madrilene) e an­cora, sempre stando a testimonianze aneddotiche ma attendibili, da Théophile Gautier in visita al Prado a metà Ottocento: «Ma dov’è il quadro?»

Diego Velázquez, Las Meninas, 1656

Ecco, appunto, dov’è il quadro? E intanto il quadro – enorme e maestoso ­– se ne stava lì, ben squadernato dinnanzi agli occhi del poeta, stupefacendolo. Vale a dire si nascondeva alla comprensione, e quasi si rintanava (facendosi risucchiare tutto) nel punto cieco della propria stessa ragion d’essere, o in quello che almeno per noi oggi è tale. In altre parole, mi pare di poter dire che quel luogo interno (quel “buco” nell’immagine) veniva evidentemente intuíto ben prima della nostra epoca, prima di Foucault e della sua “spiegazione”, e tuttavia restava avvolto nel mistero di una presenza invisibile, manifesto e precluso in un sol tratto allo sguardo efficiente della cognizione piena.

Diego Velázquez, Las Hilanderas, 1657 circa

Ho avuto occasione di ipotizzare in altra sede che Las Hilanderas, ancora di Velázquez – di poco successivo a Las Meninas e ultimo lavoro del genio castigliano – viva oggi per noi nella stessa dimensione in cui viveva Las Meninas ai tempi di Giordano o di Gautier, ossia che quel dipinto vertiginoso e affascinante, che di certo gioca su uno scambio continuo tra ciò che è rappresentato come “reale” e ciò che è rappresentato come “rappresentato” (dipinto su un’altra tela? intessuto in arazzo? evento solo sognato da qualche personaggio della realtà rappresentata, e da noi veduto solo in quanto sogno rappresentato?) ci affascini cosí tanto proprio perché ci avvolge nel suo mistero senza che si possa in alcun modo capire dove quel mistero si annidi. E dunque che Las Hilanderas stia tuttora aspettando il suo rivelatore, colui che un giorno arriverà per tutti a capirne e a spiegarne il significato profondo. En attendant (un nouveau) Foucault, dunque.

Sono esempi per cosí dire estremi, quelli che ho ricordato. Ma aiutano a capire che, assai piú spesso di quanto non si ritenga, le immagini del passato possono funzionare cosí, vale a dire celando qualcosa della loro essenza piú intima agli occhi di ogni osservatore, dunque mantenendo nel loro cuore qualcosa che non si lascia decifrare, che si nasconde pur lasciandosi vedere. Ed anzi io sospetto che il fascino sempre attivo di molte immagini, di quelle che persistono a stregarci, e la loro stessa capacità di “parlarci” di nuovo e sempre, magari a distanza di molti secoli dalla loro invenzione, dipenda esattamente dalla nostra incapacità di capirle del tutto; e credo di sapere che in fondo – nonostante Foucault – nemmeno Las Meninas è oggi per noi un’opera del tutto chiara e decifrabile, giacché se lo fosse non ci affascinerebbe piú.

Francesco del Cossa, Annunciazione, 1470 circa

Sí, le immagini della grande pittura non possono che funzionare in questo modo, quando ancora funzionano. C’è ad esempio un caso di inesplicabilità totale, di cui desidero parlare, che emerge con tutta la forza del­l’e­vi­denza in un celebre e bellissimo dipinto di Francesco del Cossa: l’Annunciazione che è conservata al Gemäldegalerie di Dresda. È stato da tempo accertato che l’opera fu dipinta dall’artista ferrarese per la chiesa bolognese dell’Osservanza, annessa all’omonimo convento, in quanto si tratta con ogni verosimiglianza della grande tavola d’altare rappresentante (appunto) una Annunciazione (dotata di predella con Natività) di cui Luigi Crespi nel 1750 trattò l’acquisto da parte dell’allora Galleria Granducale della città tedesca, con piena soddisfazione del rettore del convento situato su uno dei colli che sovrastano il capoluogo emiliano. In verità l’opera non è citata in nessuna guida bolognese del Seicento (è ignorata anche da Cesare Malvasia nel suo Felsina pittrice) e dunque prudenza vorrebbe che fosse mantenuto aperto un piccolo spiraglio al dubbio. Quel che è certo è che si tratta di uno dei capolavori dell’arte ferrarese del Quattrocento e che il suo autore è Francesco del Cossa, non già perché vi sia una firma o perché lo confermi il Crespi, ma per un’evidenza linguistica e stilistica su cui concordano tutti gli storici moderni che se ne sono occupati, a partire da Giovanni Morelli verso la fine del XIX secolo. Precedentemente l’opera era attribuita al Mantegna, forse per la complessità e perfezione prospettica della scena urbana in cui è ambientato l’an­nun­cio e per la qualità stilistica altissima. Quanto alla datazione esatta, vi è tuttora qualche disaccordo, dato che Francesco del Cossa ha operato a Bologna sia prima sia dopo aver contribuito in modo determinante al ciclo di Palazzo Schifanoia (che risale al 1469, data ampiamente documentata). Precedente di poco (1465-69, come sostiene Andrea Bacchi) o immediatamente successiva (1470-74, secondo l’opi­nione di Alberto Neppi), la Pala dell’Osser­vanza mostra comunque il segno della piena consapevolezza, da parte del suo autore, del metodo “scientifico” di costruzione prospettica perfezionato da Piero della Francesca.

