Dadaismo e modernità. In margine a Julius Evola

01/11/2020

L’unico protagonista del movimento dadaista in Italia fu il barone Julius Evola (1898-1974), animatore del movimento per un paio d’anni, tra il 1920 e il 1921[1]. Ciò che si proclamò all’epoca come dadaista[2], in Italia, appare in una posizione molto marginale rispetto al futurismo, da cui i pochi dadaisti italiani provenivano. Eppure, l’apporto di Evola al dadaismo non apparirà affatto irrilevante alla nottola di Minerva, che si leva al tramonto. «Evola rappresentò senza dubbio la posizione più rigorosa e più estremista di tutto il dadaismo europeo»[3].

Più rigorosa: Evola, dopo la sua esperienza dadaista come pittore e scrittore, ha cessato di fare l’artista, semplicemente. Il che, per un dadaista, era il maggior merito. Evola prese alla lettera il desideratum più qualificante del dadaismo: la morte dell’arte.

Evola è stato il primo in Italia ad aver usato il termine arte astratta per definire la propria opera. La nascita di questa parola-chiave della modernità è segnata da un suo saggio pubblicato nel 1920, Arte astratta, appunto[4].

Più tardi, Evola si è dedicato a una «rivolta contro il mondo moderno» ispirata al grande pensiero reazionario dell’Ottocento – De Maistre, De Bonald, Donoso Cortès[5]. Diventerà protagonista di un pensiero “tradizionale” ispirato alle Vie orientali e a René Guénon[6], e di ispide teorie antidemocratiche e filo-fasciste. Quindi, Evola ha rinnegato completamente la sua esperienza giovanile di avanguardista di punta? Cercherò di mostrare che non è così. Anche se, poi, parlerà del dadaismo in modo critico – come parlerà in modo critico di qualsiasi cosa appartenga al mondo moderno, nessuna esclusa –, lo vedrà come un momento importante della disgregazione nichilista della modernità[7]. Il punto è che lo sbocco verso un radicalismo di destra è stato uno degli esiti possibili non solo del dadaismo, ma delle avanguardie artistiche del Novecento in genere. E questo perché, paradossalmente, molte avanguardie si sono volute essenzialmente anti-moderne. Ormai chiamiamo il Novecento «il secolo breve». La modernità artistica del «secolo breve» ha incluso sempre una hybris anti-moderna.

Così le culture di punta che si sono succedute in Italia – generalmente orientate a sinistra – hanno deciso di ignorare Evola. Particolarmente repulsive, agli occhi della cultura democratica e di sinistra, appaiono le teorie evoliane sulle razze[8], anche se si trattava invero di un razzismo spirituale e non biologico, in chiave sapienziale. In questo, Evola è rimasto dadaista: non ha mai cessato di provocare la buona coscienza di molta intelligentsija “progressista”.

Julius Evola, Astrazione, 1920-1921

Un medievalismo anti-cristiano

Evola, il giovane intellettuale romano che incrocia il dadaismo, si era sempre sentito profondamente absolutus, sciolto, dal mondo che lo circondava – l’Italietta cattolica e “strapaesana” di Longanesi e Malaparte, i valori borghesi e illuministi della modernità, il moralismo e il materialismo della società industriale e di massa. Evita di laurearsi: «divido il mondo in due categorie: la nobiltà e coloro che hanno una laurea». Questo outsider vorrebbe incarnare l’Unico stirneriano, ma ricorda piuttosto l’Alceste del Mysanthrope di Molière – l’uomo di mondo che non accetta compromessi col mondo. Un uomo di salotti che detesta i salotti. In gioventù, “viaggia” con allucinogeni, rasenta la pazzia, frequenta gli ambienti dell’avanguardia futurista più chiassosa, come la Casa d’Arte Bragaglia a Roma.

Nel 1914-15, dopo lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, l’Italia fu dilaniata dal contrasto tra interventisti e neutralisti contrari alla guerra. Evola si schierò tra gli interventisti, ma… per fare la guerra affianco degli Imperi Germanici, contro Francia e Gran Bretagna. Giunge da giovane molto vicino al suicidio, in un’epoca in cui il suicidio era epidemico tra poeti e filosofi dell’avanguardia. Si salva dal crollo tuffandosi nella letteratura buddhista e nel pensiero di Lao-Tze.  Per tutta la vita, rifiuterà di svolgere un lavoro remunerato, di ammogliarsi e di figliare. Sacerdote scorbutico e misogino dell’orgoglio aristocratico, ostile anche alla retorica demagogica del fascismo, ostenterà sempre una sdegnosa singolarità.

Si farà coinvolgere dal fascismo, riservandosi però diritto personale di critica. Avrà anzi qualche noia, nel Ventennio, per suoi libelli violentemente anti-cattolici. Dirà sempre di ammirare la cultura medievale pur permeata dal cattolicesimo, il monachesimo, l’ascetismo – ma, come per Nietzsche, per lui la caritas, l’umiltà, il superamento dell’orgoglio, predicati alla «plebe» cristiana «mirano a prostrare, a spezzare o almeno ad addolcire la violenta fisicizzata sensazione dell’io»[9]. Niente affatto umile né caritatevole, Evola non può apprezzare l’appello cristiano alla fratellanza universale. Egli resta absolutus dai rapporti con gli altri. Ma mentre l’Oltre-Uomo di Nietzsche appare un progetto per il futuro, l’ideale evoliano di uomo differenziato – come lo chiamava lui –, «non spezzato», è volto unicamente alla Tradizione, ovvero a un passato “organico” permeato dalle gerarchie sociali – un passato più che mai idealizzato. Teorizzatore di un egocentrismo radicale, oppone alla retorica edificante dei buoni sentimenti altruistici la purezza gelida di un’ascesi disperatamente personale.

