È da poco uscito dal Mulino (pp. 238, € 22) La tirannia delle emozioni di Paolo D’Angelo, del quale per la cortesia di autore ed editore proponiamo «prologo» ed «epilogo». Già in un suo libro precedente, a buon titolo assai fortunato e dedicato alle Nevrosi di Manzoni (ivi 2013), si assisteva a una strategia retorica simile: alla fine d’una erudita, impeccabile rassegna del problema storico (in quel caso, il controverso e per certi versi in effetti misterioso «silenzio» narrativo osservato da Manzoni all’indomani della pubblicazione della «Quarantana» dei Promessi Sposi: dunque per più di trent’anni, sino alla sua morte nel 1873), quasi a sorpresa, l’inappuntabile storico della filosofia si fa – quanto mai originale, e dunque salutarmente discutibile – pensatore in proprio: intervenendo su un nodo decisivo del «discorso» del nostro tempo. Il cortocircuito per cui all’improvviso scopriamo che quanto ci appare oggi assolutamente all’ordine del giorno è in realtà solo l’ultimo capitolo (e neppure il più originale) di una controversia di longue durée sortisce un duplice effetto, diciamo a chiasmo: da un lato certifica, se vogliamo una volta di più crocianamente (all’Estetica di Croce D’Angelo dedicò quasi quarant’anni fa, da Laterza nell’82, il suo primo libro), come ogni storia non possa che essere storia contemporanea; ma dall’altro contribuisce a restituire alle loro corrette proporzioni certi assunti che, viceversa, nel presente baldanzosamente affermano la propria urgentissima attualità.
Allora erano in questione le aporie sollevate dalle enfasi (che al momento, significativamente, paiono un po’ sopite) sul «ritorno alla realtà»; mentre oggi il problema messo a fuoco è l’appello indiscriminato – da parte non solo delle arti, si capisce – alle passioni, alle viscere, a quella che la doxa definisce insomma «la pancia». D’Angelo è troppo avveduto per proporre, semplicemente e simmetricamente, un’inversione di marcia: il che lo consegnerebbe all’ingenuità di ritorno del dimenticato positivista Paolo Mantegazza, bennato igienista e Senatore del Regno che – a fronte dello spopolare del Cuore di De Amicis – nel 1887 proponeva ai giovani del suo tempo, di contro, i valori della Testa. E però, nelle ultime pagine del suo libro, con solo apparente understatement ci dice che, se dimentichiamo di distinguere fra le passioni di chi scrive o dipinge o suona e quelle, cui questi si appella, di chi legge o guarda o ascolta (con quella simmetrica identità di sentire che un secolo fa Umberto Saba definiva l’«onestà» della poesia…), rischiamo di commettere l’errore di prospettiva che più di due secoli fa già segnalava Rousseau: quando scriveva che «il teatro purifica le passioni che non abbiamo e fomenta quelle che abbiamo». Alla fine capiamo che il problema che gli sta davvero a cuore è lo stesso che aveva affrontato nel suo libro precedente: «pretendere che non si debba distinguere tra un coinvolgimento immediato e irriflesso, una risposta automatica e quella appropriata e mediata che ci richiede un’esperienza artistica, significa lasciarsi irretire nella più generale confusione che non sa più mantenere ferma la separazione tra la realtà e la finzione».
Andrea Cortellessa
Prologo: Sangue e arena
Dal giugno del 2017 agli inizi del 2018 la Fondazione Prada di Milano ha ospitato una installazione di realtà virtuale del regista cinematografico Alejandro González Iñárritu dal titolo Carne y arena. I partecipanti, uno alla volta, vengono fatti entrare in una stanza, nella quale debbono lasciare le scarpe. Introdotti in un ambiente molto più grande, con l’aiuto di due operatori indossano una cuffia, un visore, uno zaino collegato a dei cavi. Con questi ausili, si trovano di colpo a far parte di un gruppo di migranti che tentano di attraversare il deserto al confine tra Messico e Stati Uniti. Immersi nell’oscurità, i loro piedi nudi sentono il freddo della sabbia, il vento che agita i cespugli, le urla degli altri migranti. Quando le luci delle fotoelettriche li colpiscono, vedono i fucili delle guardie di frontiera puntati contro di loro, sentono il rumore degli elicotteri sopra le loro teste. L’esperienza dura pochi minuti, sei o sette, ma dovrebbe essere sufficiente, nelle parole del regista, per vedere e sentire «what it’s like to be a refugee», che cosa si prova a essere un migrante, a vivere un’esperienza diretta «sotto la loro pelle e nei loro cuori». Non per nulla, all’ingresso, c’è l’immagine di un grande cuore diviso da una linea che separa u.s. e t.h.e.m., noi e loro. Il partecipante (chiamarlo spettatore sarebbe riduttivo), del resto, prima di entrare ha firmato una liberatoria in cui si accetta il rischio di potersi sentire male, provare nausea, vertigini e capogiri. Le emozioni che si proveranno – paura, dolore, umiliazione – potrebbero essere così forti da indurre una reazione somatica di una certa durata, con possibili «blocchi emotivi».
