Volti si trasformò in qualcosa di più di un film: divenne un modo di vivere.
John Cassavetes è nel ventre della vacca. Non tiene ancora Hollywood per le palle ma è dentro. Ha capito come funziona il sistema. Per un tipo in gamba come lui è questione di tempo e la farà da padrone. Dovrà solo smussare qualche spigolo del suo caratteraccio. John ha 32 anni, quattro mesi, quattordici giorni di vita. È il 23 aprile 1962. Uno di quei giorni che stabiliscono un prima e un dopo nella vita di un artista.
Un piccolo flashback. Chi è quel 23 aprile John Cassavetes? Un attore affermato e un cineasta di belle speranze. Ha lavorato con registi del calibro di Don Siegel, Martin Ritt, Robert Parrish ed è già autore di un cult, Ombre (1959), il primo film narrativo dove finalmente lo spirito della musica jazz elettrizza la sintassi filmica. Ombre è un lungometraggio indipendente prodotto con circa tremila dollari, raccattati grazie a un annuncio radiofonico, realizzato tra il ’57 e il ’58 per le strade di New York. Ombre fu girato in 16mm e gonfiato in 35mm con i proventi di Johnny Staccato, una serie televisiva dove Cassavetes recita nei panni di un detective privato e pianista jazz. Cinque puntate della serie portano la sua firma come regista. Ma torniamo a Ombre: al festival di Venezia, edizione 1960, il film si becca il premio della critica, qualche mese dopo che Jonas Mekas – il guru lituano del cinema underground a New York – aveva urlato all’evento davanti a una prima versione dell’opera.
L’Europa e la critica si sono accorte di Cassavetes. Hollywood lo punta. Per la Paramount scrive e dirige Blues di mezzanotte (1962), un film più ingessato di Ombre ma bello e amaro, con affondi e dilatazioni sbalorditive per il cinema hollywoodiano di allora. Blues di mezzanotte ha per protagonista un pianista jazz – encore – e parla di sogni infranti e prostituzione del talento. Al botteghino è un flop pauroso. Cassavetes pensa di essere finito a Hollywood. Ma non va così. Ha ancora il vento in poppa. Ha talento e istinto e fascino da vendere e con Blues di mezzanotte ha dimostrato, tutto sommato, di saper stare al gioco. John continua a rappresentare un buon investimento per la Paramount, il migliore a portata di mano per conquistare nuove fette di mercato in un settore alla moda: il film d’arte a bassissimo budget. Così, con sorpresa del cineasta, la Paramount rilancia offrendogli un contratto a lungo termine. John accetta e s’impegna in un nuovo progetto da cinque milioni di dollari, The Iron Men, un film ambientato durante la seconda guerra mondiale e incentrato su uno squadrone di bombardieri di colore.
Quando la preparazione della pellicola giunge a un punto morto, Cassavetes riconsidera un progetto già avviato che gli era stato proposto dalla United Artists qualche tempo prima: Gli esclusi, un film sui bambini affetti da ritardo mentale. Il tema lo tocca profondamente. Cassavetes si lascia convincere dalla United, società decisamente più “liberal” della Paramount, con la quale del resto non c’è un accordo di esclusiva. Ma forse è più corretto dire che si lascia convincere da Stanley Kramer. Oltre a essere il produttore degli Esclusi, Stanley è a sua volta un regista. Con lui John si sente al sicuro. Stanley Kramer è uno che ha fiuto ed esperienza: ha già prodotto Mezzogiorno di fuoco (1952) e Il selvaggio (1953) e dirigerà film come La nave dei folli (1965) e Indovina chi viene a cena (1967). La collaborazione parte sotto i migliori auspici.

Firmato il contratto per dirigere Gli esclusi, Cassavetes si ritrova alle prese con due star, Burt Lancaster e Judy Garland. Ci mette poco a inimicarsele entrambe. Le riprese sono un massacro. Cassavetes prova a trasformare la negatività che si sviluppa sul set in qualcosa di buono per il film. Alimenta l’insicurezza della Garland che aizza contro Lancaster. I divi però fanno fronte comune contro di lui. Finite le riprese, sono tutti a pezzi. Ma il film c’è e John si sente sostenuto dal suo produttore. Stanley gli dimostra comprensione e solidarietà. John si fida e si affida così tanto a lui da mandare definitivamente a quel paese la Paramount, l’ovile dove sarebbe dovuto tornare dopo la parentesi degli Esclusi. Pregusta un roseo futuro alla United Artists. Dai primi di marzo a metà aprile del 1962, il regista monta la pellicola in vista di un’importante proiezione di prova che si terrà a Los Angeles il 23 aprile. È un tour de force ma il cineasta riesce a consegnare per tempo il film montato.