Questo uomo sprezzante del corpo, nel 1945 a Vienna, durante un bombardamento subisce una lesione al midollo spinale, che lo costringerà su una sedia a rotelle per il resto della vita. Mutilazione che accetterà senza piagnistei – Evola disprezza la compassione, compresa quella per sé stesso.

Freddezza e durezza

Evola, dal 1921 al 1927, dopo la sua esperienza dadaista scrive alcuni trattati filosofici. Le varie “fasi” evoliane disegnano un percorso che non è solo personale: il suo tragitto va visto come uno degli sbocchi possibili, non artistici, di Dada. In effetti, ogni modernismo di solito pone uno sbocco al di là dell’arte, al di là a cui si dispone. Del resto, l’approdo iniziatico e mistico-ermetico di Evola non è stato raro tra i grandi delle avanguardie del Novecento: i surrealisti sguazzano nell’occulto, Duchamp coltiva il taoismo, Pound divora la filosofia cinese.

Questa pulsione trascendentalista distingue Evola da altri autori politicamente a destra dell’epoca. Rifiuta la spettacolare vitalità di Gabriele d’Annunzio, l’ostentato materialismo e paganesimo dei nietzscheani, anche nelle loro varianti dionisiache, superomiste e «titaniste» (come le chiama Evola in modo ironico). Coltiva una austerità anti-vitalista, disprezza le filosofie post-romantiche della Vita.  Aborrisce il compiacimento sensuale di Marinetti e di d’Annunzio, la loro voglia di far colpo su un pubblico femminile estasiato. La sua misoginia teorica però non gli impedisce di avere storie con donne, e anche con la famosa scrittrice Sibilla Aleramo, considerata proto-femminista[10]. Il suo atteggiamento nei confronti del femminino è forse espresso dal titolo di uno suo scritto dadaista mandato a Tzara: Monsieur le baron Evola cherche une femme qui l’entretienne[11],«Il signor barone Evola cerca una donna che lo mantenga».

Ma il suo trascendentalismo non è “occidentale”, non è il salire dell’io verso la Divinità, come nella tradizione mistica cristiana da cui pure dice di essere affascinato. Il suo è un trascendentalismo “orientale”: una trascendenza dell’individuo che non viene sbarrata da Dio – è il sogno non di perdere l’io in Dio, ma di divinizzare l’Io. Insomma, il richiamo provocatorio di Evola alla Tradizione, alle civiltà medievali e orientali antiche fondate sulle caste e le gerarchie, di fatto è solo superficialmente anti-moderno: che c’è di più modernista della divinizzazione dell’Io? Il paradosso di certo pensiero “tradizionale”, come quello di Evola, è che si pensa anti-moderno proprio perché ha succhiato fino in fondo il veleno dolceamaro della modernità: l’idealizzazione del proprio Io. Il progetto anti-modernista di Evola radicalizza, di fatto, la hybris individualista del Novecento. Ma è un modernismo che deve auto-fraintendersi come tradizionalismo per radicalizzarsi. 

Questo egocentrismo, staccato dalle passioni “profane” del materialismo, lo rende freddo e calmo. L’ideale evoliano è una tranquillità schiva, una nobile impassibilità. Ispirato da Novalis e da Jünger, condivide la faccia gelida, spassionata del romanticismo d’acciaio, anti-vitalista e anti-materialista. Del resto, l’astrattismo – con Kandinskij e Malevič – nacque in gran parte come reazione spiritualista a un materialismo delle avanguardie precedenti: contro il sensismo impressionista, l’analitica cubista, il tecnologismo futurista e il vitalismo espressionista. Non a caso il manifesto dell’astrattismo fu il libro Dello spirituale nell’arte (1911) di Kandinskij, e certamente forme e bordi astratti del pittore russo-tedesco evocano le favole russe e paesaggi slavi zeppi di campanili, angeli e santi. Il Blaue Reiter, Cavaliere Azzurro, riprende i San Giorgio russo-ortodossi, celebra come Armonia Celeste la tensione spirituale che spinge i primi astrattisti ad astrarsi dalla cruda realtà materiale degli oggetti e dei rapporti sociali.

Ma, a differenza del perturbato e commosso Kandinskij, Evola declina un “romanticismo freddo” permeabile all’influsso della Neue Sachlichkeit (Nuova Oggettività): egli va «incontro alle cose in tutta la loro freddezza e durezza facendo tacere l’anima»[12]. I signifiants-maîtres di Evola sono: freddezza e durezza. Esperto alpinista, Evola è sedotto dal silenzio delle alte vette e delle nevi eterne. Fin nella morte: raccomanda che le sue ceneri vengano gettate da un aereo su un ghiacciaio[13]. Idee e scrittura di questo spirito vulcanico celebrano un’apoteosi della glacialità.