Prima di essere ospitata alla Fondazione Prada, l’installazione di Iñárritu aveva partecipato al 70o Festival del Cinema di Cannes, inclusa nella selezione ufficiale, e aveva ricevuto un Oscar speciale dell’Academy of Motion Picture Arts, un riconoscimento che in precedenza era stato tributato solo a Toy Story della Pixar, quasi a rimarcare che ci troveremmo di fronte a un salto di genere artistico-tecnologico, in cui il cinema va oltre sé stesso ibridandosi con la realtà virtuale. Molte dichiarazioni dell’autore andavano nello stesso senso: Iñárritu ha parlato di «superare la dittatura dell’inquadratura attraverso la quale le cose possono essere solo osservate». E Germano Celant, soprintendente artistico della Fondazione Prada, gli ha fatto eco invocando uno «scambio tra visione ed esperienza, nel quale si dissolve la dualità tra corpo organico e corpo artificiale», o addirittura una «rivoluzione comunicativa in cui il vedere si trasforma in sentire e condividere fisicamente il cinema: una transizione dallo schermo allo sguardo dell’essere umano, in un’immersione totale dei sensi».
Le recensioni sui quotidiani hanno enfatizzato questo aspetto, e per un Vincenzo Trione che, sul «Corriere della sera», ha provato a raffreddare gli entusiasmi per un’arte che vuole solo emozionare e sempre più sembra prendere le forme del reportage e della denuncia di cronaca, altri hanno paragonato la scossa emotiva di Carne y arena alle «prepotenti emozioni degli spettatori cinematografici che fuggivano davanti all’arrivo del treno» (Antonello Catacchio sul «Manifesto»). Le poche riserve sono venute dopo, ma hanno riguardato quasi esclusivamente rilievi tecnici, formali, relativi al rapporto tra cinema e realtà virtuale.
In effetti non è proprio scontato condividere l’idea che queste installazioni siano un’evoluzione del cinema tradizionale, ed è possibile moltiplicare i rilievi sui limiti percettivi della Virtual Reality, almeno nella forma in cui ne dispongono queste installazioni, notando ad esempio l’asimmetria che si apre tra esperienze visive ed esperienze tattili (se provo a toccare un migrante, nella installazione di Iñárritu, scopro che è un’immagine inconsistente). In senso opposto, si può provare a gettare acqua sul fuoco dell’esaltazione della presunta ‘autonomia’ di cui disporrebbe il fruitore di Carne y arena, sottolineando il molto che, nella sua esperienza, risulta dalle decisioni dell’autore (a partire dall’immagine del cuore, fino al far uscire il partecipante attraverso una sala dove vede le fotografie di veri migranti che hanno passato il confine). Qualcuno, più spregiudicatamente, si è spinto a parlare di un’esperienza da videogame.

Senza nulla togliere a queste osservazioni, sembra però che altri, e più sostanziali, siano i rilievi che è possibile muovere alla installazione di Iñárritu, e che possono farci comprendere come essa sia suscettibile di apparire, in qualche misura, come il sintomo di una situazione che investe in modo molto più ampio l’arte contemporanea. Ci riferiamo al continuo appello all’empatia, all’emozione, all’evocazione di sentimenti veri e non simulati che promana da Carne y arena, e che è stato amplificato dal discorso che fin da subito ha circondato l’installazione del regista messicano. Molte sono le obiezioni che si possono muovere alla pretesa di coinvolgimento emotivo che promana dal lavoro di Iñárritu, e questo vale tanto più quanto più si prendono per buone le ambizioni di denuncia, di presa di posizione politica e civile che muovono il regista.