Il luogo della proiezione è un’ampia sala della MGM. Il proiettore inizia a sputare il suo fascio di luce pulviscolare contro lo schermo. Ciò che però prende forma nell’oscurità della sala non è il film di Cassavetes. Per mano dei suoi tecnici, Stanley Kramer ha rimontato in fretta e furia Gli esclusi, senza dire nulla al regista. Eppure, quel fatidico 23 aprile, John l’imboscata se l’aspettava. Aveva ricevuto una soffiata telefonica il giorno prima, la domenica di Pasqua. Era preparato al peggio, dunque, ma non per questo gli avrà fatto meno male vedere il suo film manomesso, trasformato nel film di Stanley Kramer. Un film più sentimentale del suo, quello di Kramer, farcito di primi piani che toccano il cuore e strappano ai più sensibili una lacrimuccia. Durante la proiezione, Kramer è attorniato da un manipolo dei suoi uomini, pronti a mettere in minoranza il regista in caso di discussione. Cassavetes si pappa Gli esclusi senza fiatare. Rabbioso come un cane con la rabbia. Mettiamoci nei suoi panni di regista beffato. Proviamo a intercettare qualcuno dei pensieri che devono essergli passati per la testa in quei tormentosi minuti. Ho immaginato cosa, in quei minuti fatali, John s’è detto tra sé e sé.
Stai calmo, sii freddo. Stai per compiere gli anni di Cristo, devi essere lucido, non puoi fare il pazzoide come al solito. Non te lo puoi più permettere. Hai comprato casa a Los Angeles, hai una moglie fantastica e un figlio e non vuoi fermarti a uno. Non mandare tutto a puttane. Stavolta non sei tu quello che ha il coltello dalla parte del manico. Ricordati chi comanda. Stanley non è il peggiore. Fa quello che deve: obbedisce alla politica aziendale. È meglio di altri. Sii comprensivo, davanti al piatto che gli hai servito si sarà detto: come cazzo lo distribuisco un film così divergente su un tema così delicato, con dei bambini ritardati che rubano la scena a due divi di Hollywood? È una cosa che non si fa. Cosa ti aspettavi? Okay, Stanley ti ha fregato. Ma non dev’essere stato facile per lui piazzartelo in culo. Sono le regole del gioco e tu hai scelto di giocare. D’accordo, questo non è più il tuo film ma sii obiettivo: non è mica un film di cui vergognarsi, c’è ancora dentro qualcosa di forte, qualcosa in cui puoi identificarti. Fa’ uno sforzo. Fatti passare l’incazzatura e vedrai che tutto si aggiusta. Respira. Hai fatto di peggio. Hai fatto Johnny Staccato: roba scadente, sceneggiata con i piedi, un fallimento su tutti i fronti, ma eri al verde e con quei benedetti quattrini hai ultimato Ombre. Ecco, lì mi piacevi, quello era uno che sapeva vivere: un colpo al cerchio, uno alla botte e tutti contenti. Non ti metterai adesso a fare lo stinco di santo. Il purista. Chi ti credi di essere? Vuoi la libertà? Ti sfracellerai. Fila dritto. C’è tempo per l’arte. Fa uomo di mondo, siilo. Mai sputare nel piatto in cui mangi: è la regola numero uno. Vuoi rinunciare al tuo lauto stipendio di regista con tutti i cani all’osso che ci sono? New York trabocca di bravi registi che darebbero un testicolo per essere dove sei tu ora. Ingoia il rospo, i capoccia apprezzeranno. Preparati per il prossimo film: lì avrai più forza contrattuale. Fingi di esserti fatto tagliare le palle: in realtà condurrai tu le danze. Lo sai, i produttori sono bambinoni che vanno rassicurati. Rassicurali! Dimostra loro che non sei un bisbetico indomabile ma uno che sa guardare le cose in prospettiva. Sei o non sei un attore professionista? Funziona così, un passo per volta. Sii pratico. John Huston, Nicholas Ray, il tuo amico Don: pensi che loro non se la siano fatta la loro bella