Francesco del Cossa, la Pala dell’Osservanza con la predella, 1470 circa

Quel che infatti (ad ogni modo) già al primo impatto colpisce – nell’Annuncia­zio­ne di Dresda – è sicuramente la spettacolare scenografia in cui i personaggi sono collocati. Edifici di un rinascimento albertiano decisamente sfarzoso, a marcare la presenza di una città moderna e idealisticamente meravigliosa intorno alla dimora di Maria, a dir poco principesca, vengono restituiti con una esattezza geometrica che impressiona l’osservatore. Certo Piero della Francesca (che è notoriamente alla base di ogni esattezza di quel tipo) fin da trent’anni prima non era meno lucido e meticoloso nel dipingere ambienti architettonici complessi, e d’altra parte vero è ancora che “la chiara regola solare” (come la chiamava Roberto Longhi) si era ormai diffusa nelle avanguardie pittoriche dell’Italia intera al tempo in cui il Cossa realizzò l’Annunciazione. Ma, come sostiene anche Bacchi [1991], quest’ultima mostra ambizioni di magniloquenza spettacolare e una “grandiosità” dell’effetto illusivo che non si trovano neppure nelle opere dedicate al medesimo tema da Piero (ad Arezzo) o da Antonello (a Siracusa).

L’angelo Gabriele e la Vergine annunziata sono collocati in un interno signorile, che si presenta a prima vista alquanto ambiguo, data la forte luce che proviene dalle spalle di chi guarda, e che solo (infatti) la presenza di una trave longitudinale, sopra la quale si deve presumere un soffitto, denota come sicuramente “interno”. Maria è collocata oltre una vistosa colonna che interrompe lo spazio dividendolo in due metà esatte nel senso della larghezza, quasi che quella trave (il soffitto di conseguenza) non potesse reggere sui soli muri del palazzo. E se tale scelta appare strana, dato che tende a “separare” i due protagonisti dell’incontro, d’altro canto essa si spiega – mi pare – con la ricerca di un risultato psicologico ben preciso, quello di far sentire lo spettatore inginocchiato nel medesimo spazio dell’angelo, e dunque vicinissimo e pienamente partecipe dell’evento rappresentato. Osservo en passant che la perdita della cornice lignea (che lo stesso Bacchi segnala come sciagurata), non ci consente di capire quanto quell’effetto psicologico fosse potente in origine.

Francesco del Cossa, Annunciazione, 1470 ca. (particolare della chiocciola)

Sul solo frammento rimasto di quella cornice, quello che separa il quadro principale dalla predella, “transita” in trompe-l’oeil una piccola chiocciola (dettaglio curioso e intrigante) la quale appare essa stessa un richiamo alla necessità di ciò che è andato perduto. E d’altronde, se ci si vuol fare un’idea di come una cornice – a sua volta architettonica e dialogante con l’architettura dipinta – possa influire sull’efficacia del dato prospettico-spaziale, basterà pensare all’importanza dell’apparato ligneo che inquadra l’Incoronazione della Vergine di Giovanni Bellini del Museo di Pesaro, opera anch’essa realizzata intorno al 1475, la quale purtroppo viene spesso riprodotta senza la sua struttura d’altare (tagliata dalla fotografia) ma della quale si possono anche reperire illustrazioni complete, se non si vuol fare un viaggio fino a Pesaro.