Intanto, si può notare che l’installazione mira innanzi tutto a farvi provare delle sensazioni, le stesse sensazioni che prova il migrante: il freddo, i suoni violenti, le sciabolate di luce negli occhi. Presume anche di farvi provare reazioni immediate, come la paura e il dolore, e non c’è da dubitare che vi riesca, per qualche secondo, dato che queste sono reazioni praticamente automatiche. Ma già che vi faccia condividere – come è stato detto – l’umiliazione del migrante è assai più difficile da credere. Siete entrati sapendo che è una finzione, sapete che ne uscirete tra pochi istanti: perché mai dovreste sentirvi umiliati? Più in generale, c’è qualcosa di irritante, e di palesemente inadeguato, nel sostenere che per mettersi nei panni di un altro sia sufficiente condividere per qualche minuto le sensazioni fisiche che questi prova. Per restare al caso nostro, è alquanto riduttivo pensare che la vera sofferenza di una persona che ha lasciato la propria casa, che non sa se riuscirà mai ad arrivare dove vorrebbe, né cosa veramente lo aspetta, consista nel freddo sotto i piedi o nella luce negli occhi. È più probabile che queste cose gli sembrino il male minore rispetto all’incertezza per la propria sorte, alla preoccupazione per i propri cari che magari stanno condividendo gli stessi rischi oppure sono rimasti lontani, alla nostalgia per quel che si lascia, alla consapevolezza che si può morire o essere ricacciati indietro. Tutte cose che la pretesa di causare un’emozione reale paradossalmente rimuove e rende impossibili, proprio perché necessiterebbero di passare attraverso una proiezione immaginativa e non una sensazione diretta.
C’è di più. La pretesa che per capire veramente quello che l’altro prova, per empatizzare con lui, io debba provare esattamente le stesse sensazioni che lui prova, debba cioè trasferirmi in his o her shoes, per sentire quello che sente, soffrire quello che soffre, è contraddittoria. Si capisce il dolore (o la gioia) dell’altro – in questo ha ragione Martha Nussbaum – se lo si capisce appunto come il dolore o la gioia altrui, non come quello che proviamo noi.
No se puede mirar, aggiungeva Goya come didascalia a una delle sue acqueforti sui Disastri della guerra. No se puede mirar: tu, spettatore, non puoi neanche guardare tanta sofferenza. Qui, a evidenza, vale l’opposto: non solo puoi guardare, ma puoi addirittura sostituirti a colui le cui sofferenze dici di voler provare. Ne risulta, contro ogni intenzione, più una diminuzione che un rafforzamento dell’effetto. Tanto è vero che l’installazione di Iñárritu, se venisse utilizzata in relazione a eventi la cui tragicità e insopportabilità è ormai riconosciuta (un lager nazista, un gulag sovietico), ci apparirebbe riduttiva, persino irridente, forse platealmente inaccettabile.

Ma, al di là di queste considerazioni di opportunità, è forse più rilevante che l’installazione punti tutto sull’effetto emotivo e pochissimo, o addirittura nulla, su quello informativo. Che cosa sappiamo sulle vicende che ci vengono presentate, che già non sapessimo prima? Forse le uniche acquisizioni in termini di conoscenze sono quelle che, a stretto rigore, contornano, cioè precedono e seguono, l’installazione vera e propria. Puntare tutto sull’emotività può dunque non essere la scommessa giusta.
Ma – si dirà – tutto questo è riscattato dal fatto che quel che si prova non è una finzione, ma è vero dolore e vera paura. Anche se fosse, siamo sicuri che sia un acquisto? Non è piuttosto, questo, il cuore del paradosso? Non avremmo la rappresentazione di una cosa, ma la cosa vera e propria. Solo che la cosa reale è qui massimamente irreale, e la realtà è tutta e sola dell’emozione del partecipante. La finzione comanda la realtà, il finto produce il vero, come se si trasportasse sul piano emozionale il paradosso dell’implicazione materiale che conosce ogni studente di logica, e in forza del quale un’implicazione è falsa se e solo se la conseguenza è falsa, ma non se lo è l’antecedente, e dunque «se la terra è piatta, allora Napoleone è morto a Sant’Elena» è vero, perché Napoleone è morto a Sant’Elena, e che la terra non sia piatta non ha nessuna importanza. Qui l’importante è che l’emozione sia autentica, indistinguibile da quella della vita di tutti i giorni, e che a causarla sia qualcosa di non vero perde ogni significato.