scorpacciata di merda? Non fare lo schizzinoso. Lo so. Lo so che tu ti senti della razza di Welles, ma è meglio non pensare a lui, certi pensieri fanno male alla salute. Orson era un dio alla RKO e ha mandato tutto in fumo. Guardalo adesso. Guardalo bene: il più grande regista vivente costretto a recitare in filmacci e pubblicità per fare cassa e portare a termine i suoi capolavori. Certi colpi di testa si pagano salati, caro mio. Hai esaurito i bonus. Sii autocritico. La Universal ti odia: hai fatto cancellare Johnny Staccato dopo ventisette episodi, hai rescisso il contratto e ti sei tirato fuori perché la serie non ti andava a genio, mancava di originalità e coraggio – ma dico io: cosa ti aspettavi dalla televisione? La Paramount ti odia: proprio mentre ti dava una seconda chance, l’hai schifata per la United. Non puoi tirare la corda più di così: si sta spezzando. Sei appeso a un filo. Hai sangue greco nelle vene! Dimostra di avere in quella zucca un pizzico dell’antica saggezza ateniese, non fare sempre lo spartano del cazzo. Stasera si recita a soggetto e sarà una delle interpretazioni più importanti della tua vita, questo è poco ma è sicuro. Lasciati dire cosa stai per fare: aspetta educatamente che le luci si accendano, avvicinati a Stanley senza ombra di rancore, fagli uno dei tuoi sorrisetti da figlio di puttana che la sa lunga, da uno che ha capito cos’ha fatto, cos’ha dovuto fare, e perché lo ha fatto. Fagli capire che non gliene vuoi, che siete sulla stessa barca, che giocate la stessa partita. È fondamentale se vuoi l’happy end. Rinnova il vostro sodalizio con un drink, uno solo, e dopo il brindisi dritto a casa. Gena è in apprensione. Tranquillizzala. Portala a cena fuori, scolatevi una bottiglia di vino francese, fa’ l’amore con lei. Quella donna è il massimo, l’hai capito alla prima occhiata, e tu l’hai trascurata nell’ultimo periodo. Sii fatalista, per la madonna. Oggi è andata così ma domani è un altro giorno. La coscienza si smacchia. Non stai ammazzando nessuno. Non hai venduto l’anima, l’hai soltanto data in prestito. La riscatterai. Non fare il bacchettone che si sposa con una puttana ripetendosi: io la cambierò. Hollywood è una puttana e tu… Tu non la cambierai. Scordatelo. Sei un ragazzo grande e questa è la verità vera. Abbi il coraggio di guardarla in faccia. O dentro o fuori. Fuori è pieno di idealisti velleitari con le pezze al culo.

Ma quella testa dura di Cassavetes non ascoltò questa vocina piena di buon senso. Quando le luci si accesero, dopo un timido applauso, furibondo John si avventò su Stanley Kramer e lo afferrò per il collo. «Togli il mio nome da questo film», gli intimò prima di uscire dalla sala. Kramer lo seguì. Il regista ricorda di aver pensato: «Se gli dò un pugno, non riuscirò mai più a lavorare. Se non glielo dò, non riuscirò mai più a respirare». Così gli mollò un pugno bello forte in piena faccia. I due si pestarono con violenza, fu una scazzottata memorabile. Stanley era un osso duro ma John non era da meno. Ammaccato, Cassavetes entrò nel ristorante cinese dall’altra parte della strada, si chiuse in bagno e lì vomitò l’anima. Sapeva di essersi bruciato e stavolta non s’ingannava sulle sue sorti: stavolta a Hollywood era finito sul serio. Con quello che aveva combinato e Kramer che iniziò a fargli il deserto intorno, non lo avrebbero voluto nemmeno come doppiatore di una pubblicità di zuppe in scatola. Si sparse la voce che, oltre a essere un violento e un ingestibile, era un regista senza talento. Per anni il telefono non squillò. Furono anni difficili. Anni di considerazioni profonde. Furono anni epici.