Tornando all’Annunciazione dell’Osservanza, lo schiacciamento dello spazio (uno spazio ben ampio, in verità) dentro la scatola prospettica prevede la possibilità di descrivere – oltre le grandi finestre posteriori – un buon tratto della “città ideale”. La quale, se da un lato evoca idealmente (appunto) i fasti rinascimentali di nobili e immaginifiche architetture di marca fiorentina, dall’altro allude però realisticamente a Bologna in un minuscolo dettaglio collocato in fondo al cannocchiale della via che si diparte a sinistra della testa dell’angelo. Laggiù, dove termina la città, si scorge infatti un’an­tica porta urbana decisamente felsinea, quasi di certo Porta San Mamolo (oggi demolita), e sotto di essa una coppia di monaci che la stanno varcando: sicuramente monaci del convento del­l’Osser­vanza, situato sull’omonimo colle (che era appunto raggiungibile oltrepassando Porta San Mamolo) del quale il pittore mostra il profilo – eccessivamente roccioso come da abitudini ferraresi ­– giusto oltre la porta.

Francesco del Cossa, Annunciazione, 1470 ca.
(particolare dell’Angelo annunziante con Porta San Mamolo sullo sfondo)

Ciò precisato, si può ben dire che il bellissimo dipinto cossesco non propone di certo una visione “normalizzante” della vicenda mitica dell’annunciazione di Maria. Se è vero che non tutte le Annunciazioni quattrocentesche si preoccupano infatti di rispettare un minimo di plausibilità “storica” nella descrizione dell’evento (in chiave di ambientazione sopra tutto: la casa di un falegname, se non proprio nella Palestina dell’anno zero almeno nell’Euro­pa del secolo XV, ma comunque di un falegname), è altrettanto vero che questa Annunciazione è tra le piú audaci e bizzarre in fatto di non-plausibilità logistica. E aggiungo che la sensazione generale che il quadro suggerisce allo spettatore è quella di trovarsi dinnanzi piú a una messa in scena altamente spettacolare (e retorico-celebrativa di un principio di fede) che non a un evento realmente accaduto che venga immaginato e descritto come tale. Tutto, in altri termini, in questa rappresentazione, rimanda al concetto di “rappresentazione”, quasi che si trattasse per Francesco del Cossa non di rappresentare la realtà – dogma inviolato della cultura pittorica del Rinascimento – ma piuttosto di rappresentare una rappresentazione liturgico-teatrale. La rappresentazione si auto-denuncia insomma come tale, fino a sdoppiarsi in rappresentazione-rappresentante e rappresentazione-rappresentata, mentre la magica scatola prospettica formata dall’insieme delle architetture dipinte comincia a somigliare sempre piú all’allestimento in legno (a sua volta dipinto, inciso, intarsiato, sagomato) di un vero e proprio palcoscenico.

Francesco del Cossa, Annunciazione, 1470 ca.
(particolare dell’aureola dell’Angelo)

Sono ben consapevole dell’opinabilità di quanto vado adducendo. Suggestioni, forse, piú che dati dimostrabili. Ma c’è un dettaglio che secondo me è la vera spia – ciò che vorrei chiamare il punto di catastrofe – dell’immagine e delle sue intenzioni; ed è l’aureola dell’angelo Gabriele. Osservata da vicino, essa non lascia adito ad alcun dubbio: è tut­t’al­tro che un’insegna simbolica e spirituale, dato che si tratta di un disco fisico, lavorato da un fabbro, di metallo giallo ocra (di ottone o forse anche d’oro a bassa caratura), montato su un perno che lo collega a una sorta di copricapo di cuoio che serve a indossarlo. Esaminate con attenzione, quelle cinghie di cuoio attorno alla capigliatura dell’an­gelo risultano sbalorditive: una caparbietà realistica estrema vi è messa in opera all’unico (evidente) scopo di non concedere alibi mentali al­l’osservatore, di renderlo certo al mille per mille chi si tratta proprio ed esattamente di un attrezzo scenico, di un’aureola da performance teatrale, forse da commedia dell’arte. Tutte le “aureole” di tutti i santi e angeli della pittura tardomedievale e rinascimentale si apprestano (piú o meno) a somigliare a un disco d’oro, giacché ­– pur trattandosi di un simbolo – quella “cosa” (simbolo, concetto) dovrà pur essere in qualche modo visibile, ovvero dovrà assumere una consistenza (in qualche misura) materiale se vorrà “mostrarsi” in un dipinto, se vorrà farsi immagine. Ma nessun’altra aureola di nessun altro dipinto, che io sappia, possiede la consistenza metallica, la pesantezza vistosa, di quel disco che orna la testa di Gabriele nell’Annunciazione dell’Osservanza, e nessuna infatti è sorretta da un sostegno-cappello che le consenta di vincere la forza di gravità e di non rotolare a terra. Se poi la si confronta con l’aureola che lo stesso Francesco del Cossa, nello stesso dipinto, ha messo sopra il capo della Vergine, lo stupore si fa ancora piú grande. Perché l’aureola di Maria – al contrario – è delle più spiritualizzate ed eteree che si possano concepire: solo un cerchio lineare diafano, una linea bianca sottilissima e perfino difficile da cogliere, quasi una zona di pura luce in forma di cerchio, la cui area è del tutto trasparente e non impedisce affatto la visione di ciò che sta prospetticamente dietro di lei, il risvolto di una tenda legata da un nastro rosso alla parete.