Julius Evola, Tavolo, 1921-25

Riflettere (sul) segno

Evola giunge al dadaismo sulla scia della sua ammirazione per Fichte, Wagner, Debussy, Rimbaud, per il Papini «filosofo mefistofelico». Benché fosse stato suo maestro di pittura il futurista Giacomo Balla, la sua opzione per il Tzara-pensiero significa per lui opposizione netta al futurismo, di cui gli ripugna la fede progressista e «americanista», l’idolatria della vitalità e della tecnologia. Comunque, il suo astrattismo nella fase dada esprime quell’ideale aumano (così lo chiamerà) di trascendenza e distacco: arte astratta dal mondo, segno della assolutezza smisurata di un Io autarchico che si erge come pura volontà di potenza. La sua opera artistica pare insomma esprimere, alla lettera, il tratto che Ortega y Gasset, in un saggio eloquente del 1925, isolò come specifico delle avanguardie artistiche del tempo: la desumanisaciòn[14].

Ma per capire l’incontro tra lo spiritualismo di Evola e il nichilismo dadaista occorrerà porci qualche domanda di fondo sul ruolo di Dada tra le avanguardie del «secolo breve».

Il dadaismo da tempo è stato integrato nel Pantheon dell’Arte della nostra epoca, ma non credo che i leader del dadaismo sarebbero stati lusingati di essere celebrati in istituzioni artistiche.  «Sono assai sfortunato – scriveva ad esempio Evola a Tzara – la mia esposizione a Berlino ha avuto molto successo: 12 giornali, …, ne hanno parlato abbastanza bene»[15]. E questo perché il dadaismo si proclamò appunto non nuova forma artistica originale, ma risolutamente anti-arte.

Il dadaismo, più di ogni altro movimento di rottura, ebbe caratteri cosmopolitici – una Multinazionale che faceva capo a Tzara. I dadaisti non avevano una patria elettiva né santuari, prosperavano in modo rizomatico (direbbe Deleuze) in Occidente. Al cosmopolitismo globalista si aggiungeva l’indefinibilità stilistica: è molto arduo far coincidere dada con una maniera artistica determinata. Confluiranno nella Multinazionale Tzara artisti che producono di fatto opere espressioniste, futuriste, astrattiste, dechirichiane, “concettuali” (diremmo oggi), costruttiviste, ecc. In effetti, il presupposto più squisitamente dadaista è che le opere, in quanto tali, non contino nulla. Come scrive lapidariamente Evola, «artistica non è invero da dirsi una certa opera in sé stessa, ma è concepibile soltanto in funzione di una interpretazione e di una ricreazione»[16].

Non esistono opere-fatti, esistono solo opere-interpretazioni.

Questa secondarietà dell’opera materiale fa del dadaismo storico una punta di diamante della modernità. Riflettere sul dadaismo è quindi l’opportunità migliore per pensare l’essenziale della modernità artistica.

Oggi per lo più pensiamo che l’essenza della modernità artistica consista nella rappresentazione non del mondo, ma del linguaggio stesso dell’arte. E questo era chiaro allo stesso Evola:

Laddove nella “grande arte” il mezzo espressivo rimaneva strettamente subordinato alla rivelazione di un contenuto oggettivo e trascendente, nella nuova arte l’accento viene invece fatto cadere sul mezzo espressivo, e a esso si va a subordinare […] ogni contenuto. Si realizza così il paradosso, per cui si fa della forma il contenuto, e del contenuto invece la materia, contingente, per l’espressione della forma.[17]

Anche nelle opere “nuove” in cui si riconosce qualche figura, la rappresentazione raffigurante svolge un ruolo secondario rispetto a ciò che affascina ormai le arti del Novecento: «il mezzo espressivo» come dice Evola, ovvero lo stesso linguaggio della forma artistica prescelta. I dipinti rappresentano la pittura, le opere letterarie rappresentano la letteratura, le sculture rappresentano la scultura, ecc.[18] Questa idea che l’arte debba mostrare qualcosa di essenziale della propria forma è stata più volte enunciata da filosofi del Novecento. Ad esempio, per Heidegger Hölderlin e Rilke sono «poeti della poesia»: «la poesia di Hölderlin è portata dal suo destino poetico a cantare l’essenza stessa della poesia». Quel che Heidegger dice di Hölderlin e Rilke è stato detto con parole diverse da tutti i grandi artisti del modernismo: che essi si interessano soprattutto all’essenza della forma artistica che usano.

Eppure la Multinazionale Tzara intendeva andare ancor oltre: non si trattava solo di riflettere (su) il linguaggio artistico specifico, ma di riflettere – e far riflettere sul – segno in quanto tale, o, se si vuole, sulla significazione. Del resto le opere dada infrangono subito le separazioni tra forme plastiche (pittura, scultura, architettura) e danno vita a quelle che più tardi avrebbero trionfato: delle installations. Si prenda un qualsiasi ready made di Duchamp, ad esempio l’orinatoio intitolato Fontana. Questo suo gesto ci ripropone ciò che è alla base del mistero di ogni segno: il fatto che qualcosa stia al posto di qualche altra cosa, e la significhi. Se dico cavallo si tratta di un segno perché dei suoni vocali vengono messi al posto del cavallo a cui mi riferisco; se espongo un orinatoio come fontana, sottolineo drammaticamente il fatto che qualsiasi cosa – anche un orinatoio – può essere segno. Non a caso Ferdinand de Saussure affermò l’arbitraire du signe, arbitrarietà del segno[19]. Egli voleva appunto dire che nessuna rassomiglianza lega i suoni cheval, horse o Pferd con il cavallo concreto. E così, i suoni che compongono la parola italiana suono stanno al posto di tutto ciò che è sonoro, ma i suoni di suono sono suoni qualsiasi. L’essere umano rappresenta qualcosa sempre con qualche altra cosa, e l’elevazione (e annullamento) di questa cosa a “rappresentante di” è frutto di un atto arbitrario.

