Una pièce muta

Fino ad allora le pièces di Handke erano state paesaggi sonori fatti di sola voce. Con Il minore vuole essere il tutore, scritto nel 1968, la voce è del tutto sospesa per dare spazio a una drammaturgia visuale, la cui dimensione sonora è costituita soltanto da un brano strumentale, ripetuto per alcuni tratti dello spettacolo: Colors for Susan di Country Joe and The Fish, tratto dal LP I Feel Like I’m Fixin’ To Die uscito un anno prima. Dunque non si tratta propriamente di una pièce vocale, ma di un testo che riprende, trasformandoli, alcuni tratti costitutivi di questo genere creato da Handke: abbiamo, ad esempio, l’esposizione del potere del linguaggio, ma questa volta non di quello parlato, bensì di quello del corpo; abbiamo l’esibizione del corpo come oggetto e medium del linguaggio, come fonte fisiologica non però della parola parlata, bensì, appunto, della voce muta della lingua eloquente dei gesti. Il testo si legge come una lunga didascalia che fornisce istruzioni per una pantomima per due. Gli attori indossano abiti da lavoro e una maschera, che copre la parte superiore del volto. Sono loro che portano sulla scena gli oggetti necessari per lo spettacolo e che, quando si tratta di riorganizzare il palcoscenico, muovono scenari che sono fin da subito riconoscibili come scenari teatrali. Il teatro si esibisce chiaramente come teatro.

Il lettore si trova alle prese con una descrizione in cui un’istanza narrativa che parla alla prima persona plurale illustra con minuzia scenari e oggetti di scena, ma soprattutto l’aspetto, le posizioni, i movimenti dei personaggi. La lingua è a bassissimo livello metaforico e forse soprattutto per questo molte delle cose che vengono descritte sfuggono a un’attribuzione immediata di significato, sembrano prive di sensi simbolici, e presentate soltanto per quelle che sono: azioni, gesti e oggetti teatrali che sono comprensibili per sé stessi, che sono semplicemente quel che rappresentano: azioni, gesti e oggetti teatrali e nient’altro, da godere come tali, esteticamente, cioè come qualcosa di «bello» e di «teatrale», come dice Handke in un’intervista[1].

Come mostrano alcune sue recensioni teatrali di quegli anni, egli è fortemente affascinato da forme di teatro che propongono azioni astratte da ogni contesto narrativo e drammaturgico, azioni che, poiché non sono finalizzate al racconto di una storia, alla riflessione su un tema, sembrano esibire nient’altro che sé stesse, sembrano essere prive di significato. Ma proprio per questo – dice Handke riflettendo sull’insignificanza delle performance circensi – esse appartengono «al tempo del singolo», cioè lasciano al singolo il tempo e lo spazio per una concretizzazione, per l’attribuzione di un significato che è personale, cioè, appunto, elaborato dal singolo, e non è invece un significato che a quelle azioni è stato conferito espressamente e intenzionalmente da chi le ha immaginate e messe in scena[2]. Lo spettatore è lasciato solo con sé stesso, dice Handke, parlando del Bread and Puppet Theater. Essere lasciati soli vuol dire non essere guidati nell’attribuire un significato a ciò che si vede, vuol dire non riuscire a conferire un significato a quel che si sta guardando o ascoltando, vuol dire non guardare e sentire un significato, ma percepire veramente qualcosa e, appunto, non il suo significato, vuol dire che ogni movimento, ogni gesto, ogni rumore, poiché non porta a nulla, non significa nulla, comincia a significare per sé stesso, diventa per sé stesso una storia. «Una mano che si solleva è una storia», scrive Handke. «Una storia molto avvincente è un martello che batte sul ferro». Quando il desiderio o l’atto automatico di assegnare un significato non ottunde più la percezione, si può creare uno spazio in cui si è «sempre più attenti, sempre più carichi di tensione, fino a che lo strappo di un nastro adesivo, con cui un personaggio ricopre i suoi vestiti, non si compie più soltanto visibilmente al di fuori, ma anche nel centro della coscienza dello spettatore»[3].