In tutte queste distorsioni, l’installazione virtuale di Iñárritu sembra incarnare perfettamente una tendenza che è sempre più dilagante nell’arte contemporanea, cioè l’appello alle emozioni, e la convinzione che queste emozioni sono le stesse che proviamo nella vita reale. La parola d’ordine è immersività: non basta rappresentare, fare immaginare, si deve inserire il fruitore all’interno dell’opera, bombardarlo di stimoli, possibilmente multimediali. L’emulazione si sostituisce alla catarsi: l’emozione non deve compiere un tragitto, essere assimilata e magari trasformata, ma deve essere sentita, vissuta in prima persona. Il coinvolgimento deve essere totale; tanto meglio, se è anche fisico.
La tendenza scivola facilmente dai piani alti a quelli bassi dell’intrattenimento artistico, dove in fondo è stata sempre di casa. Ormai, per esempio, si sprecano le mostre cosiddette immersive, dove spesso le opere non ci sono affatto, ma in compenso ci sono proiezioni di dettagli ingigantiti, suoni e luci, e anche percorsi virtuali. Per ironico contrappasso a Carne y arena, ad esempio, a Roma i turisti di bocca buona possono vedere (pardon, immergersi) in uno spettacolo virtuale intitolato come il film supersentimentale con Tyrone Power e Rita Hayworth, Sangue e arena. Dove c’è la sabbia e ci sono le grida, ma sono quelle dei gladiatori dell’antica Roma, alle prese con le bestie feroci. Perché, se quel che conta è provare forti emozioni ed empatizzare con le sofferenze altrui, perché non farlo con quelle di un reziario di duemila anni fa?
Questo primato, anzi questa vera e propria tirannia delle emozioni non è certo qualcosa che riguardi solo il mondo dell’arte. È sicuramente una tendenza che attraversa tutta la società, e che ci viene incontro negli ambiti più disparati. I canali televisivi traboccano di figuranti che incarnano personaggi che dovrebbero essere reali e che riversano sul pubblico, senza mediazioni o remore, i loro vissuti emozionali, suscitando una risposta altrettanto immediata e viscerale. I social, si dice continuamente, hanno fatto prevalere una comunicazione tutta emotiva, fatta di sentimenti spesso primordiali. Un odio violentissimo si accompagna a infatuazioni radicali, dove ciò che si prova, il sentire personale più chiuso diventa l’unico parametro di giudizio. L’informazione professionale, spesso, si adegua, facendo prevalere l’appello ai sentimenti più diffusi: la paura, l’insicurezza, il sospetto, il disgusto. Il dibattito pubblico non può che mettersi sulla stessa lunghezza d’onda: i fatti, i dati, i numeri sembrano non contare nulla di fronte alle emozioni, ai desideri, alle inclinazioni. In politica, infine, l’appello alle passioni è sempre stato un formidabile instrumentum regni; ma oggi sembra essersi smarrita la consapevolezza che far leva esclusivamente sulle emozioni della gente, e fomentarle, ha prodotto in passato conseguenze spesso disastrose.
Di fronte a un fenomeno così ubiquo, restringersi a quello che avviene nel mondo delle arti può sembrare riduttivo. Ma non lo è, perché le arti, intese nel senso più ampio, hanno sempre ricoperto un ruolo cruciale rispetto al modo nel quale le emozioni sono vissute in una determinata società e in una determinata epoca. Anche quando non influenzano direttamente i modi di sentire, anche quando non li plasmano, come accade con le arti di massa (ma ormai è sempre più chiaro che nelle nostre società tutta l’arte è di massa), esse hanno almeno una funzione insostituibile di sintomo: ci dicono come le emozioni sono vissute, perché spesso indicano come esse debbano essere vissute.
Quello che piuttosto può sembrare strano è il fatto che nelle pagine seguenti non interrogheremo direttamente i fenomeni artistici, ma avremo a che fare con i discorsi sull’arte, con l’estetica e con la critica letteraria e artistica. Vedremo come la teoria delle arti abbia progressivamente avallato questo emotional turn, questa svolta emozionale, condividendola, autorizzandola e persino arrivando a causarla. Non si tratta di scegliere una via indiretta, obliqua e quindi di allontanarci dal cuore della questione. È anzi vero l’opposto: solo interrogando la teoria possiamo capire veramente che cosa sta succedendo.