Francesco del Cossa, Annunciazione, 1470 ca.
(particolare della Vergine annunziata)

Il punto è dunque: come si spiega la scelta di Francesco di donare all’angelo un attributo di tale natura? A mio avviso quella scelta non si spiega affatto. Oppure si spiega avanzando ipotesi che hanno in comune il marchio dell’irrazionale. Ne cito due, giusto a titolo ludico: 1) il Cossa ha dipinto per i monaci dell’Osservanza un fermo-imma­gine di uno spettacolo teatrale (un tableau vivant, se si preferisce) in cui due esseri umani in carne ed ossa interpretano il ruolo di angelo annunziante e di madonna annunziata, all’interno di un palcoscenico in legno che coincide con la pala d’altare, anche se in questo caso pure la Madonna dovrebbe avere un’aureola finta; 2) l’angelo è un impostore, un giovane mascalzone, che si è travestito da creatura divina per ingannare l’ingenua Maria facendole credere di essere stata fecondata dallo spirito santo. Nel primo caso l’opera vira verso il comico, verso la burla; nel secondo naufraga nella blasfemia e nell’ateismo. Ateismo nel cristianesimo? Burla ai danni di una congregazione religiosa cristiana in pieno Quattrocento? Ma chi sarebbe dunque questo Francesco del Cossa per potersi permettere cose simili, per giunta sapendo di rischiare la vita in quanto denunciabile come “eretico”? Perché mai un pittore di quell’epoca – un onesto artigiano alla fin fine, dal punto di vista sociale – dovrebbe sussumere nella propria condotta una hybris che perfino Caravaggio, 130 anni piú tardi, non avrebbe mai osato innalzare a segno di orgoglio artistico da sbattere in faccia ai potenti? È ovvio che non c’è risposta a questa domanda. Non foss’altro perché la domanda va a squarciare qualsiasi “tenuta” della nostra coscienza della storia, è una domanda storiograficamente priva di senso.

Ci sono altre due domande che a mio avviso non trovano risposta intorno al problema, e sono le seguenti. Come hanno potuto i committenti dell’opera non vedere il disco e le cinghie sul capo di Gabriele e accettare il lavoro finito senza battere ciglio? Ovvero, per quale strano e misterioso motivo non hanno imposto all’artista di ridipingere quel particolare cosí raccapricciante? E come hanno potuto – cosa ancora meno comprensibile – gli storici dell’arte, dico tutti gli storici dell’arte che hanno studiato e descritto l’opera, ignorare la presenza di un simile luogo di catastrofe? Ho consultato in modo meticoloso le piú importanti monografie dedicate al maestro ferrarese, cosí come i principali libri che trattano la pittura estense del Quattrocento… Nessun autore, dico nessuno, indica l’au­reola dell’angelo come qualcosa di strano; anzi, nessuno ne parla, non vi è il minimo cenno a quel dettaglio incomprensibile. L’aureola semplicemente non viene mai nominata. Non ne parlano i già citati Neppi (1958) e Bacchi (1991), non ne parla Eberhard Ruhmer (Francesco del Cossa, 1959), né si trova il minimo cenno nella scheda del volume dei Classici dell’arte Rizzoli (Rosemarie Malajoli, 1974), e neppure da parte di Katja Conradi (Malerei am Hofe der Este, 1997) o di Franca Varignana (Tre artisti nella Bologna dei Bentivoglio, 1985). Roberto Longhi (1934) dal canto suo riesce per lo meno a stupirsi del nostro Gabriele in generale, che definisce «angelo ragazzo [con] la sfrontatezza incolpevole di un sergente aviatore» – e chissà che sul formarsi di quella bizzarra idea di un “sergente aviatore” non abbia avuto un influsso psicologico proprio la stranezza del copricapo angelico, accostabile in qualche modo alle cuffie di cuoio che indossavano i piloti d’aereo negli anni in cui Longhi era pure lui un ragazzo (o poco piú)? Ma infine non ne parla nemmeno Daniel Arasse nella sua preziosa opera sui dettagli nella pittura (Le détail: pour une histoire rapprochée de la peinture, 1992), laddove evoca sí il nostro dipinto, ma solo al fine di segnalare in esso la bellezza e la singolarità dell’escargot che passeggia tranquillamente sulla cornice.