Erano anni di battaglie contro l’interpretazione, anni in cui l’interpretazione viene denunciata come una forma di controllo, di addomesticamento dell’opera d’arte, della sua fondamentale intraducibilità, di ciò che in essa si sottrae all’orizzonte di attesa vigente, di ciò che di essa non si lascia comprendere in quel che è già noto, in fin dei conti della sua dimensione estetica, quella che parla ai sensi, alla percezione. L’interpretazione funziona come una sorta di traduzione o di riduzione dell’arte a un suo presunto equivalente concettuale, scriveva Susan Sontag in un celebre saggio: «dove c’è scritto x, y, z si legga invece a, b, c»[4]. L’opera d’arte, però, non è la risposta a una domanda o una tesi su qualcosa. Non è neanche propriamente o soltanto un’affermazione o un commento su qualcosa che esiste nel mondo, ma è, forse, innanzi tutto una cosa del mondo, che vuole essere esperita in primo luogo con i sensi, esteticamente, dunque.

Handke insegue un teatro in cui sia possibile una tale esperienza estetica, in cui le consuete modalità di percezione dello spettatore vengano messe a soqquadro, in cui possa essere esercitata una sensibilità accresciuta proprio grazie all’esibizione di eventi insignificanti. Ma l’assenza di significato non è una qualità dei fatti, che sono quello che sono e basta. Dipende piuttosto dallo sguardo che si posa su di essi. Privo di significato è ciò che fa inceppare i meccanismi consueti e automatici con cui rileviamo il significato di ciò che percepiamo. Poi comunque ognuno, in un secondo tempo della riflessione, può sempre estrarre o ricavare un significato da quello che vede o sente. L’importante è che non sia quello che qualcuno vi ha riposto. Perciò Handke vorrebbe rendere irreali gli oggetti, i gesti, i movimenti presentati sulla scena, cioè deprivarli della funzione che hanno nella realtà, come fanno i clown al circo. Ma poi non riesce del tutto a fare a meno di dare a quel che scrive un certo significato, non riesce a presentare gli eventi sulla scena senza pensare a un loro senso, che li trascende e in qualche modo li giustifica. Così dichiara che i movimenti del tutore e del minore di questa pièce riflettono forme e regole sociali, ne sono una messinscena in forma gestuale[5]. Rivela – in un’intervista – che la rinuncia alla parola è anche un mezzo di straniamento che serve ad attirare l’attenzione su meccanismi di sottomissione, ma poi anche di ribellione e di emancipazione che si manifestano attraverso la gestualità[6].

Nella stessa intervista spiega che il titolo a cui aveva originariamente pensato era Der Augenzeuge (Il testimone). La pièce si rifà, infatti, a un breve racconto del 1965 dal titolo Augenzeugenbericht, cioè Resoconto di un testimone oculare[7]. Anche qui i personaggi sono due: un uomo e un ragazzo affidato alla sua tutela. L’uomo insegna al ragazzo a tagliare le rape con un’apposita macchina e il giovane, dopo aver imparato, usa la macchina per tagliargli la testa. Il tutto narrato con un linguaggio preciso e freddo, che torna anche nella pièce, la quale resta in fondo una testimonianza oculare, ma non di un assassinio, bensì di uno spettacolo. Il testo si potrebbe infatti leggere come il resoconto di uno spettatore che descrive gli eventi scenici cui sta assistendo e che ci fa vedere soltanto ciò che di quegli eventi viene registrato nel suo resoconto. Ci fa vedere, ad esempio, la macchima tagliarape del racconto, che però appare significativamente coperta e irriconoscibile. Solo dopo molto tempo si rivela per quel che è, per poi subito sparire dal palcoscenico, non prima, però, che il tutore abbia insegnato al minore a usarla. Non si arriva neanche lontanamente a una ribellione violenta, ma solo a una rivolta simbolica, impotente, senza effetti sulla realtà, insensata, irrilevante, che per di più il minore riesce a compiere soltanto quando il tutore è assente: riempendo una bacinella d’acqua e poi buttandoci dentro della sabbia.