Infatti in questione non è il fatto che l’arte, le arti, producano emozioni. Lo hanno sempre fatto. Da quando esiste qualcosa come l’arte – cioè fin dai tempi più antichi – l’uomo ha espresso i propri sentimenti attraverso la produzione artistica, attraverso le parole, le immagini, la musica, e altri uomini hanno cercato nell’arte proprio questo, cioè i sentimenti e le emozioni. Forse non hanno cercato solo questo, ma certamente hanno cercato anche e soprattutto questo. Non si tratta dunque di mettere in dubbio, e meno ancora di contestare, la capacità dell’arte di veicolare contenuti emotivi. Si tratta invece di capire quale funzione e quale natura abbiano le emozioni veicolate dalle arti, e questo può dircelo solo la teoria, non l’arte stessa, dato che a un evento artistico si può rispondere in molti modi diversi, e questi modi non possono, da soli, dare le proprie ragioni. All’interno di questi modi è necessario stabilire qualche differenza, se non si vuole annegare tutto in un mare indistinto. Potremmo addirittura spingerci a dire che occorre stabilire una gerarchia, perché non tutte le risposte sono buone e non tutte stanno sullo stesso piano.
Quando, ad esempio, come avviene in molte teorie contemporanee, si perde la differenza tra emulazione e catarsi, tra un semplice vivere l’emozione, starvi per così dire dentro, e un regolare e trasformare l’emozione, prendendone una qualche distanza, bisogna essere consapevoli che si produce un vero salto rispetto a quello che a lungo ha segnato proprio il confine tra l’arte e il suo altro, una radicale mutazione in quella che si è ritenuta essere la funzione dell’arte. Non per niente, come vedremo, l’annullamento di questa differenza è stato, in altre epoche storiche, l’argomento sbandierato proprio dai nemici dell’arte, da coloro che la condannavano e la osteggiavano. Non ci precipiteremo a dire che gli attuali teorizzatori dell’indistinzione tra emozioni artistiche ed emozioni ordinarie compiano lo stesso errore, anche perché sono mossi da motivazioni diverse. Ma certamente stanno maneggiando un materiale pericoloso.
Epilogo. Lo scambio pericoloso
È storia già vista, dirà qualcuno. Di fronte alle risultanze delle neuroscienze, di fronte alle nuove teorie delle emozioni e alla loro applicazione alle emozioni estetiche, il filosofo che fa? Si rifugia nei testi antichi e addirittura si appella all’autorità di Aristotele, non diversamente da quei filosofi padovani che si rifiutavano di guardare nel cannocchiale di Galileo dicendo che farlo procurava loro il mal di capo e così chiudevano gli occhi di fronte ai fatti nuovi che quello strumento permetteva di osservare, come ad esempio le imperfezioni della superficie lunare o i satelliti medicei di Giove.
L’obiezione suona facile, ma è molto ingiusta, per una somma di ragioni. In primo luogo, noi nel cannocchiale ci abbiamo guardato: fuor di metafora, abbiamo considerato le osservazioni delle neuroscienze e le teorie dell’embodiment, e le abbiamo discusse. Nei limiti delle nostre convinzioni e delle nostre conoscenze, ma su quali altre basi si può discutere se non sulla base delle proprie convinzioni? In secondo luogo, in certi ambiti bisogna andarci piano con l’appello ai fatti. L’esperienza estetica è senza dubbio un fatto; ma lo è altrettanto il fatto (se ci si passa il bisticcio) che essa non è accertabile sulla base di una verifica sperimentale: che l’attivazione di una determinata regione cerebrale o lo ‘sparo’ di alcuni neuroni siano connessi all’esperienza estetica non può mai emergere da puri dati osservativi e dipende sempre, in maniera decisiva, dall’idea che si possiede di cosa sia un’esperienza estetica.
Inoltre, è anche un fatto, incontrovertibile, che la storia delle riflessioni sulle arti abbia quasi sempre pensato il rapporto tra le emozioni suscitate dalle opere d’arte e le emozioni vissute nella quotidianità sotto la specie della differenza e non sotto quella dell’identità o della continuità, come abbiamo visto nell’ultimo paragrafo del capitolo precedente. Certamente, che molti pensatori, da Aristotele a Lessing a Diderot a Croce, lo abbiano affermato non significa che sia vero. All’ipse dixit non crede più nessuno. Ma resta una circostanza da spiegare come mai tanti studiosi, cui certo non si può negare qualche sensibilità artistica e capacità introspettiva, abbiano ritenuto di segnare piuttosto una differenza che una coincidenza tra emozioni quotidiane ed emozioni estetiche.