Un elemento cosí drasticamente evidente, cosí straordinario ma oggettivamente presente – squadernato davanti agli occhi di chiunque guardi il dipinto (anche solo in foto) – non è stato infine segnalato in alcun modo dagli storici dell’arte. Perché? Che l’abbiano visto non può in verità mettersi in dubbio… L’hanno dunque considerato normale? O hanno preferito fingere di non vederlo per evitare di doverne spiegare le ragioni, ben sapendo che è impossibile farlo? È una fuga dalla realtà del dato visivo che si motiva solo come assoluta inesplicabilità del­l’immagine. L’assurdo (o comunque l’elemento di cui non ci si riesce a fare una ragione) è lí, espresso e ostentato da un dipinto che ce lo propone e ce lo impone fino a sfondarci gli occhi, e nessuno osa nominarlo. Noi l’inesplica­bile lo vediamo, quasi ne tocchiamo con mano lo spazio, e possiamo esperirlo fino in fondo, ma non per questo riusciamo a racchiuderlo nelle strutture di un discorso logico che lo renda meno oscuro. Esattamente come l’abisso nietzschiano, che costringe il nostro sguardo a rovesciarsi su noi stessi mentre noi cerchiamo di sondarne la profondità senza riuscirvi.

Bibliografia essenziale

Daniel Arasse, Le détail: pour une histoire rapprochée de la peinture, Paris,
Flammarion, 1992.

Andrea Bacchi, Francesco del Cossa, Cremona, Edizioni del Soncino, 1991.

Katja Conradi, Malerei am Hofe der Este, Hildesheim, Georg Olms Verlag, 1997.

Roberto Longhi, Officina Ferrarese, Roma, Edizioni dell’Italia, 1934, poi (con i Nuovi ampliamenti) Firenze, Sansoni, 1956.

Rosemarie Molajoli, Cosmè Tura e i grandi pittori ferraresi del suo tempo, Classici dell’arte, Milano, Rizzoli 1974.

Alberto Neppi, Francesco del Cossa, Milano, Silvana Editoriale, 1958.

Eberhard Ruhmer, Francesco del Cossa, München, Verlag Bruckmann, 1959.

Franca Varignana, Tre artisti nella Bologna dei Bentivoglio: Francesco del Cossa, Ercole de’ Roberti, Niccolò dell’Arca, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1985.

(Ferrara, 1954) è autore di diversi volumi di saggistica: “Prose per l’arte odierna”, Essegi, 1989; “Monet. La vita e l’opera”, Mondadori, 1992; “La concreta utopia. Arte d’avanguardia in Russia 1905-1930”, Pendragon, 1994; “Per una logica della pittura”, B.U.P., 2006; “Critica della rappresentazione. Poetiche pittoriche della prima avanguardia”, Zona Editrice, 2009; “Futuri Maestri” (con Flavio de Marco), Editrice Salentina, Lecce 2017. Ha inoltre pubblicato alcuni libretti di poesia e prosa, e testi critico-teorici su varie riviste di arte, di letteratura e di cinema («Il Verri», «Rivista di Estetica», «Testuale», «Altri Termini», «Corposcritto», «Hortus Musicus», «Carte di Cinema», «Rifrazioni»). Vive a Parigi.

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