Si dirà: ma anche l’orinatoio di Duchamp ha qualche rassomiglianza con una fontana. Si tratta però di una rassomiglianza ironica, dato che la vera sfida consiste nell’affermare che qualsiasi cosa può diventare segno, quindi arte. Nei termini di Saussure, il dadaismo dice che il significante non solo è connesso arbitrariamente al significato, ma che esso può non riferirsi ad alcun significato, come accade appunto nella pittura astratta.

A suo modo Evola coglie questa tracotanza del significante che il dadaismo riflette e su cui esso riflette. Oggi nella arbitrarietà dadaista riconosciamo il bisogno di mettere a nudo l’arbitrarietà indomabile del segno, di ogni segno, che prova la “sovranità” del linguaggio. Invece Evola nell’arbitrarietà dadaista vede piuttosto il segno dell’indomabile arbitrarietà dell’Io che, come un’iperbole, si tende all’infinito; ne fa la prova della sovranità di un Io auto-deificante. In particolare, nell’astrattismo non vede – come ormai vi vediamo noi – l’ironia finita che imita scritture e regole sintattiche che non ci sono, vi vede piuttosto la trascendenza infinita dell’Io verso il superamento della mera percezione.

Evola lo dice facendo riferimento alla Critica della facoltà di giudicare di Kant: «il processo di attribuzione del valore estetico è […] da considerarsi identico tanto per un’opera d’arte dadaista, quanto per una classica»[20]. In entrambi i casi gioca, come secondo Kant, la libera attività dello spirito umano, che nel «giudizio determinante» interpreta un convenire tra fini e cose naturali che non si dà mai nella natura fisica, sprovvista di fini[21]. Ma tra classicismo e dadaismo la differenza sta in ciò: che la fissità di certe determinazioni nella potenza del giudizio fa sì che la “vera” opera d’arte sembri, in un certo modo, “data”, essa s’impone da sé (…) La cosa invece cambia completamente nell’arte modernissima, in quanto principio di essa è (…) la libertà. (…) Sicché nell’arte ultimissima ciò che si presenta allo spettatore è, in sé, letteralmente nulla (…) e se lo spettatore da tale non si fa letteralmente un autore, il valore estetico resta una vuota parola.[22]

Evola enuncia qui qualcosa di essenziale dei modernismi del Novecento: il fatto che siano essenzialmente arte aristocratica, in quanto si rivolgono all’élite degli artisti, e non allo “spettatore in quanto tale”. Lo spettatore capisce le opere moderniste, può goderne, nella misura in cui lui stesso percepisce da artista. (E questo accade proprio all’epoca dell’ascesa delle democrazie. In effetti, il fatto che tutti i regimi totalitari – di destra, sinistra, o religiosi – finiscano con l’interdire le correnti moderniste non è affatto un dato storico estrinseco. Di fatto, i modernismi sono possibili solo in democrazie liberali e capitaliste, vale a dire in epoche in cui prevale l’estetica di massa, e quindi un vasto mercato libero dei prodotti culturali. Le avanguardie del Novecento sono inscindibili dall’arte di massa di cui pur esse si vogliono antitesi.)

Fuori di questa aristocrazia – in cui lo spettatore si solleva al rango di artista, e non viceversa – c’è il Kitsch, ovvero l’arte per le masse consumatrici. Nell’arte classica l’artista era grande quando faceva un bel ritratto del principe, oggi è grande nella misura in cui lui stesso si offre come principe e principio artistico a un pubblico iniziato alla sua corte. Evola così mette a nudo l’essenza squisitamente aristocratica delle avanguardie, anche di quelle che si dicono molto bolsceviche. Non a caso un nome bellico come “avanguardie”: l’arte moderna si vuole in guerra, in attacco, è un’arte di guerrieri. E i guerrieri, nella cultura europea, sono i nobili.

Quindi, per Evola il dadaismo mette a nudo la kantiana Urteilskraft, la «forza di giudicare» che opera in ogni esperienza estetica, ma che opera per lo più in modo oggettivato, alienato – ed Evola aggiunge «in modo femmineo». In questo senso, ogni modernismo è meta-arte, anche quando si propone come anti-arte. Ed è meta-arte perché libera la potenza creatrice dell’Io dalla sua dipendenza riconoscente dalle grazie quasi muliebri dell’opera: l’arte moderna rivela l’inaudita forza virile dell’Io, non grata alle norme collettive e dolcificanti della bellezza, ma crea arbitrariamente ciò che Gli piace.

Julius Evola, Vasetto Athanor, 1920-21

Verso la Cosa

Questa vocazione autoreferenziale è però solo un aspetto delle avanguardie artistiche. Evola a suo modo coglie l’altro aspetto, correlato al primo: la sua vocazione attiva, il suo mirare a un reale al di là di ogni significazione e rappresentazione.

