A Lisa Redetti
Sono davanti al grande masso erratico della sorgente “Menaresta”, nella grande pineta del Pian Rancio, a pochi passi cioè dal luogo in cui per qualche anno ho abitato. Dopo aver imboccato per l’appunto via Menaresta, e superate le uniche due abitazioni qui presenti, si giunge nei pressi del soleggiato Pian Lavena. Qui, soprattutto nelle giornate autunnali – quando cioè la pineta dà il meglio di sé in fatto di prospettiva –, non bisogna seguire il sentiero, ma girare a vuoto. Ci si imbatterà ben presto ne “Il Buco della Pecora” – magnifica grotta in cui, dopo un brevissimo tratto carponi, è possibile stare comodamente in piedi – e con, per l’appunto, la sorgente del fiume Lambro. Ed io sono proprio qui, ancora una volta, accanto a questo grosso masso che nasconde il pulsare dell’acqua sorgiva. Perché? Perché su questo «Grosso trovante di roccia granitoide, di forma allungata» – e così dicendo non sto facendo altro che leggere alcune righe di quel cartello esplicativo posto qui nelle vicinanze – ci sono «Alcune incisioni [preistoriche o protostoriche] che sono certamente state eseguite dall’uomo» (corsivo mio). Ebbene, dopo aver tolto con la mano i residui vegetali delle conifere soprastanti, questo è quello che appare: una linea perfettamente retta (ed omogeneamente profonda) che solca diagonalmente una parte di una delle due falde del masso («Una incisione rettilinea lungo la massima pendenza del masso»), assieme ad una coppella, sul colmo superiore dello stesso («In posizione sommitale»), di qualche centimetro di diametro.

I lettori che avranno voglia di toccare loro stessi con mano questa ruvida superficie saranno d’accordo con me nel polemizzare apertamente con quel “certamente” utilizzato così frettolosamente nel cartello turistico. Non sarà un caso del resto che, tutti coloro a cui ho mostrato in loco queste piccole incisioni – in barba all’utilizzo avventato dell’avverbio citato poc’anzi – mi abbiano posto il problema circa l’autenticità (artistica prima ancora che temporale) di questa incisione. Voglio dire che, a ben vedere, il nodo da scogliere è relativo più che altro all’effettiva realizzazione umana (cioè volontaria, determinata, progettata, etc.) di tale manufatto, piuttosto che al tempo in cui tale opera venne compiuta (e tale questione è così riassumibile: “Data la semplicità del gesto lì presente – una linea, un piccolo solco circolare –, come è possibile avere la certezza che questi due segni non siano frutto piuttosto di una qualche erosione o scalfitura del tutto accidentali, foss’anchero di epoca remota?”). Certo alcuni indizi – la linea perfettamente retta, l’esatta circonferenza della coppella, la profondità omogenea delle scalfiture, etc. – fanno propendere facilmente l’osservatore verso l’attribuzione artistica o quantomeno volontaria, e tuttavia questi dati non sono del tutto sufficienti per sgombrare il campo da tutti gli equivoci possibili (cosa che invece certamente fanno, data la loro complessità, le figure incise della Val Camonica o del bel sito rupestre di Grosio). Ma allora, come risolvere il problema?
Non ponendoselo! Intendo dire che il fatto qui realmente importante non è tanto quello di chiedersi se queste semplici figurazioni siano o meno da considerarsi frutto di un’operazione predeterminata – venuta per giunta al mondo in questo o quel tempo che fu –, bensì piuttosto del perché non sia sempre così al cospetto dell’immagine artistica. Il fatto che la stragrande maggioranza delle immagini pittoriche contemporanee non siano capaci di apparire nel mondo proprio così – cioè in maniera silente ed indeterminabile –, questo è a ben vedere il vero problema che sollevano di riflesso le incisioni della Menaresta. Non vorrei cadere in quell’errore comunissimo di chi crede d’individuare nella figura primitiva lo stato quanto più prossimo possibile alla naturalezza della figurazione – poiché in effetti, come alcuni studiosi hanno dimostrato anche recentemente, così non è[1] –, e tuttavia trovo queste incisioni preistoriche realmente paradigmatiche di quello che, con una costruzione linguistica paradossale, si potrebbe definire il punto cieco della pittoricità, ovverosia quel luogo in cui la rappresentazione non dà l’impressione di essere posta in essere da alcunché se non dal proprio naturale apparire. È questa, a ben vedere, l’apoteosi più perversa della mimesis, che non si limita tanto a far scomparire nella spirale infinita dell’iperrealismo ciò che si vorrebbe in ultimo rappresentare come illusione – così, la celebre tenzone tra Parrasio e Zeusi, è certamente una lezione di tecnica –, bensì anzitutto a scomparire è in primis il fatto di imitare, cioè in ultimo il rappresentare effettivamente qualcosa come rappresentazione.

Foto per gentile concessione dell’artista.
Si guardi, per concludere questo breve articolo, questo bel lavoro di Lisa Redetti, poiché è di esso che ho fin d’ora parlato. Sarebbe fraintendere ogni sua sorellanza con i segni menarestiani se si limitassero le omologie tra le due opere solamente all’aspetto di superficie; la vicinanza è ovviamente più profonda, e riguarda anzitutto la semplicità del loro vicendevole apparire. Prima di ogni artificiosità, è esattamente questa naturalezza a cui la pittura contemporanea dovrebbe allora anelare: abitare cioè senza certezza alcuna il dubbio della propria scaturigine.
[1]Penso per esempio a quella particolarissima incisione umanoide presente a Lascaux sulle pareti di quello che viene chiamato “Il Pozzo” (figura catalogata in posizione 52bis), che rende bene evidenti gli sforzi compiuti dal pittore magdaleniano nel rappresentare la figura umana – innaturale e poco pregevole nelle sue fattezze – rispetto quella animale. Cfr. G.Bataille, Lascaux. La nascita dell’arte, Mimesis, Milano 2007 (in particolare cap.III); F.Leoni, R.Ronchi (conferenza del 19 ottobre 2019, Sala Boxe Omero), Lascaux. “La nascita dell’arte” di George Bataille, KUM! Festival, Ancona. Reperibile integralmente a questo link (consultato in data 25/09/2020); E.Villa, L’Arte dell’Uomo Primordiale, Abscondita, Milano 2015 (in particolare vedi cap.I dove, tra le altre cose, si fa riferimento in tav.2 alla medesima figura dordognana di cui sopra).