Dietro l’apparente insignificanza gli eventi scenici rivelano una loro drammaturgia, assumono i contorni di rituali, routine o anche solo di sequenze di banali gesti quotidiani in cui si esprimono relazioni di potere e stati di dominio. Il tutore assume i tratti di una figura paterna repressiva che non ha neanche bisogno di agire in modo aggressivo; il minore gli è sottomesso già per il fatto che lo imita continuamente senza poterlo emulare: vede che legge il giornale, allora tira fuori un libro; vede che ha un tatuaggio e allora si fa disegni sull’avambraccio. Agisce addirittura in modo servizievole: quando il tutore si taglia le unghie dei piedi e lui le raccoglie da terra. Ma è in dissidio con questa sua posizione: così quando il tutore si taglia le unghie delle mani lui strappa fogli dal calendario, come a evocare un giorno in cui finirà il tempo della minorità.

Locandina di una messa in scena inglese di «Il minore vuole essere il tutore», 1973

Il tema della minorità, dell’essere sotto tutela, cioè, appunto, Mündel, e della conquista di una condizione di maggiore età, di maturità, di autonomia, di indipendenza (Mündigkeit), è evocato chiaramente dal titolo, che cita un verso dalla Tempesta di Shakespeare: «What, I say, / My foot my tutor?» (I, 2, 470). Handke traduce: «Was, das Mündel will Vormund sein?», cioè, letteralmente: «Cosa, il minore vuole essere tutore?». È un passo in cui Prospero afferma il suo potere su Ferdinando che si ribella contro un suo sopruso. Ma il titolo, o meglio, la traduzione che sceglie Handke, rimanda anche alla celebre definizione che Kant ha dato dell’Illuminismo come «l’uscita dell’uomo dalla minorità di cui è colpevole egli stesso»[8].

La parola tedesca per minorità è «Unmündigkeit», mentre «Mündel» significa pupillo nel senso di minore sottoposto a tutela da parte di un «Vormund», cioè, appunto, di un tutore. In tutti questi termini troviamo la radice «Mund», che significa bocca. Tutore, cioè «Vormund», è colui che parla per un altro che non può parlare o al quale non è concesso parlare per conto proprio; e minore, cioè «Mündel», è colui che non può o non sa parlare di propria bocca e che ha bisogno di qualcuno che parli per lui, oppure qualcuno al quale è imposto che un altro parli al posto suo[9]. Il titolo richiama dunque il tema dell’emancipazione, virulento negli anni in cui la pièce viene scritta, come anche quello, da Handke sentito in modo egualmente intenso, del linguaggio come strumento di dominio e sottomissione.

Cover di I Feel Like I’m Fixin’ To Die dei Country Joe & The Fish

Nel testo è previsto che in alcuni momenti della pièce l’accadere scenico sia accompagnato da un brano strumentale del gruppo rock psichedelico Country Joe & The Fish, Colors For Susan, uscito nel celebre album I Feel Like I’m Fixin’ To Die (1969), il quale prende il nome da uno dei pezzi che contiene e che diverrà poi una delle più celebri canzoni di protesta contro la guerra condotta dagli americani in Vietnam. Attraverso questa scelta musicale, la muta rivolta del minore si connette con la grande rivolta culturale e politica della generazione sessantottina. Una rivolta che ha anche un suo corrispettivo teatrale, con l’imporsi di nuove forme di teatro postdrammatico e di pratiche artistiche come la performance e l’happening. Anche in questo caso il tema della rivolta e dell’emancipazione gioca ovviamente un ruolo fondamentale, e riguarda da vicino il ruolo della parola.

A teatro c’è – almeno tradizionalmente – sempre qualcuno che parla il testo di un altro, qualcuno che non può parlare con parole sue, ma deve parlare le parole di un altro, deve prestare la propria voce alla scrittura di qualcuno che non è lui o lei. La ribellione o l’emancipazione tentata dal minore richiama così la ribellione o l’emancipazione dell’attore dal ruolo di prestavoce per le parole dell’autore, di esecutore delle istruzioni formulate dal regista. Si potrebbe allora leggere l’assenza di parole in questa pièce come una ribellione – muta e impotente quanto quella del minore – verso un teatro della parola autoriale, come una protesta silenziosa dell’autore Handke contro la legge teatrale della parola comandata, come il rifiuto di un autore di imporre all’attore un testo da parlare che non è suo, di tenerlo sotto tutela, in una condizione di minorità. È una lettura, questa, che il testo sembra per molti versi suggerire, ma che ostacola anche, che anzi denuncia, mettendo in scena un autore che cambia soltanto il medium con cui esercita preponderantemente il suo potere sulla scena, un autore cioè che rinuncia alla parola ma poi impone agli attori una partitura di gesti. Anzi, il testo fa ancora di più: mette in scena anche le reazioni degli spettatori attraverso un’istanza dell’enunciazione che si erge a loro rappresentante.