Infatti, la riflessione del linguaggio e del segno ha il suo rovescio: questo linguaggio o segno non ha più nulla del soggettivismo/oggettivismo realista, non si tratta più di oggetti-rappresentati-per-me. Linguaggio e segno rimandano a ciò che trascende qualsiasi rappresentazione. La modernità evoca senza posa il lato reale del sensibile che ogni arte non riesce a rappresentare, e a cui rimanda come al proprio mistero. Come il Mistero religioso antico, l’arte tiene nascosto qualcosa di cui, grazie a questo velo, rivela la presenza. Ma che cosa è questa cosa ri-velata dall’arte non rappresentativa? Non sono evidentemente gli oggetti visibili – come nell’«arte retinica», così chiamata da Duchamp – ma das Ding, la Cosa stessa, il nocciolo direi del mondo visibile[23]. L’arte rappresentativa, pre-moderna, si interessava alle cose visibili, la modernità alla «Cosa» delle cose visibili.

Il cubismo analitico, per esempio, rinunciava a rappresentarci adeguatamente gli oggetti: ci gettava davanti agli occhi un mondo scomposto in pezzettini, e quegli elementi ci venivano offerti quindi come il quid, la cosa che secondo il cubismo costituisce l’essenza stessa del reale. I cubetti – che pur assimilano il mondo visibile a una combinatoria di lettere, come se il mondo fosse tutto una scrittura – sono la Cosa essenziale, non gli oggetti visti o narrati.

D’altro lato il futurista, ad esempio, rappresentando il corpo della ballerina che volteggia come se fosse un pistone d’auto, stornava il nostro sguardo dal corpo rappresentabile della ragazza verso la tecnica pittorica che permetteva al pittore di riflettere, flettendolo, il proprio artificio. Ma così volgendosi verso il linguaggio, verso le forme pittoriche al limite astratte (come in certe sculture di Boccioni), in un colpo solo il pittore ci insinuava un sospetto metafisico: che dietro le forme naturali o sensibili della ballerina ciò che dobbiamo cogliere è invece il carattere artificiale, meccanico, del corpo e della natura. «Il volto non è che un’immagine fabbricata dal parrucchiere», diceva il dadaista berlinese Raoul Hausmann.

Un piatto della cucina futurista era intitolato «I reticoli del cielo». L’idea non era solo che il cielo fosse in realtà il reticolo su cui opera il disegnatore, ma che das Ding – la cosa – del cielo stesso è reticolare. Persino nel disordine celeste il futurista mostrerà ciò che il cielo è essenzialmente per l’homo faber: una griglia millimetrata dello spazio. Insomma, il futurismo ha cercato di mostrarci che l’essenza del mondo è la Macchina. Come del resto mostra la scienza moderna, per la quale tutto – anche la mente umana – è macchina. La macchina è il modello attraverso cui pensare la natura stessa.

Quindi, la modernità rinuncia al discorso riflettente oggetti per riflettere i linguaggi – ma così facendo intende iniziarci alla scrittura a-umana di qualcosa oltre gli oggetti che chiamerei il Reale. Pur celebrando la ricchezza semiologica del mondo tecnologico, dove si illustrano linguaggi e segni più che oggetti, la modernità genera una sorta di backlash “reazionario” rispetto a questa celebrazione: essa si fa salvaguardia, tutela, dell’invisibile. Io preferisco qui il termine Reale, come distinto dalle rappresentazioni, dalle immagini e dai pensieri.

In effetti, quel che caratterizza tutta l’«arte modernissima», come la chiama Evola, è la sua denuncia dell’illusionismo dell’arte classica, il suo sfruttare l’illusione ottica. Nella pittura, l’illusione è quella di una terza dimensione oltre la tela o il muro, per cui il quadro appare una finestra sul mondo; la modernità ripeterà in tutti i modi che «la pittura è solo macchie su una tela o su un muro». Nella scultura, l’illusione fondamentale è dare l’impressione che l’essere vivente sia in qualche modo presenza reale, il Marc’Aurelio di piazza del Campidoglio a Roma vorrebbe darci l’impressione che l’imperatore esca a cavallo verso Roma… C’è un presupposto pigmalionico in tutta la scultura classica. Quanto all’architettura, l’illusionismo di quella classica (diciamo post-gotica) consiste nel celare la funzione puramente abitativa della casa, e farne un oggetto scultoreo che si incontra nel paesaggio. Il modernismo ci ricorderà allora senza posa la funzione abitativa della costruzione architettonica («la macchina per abitare» di Le Corbusier), sarà funzionalista appunto. Ma diventerà campione dell’architettura moderna F. L. Wright perché le sue case più tipiche saranno di fatto quasi invisibili, si fonderanno con la natura circostante, sono abitazioni non “da vedere” ma “da abitare”.

E così il teatro eliminerà la scena illusionista, che presenta di fronte al pubblico una mimesis di spazio altro, e gli attori si confondo con i personaggi. Il teatro moderno metterà in primo piano l’attore in quanto non trasfuso nel personaggio, e lo spazio scenico o rappresenterà un mondo non verosimile, astratto, oppure esso di identificherà tout court allo spazio del palcoscenico nella sua nuda realtà materiale. Quanto alla musica, quella classica è anch’essa illusionista nella misura in cui cela la sua essenza di successione o sovrapposizione di suoni per dare l’impressione di essere un “discorso”, la musica classica si spaccia da narrazione.