Furono anni in cui Cassavetes capì cose fondamentali. Capì la differenza tra un film hollywoodiano e un film profondo su un argomento difficile: ciò che sarebbe stato Gli esclusi se non glielo avessero strappato di mano e glassato per grandi e piccini. Capì di essere incapace di compromessi artistici perché a furia di compromessi un artista perde ciò che lo rende un artista. Capì che l’unica censura alla quale un artista deve assoggettarsi è quella che viene dalla propria coscienza o incoscienza. Capì che la gran parte dei registi sono dei vigliacchi che si lamentano e parlano di libertà ma non hanno il coraggio di conquistarsela. Capì di non essere uno di loro. Capì di essere un attore professionista e un regista dilettante. Capì di voler essere e restare un regista dilettante: «Quando sei un professionista ti interessano due cose: il lavoro in sé e quello che puoi ricavarne. Quando sei un dilettante ti interessa solo quello che stai cercando di realizzare». Capì di essere costretto, come Orson Welles, a essere un attore professionista per poter essere un regista dilettante. Capì che soltanto nei propri film poteva prendersi il lusso di essere un dilettante sia come regista sia come attore. Capì perché Orson Welles era il più grande, perché era Orson alias Kane alias Macbeth alias Quinlan alias Otello alias Arkadin alias Falstaff e nessun altro l’idolo con cui misurarsi: il golden boy più prodigioso che Hollywood rammenti, il quale non esitò a prostituire attorialmente il proprio ghigno irresistibile e il girovita pantagruelico, ma lo fece per realizzare un cinema a prova di macchia, bigger than life and other catastrophes. Capì che combattere contro il sistema è una scelta perdente: avrebbe combattuto fuori dal sistema, ai margini: solo lì sarebbe stato libero.
Dal 1962 al ’64 Cassavetes lavoricchiò soltanto come attore: qualche apparizione televisiva e una parte in Contratto per uccidere (1964) di Don Siegel. Intanto pensava al suo film successivo e quel film sarebbe stato Volti. Produttivamente si stava lanciando in un’impresa impossibile, in un buco nero: un film girato in casa e finanziato da lui stesso. Un avvocato dello spettacolo lo sconsigliò: dal un punto di vista giuridico, una pellicola così concepita era senza precedenti, un salto nel vuoto. Più di uno gli diede del pazzo. Non era la prima volta. Ma Cassavetes non era mai stato così lucido. Lucido e risoluto. Questa la domanda che rivolse a Gena Rowlands, sua moglie: «Sei disposta a rinunciare a ogni lusso per i prossimi due anni e a investire tutto quello che abbiamo in questo film?». La signora Cassavetes rispose di sì, a patto di non dover privarsi del parrucchiere, «Quello non si tocca!».

Cast e troupe lavorarono gratis, senza contratti – prassi che violava le norme del sindacato degli attori e provocò le ire di Charlton Heston, Ben Hur e presidente della Screen Actors Guild, che minacciò di fare causa a Cassavetes. La troupe era composta da non professionisti e vi fu un impressionante avvicendamento di anime durante le riprese – un diciottenne di nome Steven Spielberg finì sul set come ragazzo tuttofare ma durò tre giorni. Le riprese si svolsero soprattutto di sera: gli attori e i tecnici dovevano mantenere di giorno i lavori che davano loro da vivere. Gena Rowlands recitò in stato interessante. Cassavetes acquistò attrezzature di seconda mano e tornò a girare in 16mm, dopo due film in 35mm. Gli amici lo aiutarono come poterono.
Il cineasta era l’unico finanziatore di un film che doveva durare trentacinque giorni di ripresa con un budget di 10 mila dollari e che invece si protrasse per sette mesi e costò 225 mila dollari. In fase di montaggio, il laboratorio minacciò di trattenere la pellicola se Cassavetes non avesse pagato il conto crescente. «Fui costretto a supplicare, chiedere prestiti, rubare. Quando credo davvero in qualcosa sono capace di diventare un assassino. Ho imbrogliato i miei amici. Ho preso prestiti dalle banche senza garanzia». Nei quattro anni che ci vollero per portare Volti dalla pagina allo schermo, Cassavetes fece carte false, letteralmente. Si espose alla rovina, professionale e finanziaria. «Fu il periodo migliore della mia vita», osserverà a freddo. Per lui Volti era qualcosa di più di un film: «divenne un modo di vivere».