Ed è un fatto, un fatto troppo spesso dimenticato e che gli attuali assertori della prossimità tra i due tipi di emozione farebbero invece bene a ricordare, che nella storia dell’estetica l’opinione che inclina a non fare differenze tra le emozioni della vita reale e quelle prodotte dalle rappresentazioni artistiche è tutt’altro che assente, ma ha questa curiosa e anche compromettente caratteristica: che è stata fatta propria, lungo la storia, precisamente dai nemici dell’arte e dai suoi negatori. A sostenere quell’opinione sono stati coloro i quali volevano bandire i poeti e chiudere i teatri, e magari far tacere le musiche. Una compagnia, conveniamolo, abbastanza imbarazzante.
È ben noto, per partire dall’inizio, che la riflessione sull’arte comincia in Occidente con la sua negazione e condanna da parte di Platone. Ora, la condanna platonica ha certo una componente ontologica, nel senso che l’arte (almeno gran parte di essa, ma come sempre non ci interessa sottilizzare), essendo imitazione, dista di due gradi dalla verità. L’imitatore non dà il vero essere, dà la copia di una copia (se il vero essere è l’idea e l’oggetto materiale che si ispira all’idea è solo una copia transeunte e caduca). L’imitazione non è conoscenza, ma illusione. E fin qui sembra che il difetto dell’arte sia l’essere lontana dalla realtà e dalla verità. Ma, attenzione! Quando il discorso tocca le passioni, le emozioni, la critica si rovescia. L’arte è colpevole non perché dà impressioni false e sbiadite, ma al contrario perché eccita passioni umane, troppo umane. Passioni vere, emozioni ben reali e genuine. E proprio perciò pericolose.
La teoria aristotelica della catarsi è ben evidentemente una risposta alle posizioni di Platone che nella Repubblica osserva come le tragedie, in luogo di insegnarci a padroneggiare le emozioni, le infiammano facendo leva sulla parte di noi più suggestionabile. Ecco perché i poeti «hanno rapporto con un altro elemento dell’anima, ma non il migliore» e, risvegliando e alimentando questo elemento, «dandogli vigore», rovinano l’elemento razionale[1]. «Quando i migliori di noi odono le imitazioni che Omero o un altro autore tragico fanno di qualche eroe che si sfoga in un lungo discorso pieno di gemiti […] ci abbandoniamo noi stessi a seguirli, partecipandone i sentimenti, e seriamente lodiamo come miglior poeta chi meglio ci fa provare queste emozioni»[2]. In questo modo si corrompono i costumi, perché nella vita vera noi apprezziamo piuttosto chi sa mantenere un contegno composto e tranquillo anche nelle avversità. Nemmeno la pietà è un’emozione da coltivare, perché abituandoci a compatire gli altri, diventiamo indulgenti in primo luogo verso noi stessi. Nessuna persona seria si comporta da buffone nella vita, ma sulla scena ammiriamo chi fa ridere e ridiamo noi stessi con lui.
La censura di Platone si estende poi a tutti gli altri sentimenti:
Simili effetti produce in noi l’imitazione poetica anche rispetto ai piaceri amorosi, alla collera e a tutti gli appetiti dolorosi e piacevoli dell’anima nostra […] li fomenta e li nutre, mentre bisognerebbe disseccarli. Affida loro il governo delle nostre persone, mentre dovrebbero essi venir governati[3].
Ecco perché i poeti non vanno ammessi nello Stato ideale: se ciò accadesse, in luogo della legge dominerebbero le emozioni piacevoli e dolorose.
Si noti che probabilmente non si va lontano dal vero se si pensa che Platone attribuisca emozioni genuine e veementi agli spettatori, ma sia poi molto meno convinto che l’artista le provi lui stesso, almeno se si fa attenzione all’ironia con la quale presenta la capacità psicagogica del rapsodo Ione nel dialogo omonimo, nel quale, come è noto, la poesia viene descritta come un invasamento divino, un entusiasmo incontrollato. Se, infatti, da un lato sembra che Ione viva in prima persona le emozioni che trasmette («Quando declamo un qualche episodio degno di compassione, di lacrime mi si riempiono gli occhi; e quando un fatto pauroso e terribile, per lo spavento mi si rizzano i capelli e forte il cuore mi batte»)[4], dall’altro sembra invece che Ione agisca per calcolo, come un consumato istrione, un consapevole e venale mestatore:
Tutte le volte dall’alto del palco vedo [gli spettatori] piangere e tutti insieme minacciosamente guardare e insieme spaventarsi alle mie parole. E debbo seguirli con la massima attenzione, perché se li faccio piangere sarò io a ridere per il denaro che prenderò, e se li faccio ridere sarò io a piangere per i quattrini che ci rimetterò[5].