Contro l’illusionismo dell’arte classica – dal XIII al XIX secolo – la modernità sarà decisamente “platonica”, nel senso che pretenderà restituire, oltre gli effetti d’illusione dei fac-simile, un reale non immaginarizzabile: la tela e la pasta colorata, il corpo dell’attore o dell’artista (o il suo sangue, come quello di Marc Quinn), la pietra o il metallo prima di ogni lavorazione, oggetti comuni e non la loro rappresentazione, suoni e rumori senza le melodie, tetti e muri per difendersi dalle intemperie, sgocciolare di colori su una superficie…

Il reale a cui mira quest’arte è al di là di ogni brillanza degli oggetti, degli enti gettati davanti ai (e per mezzo dei) miei occhi; è la rupe opaca davanti alla quale la rappresentazione naufraga. Ciò a cui tende un certo minimalismo astratto, ciò a cui tendeva Malevič con il suo quadratino bianco su fondo bianco, è un vuoto, una sottrazione di oggetti. Si aspira al reale epurando il sensibile[24].

Quindi le avanguardie, de-scrivendo linguaggi, hanno cercato di “scrivere” l’essenza delle cose stesse, che fanno segno oltre gli oggetti. Anche nei quadri astratti di Evola vediamo segni, ghirigori, che evocano una scrittura – ma una scrittura che nessuna comunità umana usa. Nei quadri di Evola, cifre e lettere (che ricordano il cubismo) si associano a forme evocanti un universo astronomico, oppure sacchi ricurvi della vita originaria sulla terra. Come per gli Antichi, anche per Evola la scrittura dell’astrazione matematica si sovrappone al mondo a-umano dei cieli abissali e delle Origini delle cose. Quella di Evola dunque si propone come una scrittura allo stesso tempo privata e cosmica, linguaggio personale e linguaggio dell’Essenza del Mondo, che perciò può pretendere di essere La Scrittura, cifra alchemica, linguaggio trascendente ogni storica scrittura inventata per comunicare.

Ma allora, se occorre mirare alla Cosa, al Reale, dietro il velo del «mondo come mia rappresentazione», come definire o concettualizzare questa Cosa?

Ogni grande corrente modernista avanza una propria risposta a questa domanda – e dispiega la metafisica specifica che ispira i propri gesta. La metafisica del futurismo, abbiamo visto, è che l’essere intimo delle cose è Macchina in Movimento, la physis è techne che si modifica e scorre. L’ambizione ultima di parte della modernità sarà allora quella di mostrare che la physis, la natura stessa, è linguaggio o techne – in particolare, scrittura e macchina. Anche attraverso le sue proteste ironiche, il modernismo mira a un disvelamento: quel che appariva physis è rivelato come techne, ars. L’arte non imita più la natura, piuttosto l’arte disvela e colonizza la natura come essa stessa Arte.

Vedremo invece qual è la variante di Evola, articolata anche attraverso i suoi filosofici quadri.

L’Individu-Io    

Evola pensa che l’essenza intima delle cose, il loro quid, sia l’Individuo Assoluto. In seguito muterà terminologia: da una parte c’è l’individuo come unità statistica, atomo pronto a essere computato nelle società democratiche e mercantili; dall’altra c’è la persona, vale a dire un’entità trascendente e singolare che esercita liberamente volontà e potenza. Questa persona è in parte l’Io dell’idealismo, ma soprattutto è l’Io – anzi D’Io – che ha ereditato i tratti del Dio di Duns Scoto: istanza libera di volontà e potenza. Questo D’Io eleva-leva (nel senso dell’Aufhebung hegeliana: levare, elevare, conservare) il nichilismo grazie al proprio carattere cartesiano di certezza, e a una propria spietata immobilità parmenidea. Al mondo volgare del divenire, Evola contrappone il culto di questo D’Io puro e immoto come un ghiacciaio.

Si ricordi la raccomandazione su come scrivere una poesia da parte di Tzara:

Prendete un giornale, una forbice (…), ritagliate un articolo e poi, con cura, ognuna delle parole che lo compongono, e mettetele in un sacchetto. Agitate dolcemente. Prendete infine i ritagli l’uno dopo l’altro e copiate coscienziosamente. Il poema vi rassomiglierà.[25]

Ora, Evola interpreta così questa precisa ricetta dadaista: «il valore estetico non esiste in sé nell’opera d’arte, ma è concepibile soltanto in funzione di una interpretazione e di una ricreazione». In sostanza, il precetto dadaista sarebbe: «Sperimenta te stesso come nuda, incondizionata libertà, come ciò, per cui tutto può essere indifferentemente brutto o bello non appena tu lo voglia!»[26]

Altri vedrebbero in questo sfruttamento estetico del puro caso da parte di Tzara non tanto l’affermazione di una arbitrarietà soggettiva (dell’artista o dello spettatore), quanto un corollario essenziale della polarità linguaggio-Reale che abbiamo visto nel modernismo: il caso è creatore di senso, e quindi l’opera, creatura del divino Caso, è non rappresentazione ma, radicalmente, evento. Più tardi, esibizioni di tipo dadaista verranno chiamate happenings, eventi. Come un dio, l’artista, giocando col caso, non dà senso al mondo, ma spinge con iattanza nel mondo un prodotto che, come ogni creatura, è presenza senza senso. Ora, Evola, secondo la metafisica che gli è propria, vede nell’aleatorio quel che gli sta a cuore: l’incondizionata libertà dell’Io, il quale crea sovranamente il senso senza che nulla, nell’opera, glielo imponga. «La poesia vi rassomiglierà» di Tzara significa per lui che nell’arte, come in uno specchio, l’Io (non l’uomo! né il soggetto!) vede ed esalta solo sé stesso come potenza. Eppure questo sé stesso non è altro che l’arbitrarietà del caso; perché il caso è padre di quell’illusione che è il senso. Perciò il dadaismo è per lui la punta gelida in cui converge il narcisismo del modernismo, nichilismo finalmente compiuto: l’apoteosi della libertà nuda dell’I(ndividu)O che nel gioco insensato si rivela a sé stessa; rivelazione che libera la forza aumana dell’Io.