Volti fu girato in sequenza, senza direttore della fotografia, in stile documentario. Cassavetes se ne fregò di creare belle immagini, belle secondo i parametri della Mecca del Cinema. Scelse la potenza e l’autenticità. Lavorando sull’improvvisazione creativa, Cassavetes ha usato la cinepresa come cassa di risonanza dell’attore e l’attore come uno strumento a fiato e l’ha spinto – questo strumento a fiato e riso e lacrime e strepiti – verso acuti espressivi e abbandoni free inediti nel cinema. Con Volti JC s’è consacrato John Coltrane della settima arte.
Il primo montaggio durava otto ore, il secondo sei e mezza, il terzo tre ore e quaranta minuti, il quarto tre ore e tre minuti, il quinto un’ora e cinquanta, il sesto – quello definitivo – due ore e nove minuti. Il film ottenne una nomination agli Oscar per la migliore sceneggiatura originale e John Marley prese il premio per la miglior interpretazione maschile al festival di Venezia. Ma Volti fu non solo un successo artistico, fu anche un exploit commerciale. Uscito in sordina nel settembre del 1968, un anno dopo questo lungometraggio fatto in casa era il film del momento a Manhattan e stava incassando sei milioni di dollari, cifra senza precedenti per un film indipendente.

È stato un pugno a decidere il destino di JC o perlomeno a dare un impulso decisivo – con la definizione che Jorge Luis Borges dà di Destino (con la di maiuscola) in Storia universale dell’infamia (1935) – «all’infinita opera incessante di migliaia di cause rimescolate» per cui oggi, ai nostri occhi, John Cassavetes è John Cassavetes. In altre parole, se quel fatidico 23 aprile l’autore/attore non avesse picchiato Stanley Kramer, se cioè non si fosse bruciato i ponti alle spalle spingendosi verso il punto di non ritorno, è probabile che oggi guarderemmo a lui in maniera diversa: come a un rispettabile artigiano della settima arte finito nel dimenticatoio, uno dei tanti prodigi addomesticati da Hollywood, un ragazzaccio di strada il cui ispirato azzardo di gioventù (Ombre) gli era valso l’ingresso nell’establishment, tra i registi perbene. Ma Cassavetes non era un artista castrabile. Rischiò tutto e divenne ciò che sentiva di essere: il venerando regista di Volti e poi di Mariti (1970), Una moglie (1974), Assassinio di un allibratore cinese (1978) e di altri due o tre titoli a prova di obsolescenza.
Questi magnifici film nati fuori da Hollywood diedero un forte impulso al rinnovamento del cinema hollywoodiano che si ebbe nel corso degli anni Settanta. I registi della New Hollywood videro in JC un anticipatore, un ispiratore, un faro, una sorta di Jesus Christ anti Star System. La sua lotta per la libertà avrebbe giovato al cinema di Altman Boorman Cimino Coppola De Palma Friedkin Scorsese e di altri promettenti emergenti. Naturalmente c’è libertà e libertà. C’è la libertà dentro il sistema e c’è la libertà fuori dai ranghi. C’è la libertà dentro i generi e c’è la libertà non sforbiciabile del cinema sui generis di quell’outsider irraddrizzabile di John Cassavetes.
Il che non toglie che quella della New Hollywood fu una stagione gloriosa, un vertice della storia del cinema. Le Majors garantirono ai registi un margine di manovra mai visto prima. Né dopo, giacché alla rivoluzione seguì il terrore e il terrore, generatore di catatonia artistica, è tuttora imperante. Gli anni Ottanta furono anni bui, di restaurazione. Gli Studios si ripresero con gli interessi la libertà concessa e ficcarono i film dentro stampi forgiati a misura dell’oscurantismo dei tempi. La politica degli autori finiva nella macina di una legge di mercato che tratta lo spettatore medio alla stregua di un decerebrato consumatore da mitragliare con colpi di scena uno più puerile dell’altro, da sottoporre a un’evasione che lo ripiombi acriticamente nei metri quadri della sua vita consolidando di questa vita la medietà, da solleticare col più trito canovaccio erogeno, da edificare con tanto di lacrimuccia e – dulcis in fundo – da far ridere, non importa se a crepapelle o sotto i baffi, tutto fa brodo purché lo spettatore rida, perché ridere, produttivamente parlando, vuol dire una cosa sola: vendere.
E fu così che – svanita l’illusione libertaria all’ombra delle Majors e nondimeno delle Minors – il cinema e l’arte tornarono ai loro focosi appuntamenti clandestini fuori dagli Studios, lontano dal Mainstream.

In copertina: John Cassavetes