La condanna platonica dell’arte non riguarda solo la poesia declamata e l’epica, ma colpisce in primo luogo il teatro e la tragedia, e le argomentazioni platoniche saranno riprese, lungo un arco bimillenario, ogni volta che motivazioni religiose o ideologiche daranno luogo ai violenti attacchi al teatro che punteggiano la storia delle rappresentazioni sceniche in Occidente[6]. Quando i padri della Chiesa, nei primi secoli del cristianesimo, si volgeranno contro gli spettacoli come idolatria pagana, riproporranno le accuse platoniche. In particolare nel suo De spectaculis, composto alla fine del II secolo dopo Cristo, Tertulliano (un padre della Chiesa la cui radicalità, intransigenza e misoginia hanno poco da invidiare a un odierno fondamentalista islamico) sostiene che teatro e ludi circensi vanno aboliti e vietati ai cristiani da un lato per la loro falsità («Non ama il falso l’autore della verità: tutto ciò che viene contraffatto è per lui una falsificazione»)[7], dall’altro, come ci aspettiamo, per il loro nefasto influsso sulle passioni:
Ogni spettacolo non avviene infatti senza uno sconvolgimento dello spirito. Dove infatti vi è piacere, lì vi è anche la passione attraverso cui naturalmente il piacere si rafforza; e dove vi è la passione, lì vi è anche la rivalità attraverso cui la passione si rafforza[8].
Bisogna dunque vietare il teatro tragico e quello comico, in base a un ragionamento che erode alla radice ogni differenza tra arte e vita, tra finzione e realtà:
se le tragedie e le commedie che ci ammanniscono crimini e scene libidinose sono cruente e lascive, empie e senza regole, di nessuna cosa che in sé stessa è atroce o volgare la sua rappresentazione è migliore, perché ciò che viene respinto nella realtà non deve essere accolto neppure sotto forma di recitazione (quod in facto reicitur etiam in dictu non est recipiendum)[9].
Nella critica giansenista al teatro, virulenta nella Francia del XVII secolo (è una costante: l’attacco al teatro si manifesta quando il teatro è più fiorente) ritroveremo sia l’argomento contro la catarsi sia quello appena visto, che implica, se ben si considera, l’impossibilità di rappresentare le passioni negative, perché suppone che esse non possano essere apprezzate che per connivenza. Così Pierre Nicole, nel suo pamphlet contro la commedia (1667), sostiene che quando si ha un estremo orrore per un’azione, come un assassinio o un incesto, «non si prende piacere nel vederla rappresentata […]. Quando non si sente la stessa avversione per i disordini rappresentati, e si prende piacere a guardarli, è un segno che non li si odia […]. Se si odia il vizio, non se ne può sopportare nemmeno l’immagine»[10]. Se l’imitazione di queste passioni ci piace, è perché la nostra corruzione morale ci trasforma, «facendoci entrare nella passione che è rappresentata»[11]. Ne segue che le emozioni non solo sono necessarie a teatro, ma debbono essere vive e violente, «piuttosto resuscitate che imitate»[12], e dunque è escluso che possano essere temperate o rasserenate attraverso la catarsi. Gli attori non possono rappresentare una passione se non vivendola, e suscitando un’emozione è impossibile suscitare insieme quel che può regolarla e attenuarla:
[L’attore] è una professione in cui gli uomini e le donne rappresentano le passioni di odio, di collera, di ambizione, di vendetta e soprattutto d’amore […] non lo saprebbero fare, se non le eccitassero in qualche modo in sé stessi […] bisogna dunque che chi rappresenta una passione d’amore ne sia in qualche modo toccato, mentre se la rappresenta.
Poiché la passione d’amore è l’impressione più forte che il peccato ha prodotto nelle nostre anime, non vi è nulla di più dannoso dell’eccitarla, nutrirla e distruggere quanto la tiene a freno o ne arresta la corsa […]. Ora, eccitando queste passioni tramite le commedie, non si imprime nello stesso tempo l’amore di ciò che dà loro ordine. Gli spettatori non ricevono se non l’impressione della passione, e poco o nulla di ciò che la regola[13].