Idealismo pratico

Si è classificata frettolosamente l’opera filosofica di Evola come una variante in quella galassia idealista (Gentile, Croce) che ha dominato la cultura italiana per tutta la prima metà del secolo. Certo, nei suoi trattati degli anni 1920 egli fa uso di strumenti concettuali dell’idealismo dell’epoca. Ma quel gergo e quegli strumenti gli servono per maturare piuttosto esigenze della reazione romantica contro l’idealismo. Der Geist, lo Spirito dell’idealista, aveva caratteri universali, collettivi, anonimi. A ciò reagirono tutti quei filoni che, in un modo o nell’altro, videro nell’idealismo sacrificata la singolarità nelle sue varie forme e la rivendicarono: l’Unico (Stirner), il singolo (Kierkegaard), l’Oltre-uomo (Nietzsche). Questi anti-hegeliani vedevano nella smisurata spiritualizzazione idealista una rimozione delle istanze irriducibili della solitaria dissidenza, della individualità differenziata. A queste istanze si rifà il solitario Evola. Ed egli combina in modo ardito l’idealismo speculativo con una metafisica aristocratica dell’Io come Uno e come libera volontà di potenza. Un Io solare e magico, che fa eco al pensiero di Nietzsche[27], Otto Weininger e Carlo Michelstaedter.

Ma d’altro canto ogni filosofia della singolarità e della concretezza rischia di naufragare di fronte al fatto che celebrare la Singolarità è sventolare, né più né meno, un concetto come gli altri. Rivendicare la Concretezza è restare, ancora e sempre, nella Concettezza, se mi si permette il neologismo. Hegel trasformò questo limite deludente di ogni dominazione concettuale in una potente macchina dialettica di trasfigurazione spirituale del mondo e della storia: per lui ogni filosofia è idealista, anche quando è così ingenua da non accorgersene. Come il re Mida, il filosofo idealista trasforma qualsiasi fango vitale nell’oro del concetto. Ma questa Aufhebung hegeliana del mondo nell’oro auto-riflettente dello Spirito ha un prezzo – re Mida morì di fame. Come Evola cerca allora di sfuggire alla morte per fame dell’idealismo speculativo?

In uno dei modi possibili in cui spesso i filosofi sfuggono all’idealismo: rinunciando alla vana onnipotenza del concetto, smettendo di fare filosofia. Evola vi sfugge dandosi alla Magia. Non alla magia delle fattucchiere, non all’esoterismo industrializzato che oggi seduce le masse, ma all’alchimia spirituale, alla letteratura vedantica e ai Tantra della Mano Sinistra. Si dà a una magia che invece di elevare l’uomo a Dio – o di levare l’uomo riportandolo a Dio – divinizzerà non l’uomo, ma Io. Così, riprendendo il magischer Idealismus di Novalis, Evola contrapporrà l’«idealismo magico» all’idealismo trascendentale. Che opporrà soprattutto al neo-idealismo casareccio, italiano, e a quello di Gentile in particolare[28].

Questo connubio di esaltazione dell’Io e di coltivazione delle saggezze orientali ispira in noi una giustificata diffidenza: il buddhismo e derivati negano l’Io e la sua autonomia, certo non Lo esaltano. Si sospetta che Evola abbia stravolto il pensiero orientale filtrandolo con categorie occidentali romantiche a esso del tutto estranee.

Eppure, questa opzione per la potenza “magica” dell’Io è una vicissitudine spesso presente negli avanguardismi artistici. L’arte rappresentativa – medianica, la chiamava Evola – mira a «rappresentare per il soggetto il mondo degli oggetti» e quindi si riserva un solo potere pratico: il potere psicologico sulle anime. Già Aristotele nella Poetica aveva notato che l’arte tragica sfruttava eleos e phobos, compassione e angoscia, e poi il piacere della katarsis, affetti da cui le anime degli spettatori sono affette grazie allo spettacolo stesso. L’arte rappresentativa – tutta patetica, e pato-logica – aveva rinunciato insomma a quella performatività che invece caratterizzava le arti primitive e medievali. Per la moderna filosofia sono performativi tutti gli enunciati che, quando sono pronunciati, sono anche azioni: pregare, comandare, giurare, maledire, promettere, ecc. Le arti primitive e “tradizionali” facevano più che rappresentare. Per esempio, gran parte delle statue egiziane non servivano a essere guardate da qualcuno, ma ad accogliere delle reincarnazioni. La Divina Commedia non era la descrizione di un lungo sogno, ma aveva un valore profetico, era una predicazione mistico-politica mediante allegorie. Invece l’arte «medianica», producendo mere effigi del «mondo come mia rappresentazione», non era in grado di agire realmente sulle cose, sugli uomini o sugli dei. 

Le avanguardie mirano anch’esse alla performatività, così rieditano arti primitive che si confondevano ancora con l’azione religiosa, politica o magica. Così, ad esempio, la passione di Picasso per le maschere rituali africane, di Artaud per il teatro magico balinese, di Pound per i libri profetici, ecc., insomma, per gli strumenti di una azione che dovrebbe modificare il reale ‑ un reale politico, ma anche sovrannaturale. «La poesia – dice lapidariamente Evola dadaista – sarà allora quel che la stessa parola (poiesis) esprime: azione»[29]. In verità era una traduzione scorretta: poiesis non è azione quanto piuttosto produrre, fare. Ma questo errore di traduzione indica come Evola abbia capito la specificità dell’arte moderna: il suo essere innanzi tutto praxis, azione, più che techne, produzione tecnica. Atto efficace, non descrizione del mondo, la quale è sempre prodotto da consumare.