A parlare è infatti qualcuno che si pone nella posizione di uno spettatore e descrive uno spettacolo mentre lo guarda. Non racconta soltanto quello che vede e che sente, ma anche le reazioni che gli eventi scenici suscitano in lui. Si tratta di sensazioni emotive («Noi ci spaventiamo»), commenti o impressioni soggettive («Sull’intera scena c’è qualcosa che, con un’immagine, si potrebbe definire una profonda pace»), saperi presupposti («Conosciamo i rumori») o aspettative che rimandano ai linguaggi convenzionali del teatro («Come sappiamo da altre pièces, quando sul palcoscenico viene accesa una lampada a petrolio, a poco a poco l’intero palcoscenico si illumina»). Questo spettatore-autore descrive i movimenti di uno sguardo che è il suo, ma indicandolo anche come collettivo. Usa infatti espressioni come: «vediamo», «soltanto ora vediamo», «all’improvviso vediamo» oppure «quando vediamo» o anche «come vediamo».

Un fumetto del 1969 con Handke personaggio

A ben guardare, il protagonista della pièce è questo narratore occulto, che si nasconde dietro la comunità immaginaria del «noi» che usa per parlare di ciò che vede e sente. È una materializzazione discorsiva di quella mano invisibile che a teatro guida la visione e la reazione emotiva, prescrive cosa guardare e cosa stare a ascoltare, ci dice a cosa fare attenzione e spesso anche cosa pensare. È il tema, molto caro al primo Handke, della manipolazione, che il suo teatro vuole rendere riconoscibile, e che esibisce mostrandola come una componente forse inevitabile dell’arte teatrale, anche di quella che è animata dal desiderio di sottrarsi a essa, di quella che insegue l’utopia di un linguaggio scenico finalmente liberato dall’azione di tutori invisibili.


[1] Cfr. Stille Macht, «Der Spiegel», 7/1969, pp. 126-127.

[2] Peter Handke, Die Dressur der Objekte, in Id., Ich bin ein Bewohner des Elfenbeinturms,Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1972, pp. 139-145: 140.

[3] Id., Theater und Film. Das Elend des Vergleichens, in Id., Ich bin ein Bewohner des Elfenbeinturms cit., pp. 65-77: 76-77.

[4] Susan Sontag, Against Interpretation and Other Essays, Farrar, Straus & Giroux, New York 1966; tr. it. Contro l’interpretazione, Mondadori, Milano 1998, p. 14.

[5] Cfr. Stille Macht cit., pp. 126-127.

[6] Cfr. l’intervista rilasciata a Hans Bertram Bock, Alibi für Intendanten, «Abendzeitung», 26 settembre 1968.

[7] Peter Handke, Augenzeugenbericht, in Id., Prosa, Gedichte, Theaterstücke, Hörspiele, Aufsätze, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1969, pp. 83-84.

[8] Nell’originale la frase recita così: «Aufklärung ist der Ausgang des Menschen aus seiner selbstverschuldeten Unmündigkeit» (Immanuel Kant, Beantwortung der Frage: Was ist Aufklärung, in Kants Werke, Preußische Akademie der Wissenschaften, Berlin 1900 ss., Bd. VIII pp. 33-42: 35).

[9]  Cfr. Dora Rusciano, Il minore vuol fare il tutore, in La terra sonora. Il teatro di Peter Handke, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma 2017, a cura di Francesco Fiorentino, Camilla Miglio e Valentina Valentini, pp. 125-130: 130.

In copertina: foto di scena di Il minore vuole essere il tutore, 1969

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