Un argomento molto simile lo si troverà in quello che è in un certo senso l’erede più animoso e coerente di tutta questa tradizione, cioè sia del pregiudizio platonico sia della polemica giansenista, ovvero il Rousseau della Lettera sugli spettacoli, nella quale prende posizione contro la proposta, avanzata da d’Alembert, di costruire un teatro pubblico nella città calvinista di Ginevra. Con Platone, Rousseau ripete che l’imitazione è sempre un gradino più lontana dalla verità di quanto si pensi[14]; con i giansenisti, che il poeta agisce per lusingare e fomentare le passioni, non per darne semplicemente una rappresentazione. Il teatro, anzi, dà alle passioni una nuova energia: «So – scrive Rousseau – che la poetica del teatro pretende di operare in modo esattamente contrario, di purificare le passioni eccitandole»[15]. I sostenitori della catarsi ritengono che essa «ambisca a che le passioni rappresentate dalla tragedia ci commuovano, e non sempre vuole che la nostra emozione sia la stessa del personaggio», ma Rousseau la pensa del tutto diversamente: forse che «l’emozione che proviamo in noi, e che si protrae dopo la rappresentazione, annuncia una disposizione d’animo prossima a vincere e regolare le nostre passioni? Niente affatto. Il teatro purifica le passioni che non abbiamo e fomenta quelle che abbiamo». Le emozioni a teatro non sono più deboli che nella vita, come credeva Du Bos; sono più forti, e solo la pietà che dovrebbe esserne la medicina è un’emozione passeggera ed effimera, che non riscatta e non nobilita, «un residuo di sentimento naturale subito spento dalle passioni»[16].
Chi oggi si ostina a difendere un qualche discrimine tra emozioni quotidiane ed emozioni artistiche, chi contrasta la voga dell’immersività e non crede che l’atteggiamento emulativo sia quello giusto da prendere di fronte ai prodotti delle arti, può spesso essere colto dal dubbio di stare combattendo una battaglia di retroguardia, di essere rimasto indietro rispetto alle tendenze contemporanee della comunicazione artistica, di arroccarsi in una dimensione ideologica dell’esteticità. Forse, però, a essere in gioco non è una battaglia tra il nuovo e il passato, ma qualcosa di molto più importante, uno scambio pericoloso che travalica l’ormai onnipresente prevalere dell’emotività sulla riflessione, della passione sulla ragione. Perché quando una cultura perde la capacità di segnare le differenze tra emozioni ordinarie ed emozioni artistiche, perde una fondamentale capacità di orientamento. Pretendere che non si debba distinguere tra un coinvolgimento immediato e irriflesso, una risposta automatica e quella appropriata e mediata che ci richiede un’esperienza artistica, significa lasciarsi irretire nella più generale confusione che non sa più mantenere ferma la separazione tra la realtà e la finzione. A tutti coloro i quali propugnano la continuità tra le esperienze emotive della vita e quelle della forma artistica, non è possibile risparmiare una duplice messa in guardia. Non diremo loro soltanto: attenti, state frequentando una compagnia pericolosa, quella dei nemici dell’arte, quella di chi vuole proibirla e distruggerla, ma anche: attenti, perché chi non sa apprezzare la finzione, se non facendola passare per realtà, finirà inesorabilmente per comportarsi nella realtà come se avesse a che fare con una finzione.

[1] Platone, Repubblica, 604d-605c; trad. it. di F. Sartori, Bari, Laterza, 1973.
[2] Ibidem, 605d.
[3] Ibidem, 606d.
[4] Platone, Ione, 535 c; trad. it. di Francesco Adorno, Bari, Laterza, 1971.
[5] Ibidem, 535 e.
[6] I l testo classico sull’argomento è J. Barish, The Antitheatrical Prejudice,
Berkeley, University of California Press, 1981.
[7] Tertulliano, De spectaculis, XXIII; trad. it. Milano, Mondadori, 1995, p. 95.
[8] Ibidem, XV, trad. cit., p. 73.
[9] Ibidem, XVII, trad. cit., p. 83.
[10] P. Nicole, Sulla Commedia, trad. it. di D. Bosco, Milano, Bompiani, 2003, p. 101.
[11] Ibidem, p. 102.
[12] P. Corneille, L’illusion comique, v. 239.
[13] Nicole, Sulla Commedia, trad. cit., pp. 83-87.
[14] Nello scritto De l’imitation théâtrale; Essai tiré des dialogues de Platon, la cui stesura è contemporanea a quella della Lettera sugli spettacoli.
[15] J.-J. Rousseau, Lettera sugli spettacoli, trad. it. Palermo, Aesthetica, 1995, pp. 41-42.
[16] Ibidem, pp. 43-45.
Immagine di copertina: Alejandro González Iñárritu, Carne y arena, vista dell’installazione