Così, le avanguardie rifiutano l’impotenza servile o cortigiana delle arti classiche, e puntano a una mutazione performativa del mondo, a vari livelli. Quasi tutte le avanguardie malcelano questa propria ambizione militante o profetica: l’azione può rendere presente (e non solo rappresentare o ri-presentare) il quid, l’essenza. Alcuni si convincono che possono attingere al quid attraverso il méthodique dérèglement de tous les sens dell’arte, altri invece passano il Rubicone dell’azione nel reale. Rimbaud se ne andò in Africa a fare il mercante; i futuristi italiani corsero a combattere la guerra patriottica; molti surrealisti francesi e futuristi russi si risolsero alla Rivoluzione bolscevica; Evola preferì diventare magicamente un D’Io. La magia è un’azione efficace che assomiglia molto a quel che vuol fare l’arte post-classica, modernista.

L’azione magica è supposta efficace non perché operi a livello della ottusa res extensa, delle concatenazioni tra cause ed effetti: essa assume che i significanti producano effetti nel reale. Nella magia, ordine dei segni e ordine delle cose entrano in collusione. E questa collisione-collusione tra segni e cose è in fondo anche il progetto eccessivo di ogni modernismo: la pretesa di cambiare attraverso i segni, poeticamente, il mondo. Il modernismo artistico è o magico o tecnologico o entrambe le cose. Ad esempio, alla Biennale di Venezia del 2011, un’artista turca, Ayse Erkmen, realizzò un grande impianto che rendeva potabile parte dell’acqua della laguna; dopo esser stata pulita, quest’acqua veniva riversata in un canale. Si trattava quindi a prima vista di una pura operazione tecnica, utile, dissetante. Quel che la “riabilitava” come arte però era il fatto che quest’operazione tecnologica alla fine risultava inutile; era una pura purificazione simbolica. Un’operazione di utilità tecnologica si rivela alla fine solo di utilità magica.

Nessun serio pittore astratto, anche dopo Evola, considera i suoi dipinti delle pure forme decorative. Ogni astrattismo non è solo “idealista”, ma anche sottilmente magico, in quanto aspira a riformare percezione e vita sul modello delle supposte forme pure dello spirito.

L’opera modernista non è quindi solo specchio del linguaggio: si vuole evento che buca il reale. Quando Duchamp presenta il suo orinatoio, egli evidentemente non vuole sottolineare la dignità estetica di quell’orinatoio, ma vuol produrre evento, e non solo scandalistico.

Certamente possiamo dire che, almeno negli ultimi cinquant’anni, è il dadaismo di Duchamp, o certe costruzioni di Man Ray, ad aver trionfato nell’arte contemporanea. È quasi finito il modernismo purista – di cui l’arte astratta era il paradigma – ovvero l’ideale di un’arte essenziale, pittura puramente pittorica, scultura puramente scultorea, musica di sonorità pura, ecc. Straripa oggi il ready-made, la contaminazione di tutte le forme, dal cinema al computer, dagli interventi sul paesaggio all’uso di oggetti comuni e dei suoni… L’“arte” è più che mai impura, è stata completamente dislocata dalle forme tradizionali in cui era classificata. Certamente Evola non poteva vedere nel dadaismo la matrice della moderna arte contemporanea. Ma aveva intuito l’affermazione dell’arbitrio dell’artista nel suo poter usare qualsiasi cosa.

È quel che aveva fatto Duchamp ricontestualizzando oggetti comuni come la ruota di bicicletta, la pala, l’orinatoio… Non ha fatto qualcosa di così diverso Warhol, quando ad esempio riproduce le Brillo Box, indistinguibili dalle scatole reali. Che cosa ci tocca nella ruota di Duchamp o nello scatolame di Warhol? Il fatto che questi artisti sono stati capaci di produrre evento, ovvero l’atto politico di proporci oggetti comuni come opere d’arte. Non è, come credono molti, che l’objet trouvé da Duchamp a oggi sia un modo, da parte dell’artista, di farci notare una bellezza o un’emozione nascosta o inosservata in oggetti banali, non fatti per essere ammirati esteticamente. Il ready-made non è una forma modernizzata di Natura morta, non è il far risaltare un lato toccante o struggente di oggetti umili, non è “industria morta”, Still Machine (come avviene in molta Arte povera italiana), è piuttosto un atto violento: è il fatto che Duchamp abbia osato farlo, che Warhol abbia osato farlo… Ciò che ammiriamo è la sfacciataggine di un artista nel decidere di elevare un oggetto banale a opera d’arte. Il dadaismo, fino alla pop art e oltre, promuove una Grande Riforma dell’intelletto – insomma, fa politica culturale.

Ma Evola, dandy accigliato e austero, non ama la politica, nemmeno quella culturale. Alla Riforma sociale preferisce la potenza isolata dell’alchimista e del sapiente. Alla performatività politica o ecologica preferisce la solitaria performatività iniziatica, e testimonia di ciò che gli preme: l’arbitrio dello spirito.

Il guerriero delle cause perse

Ma l’identificazione all’efficacia del mago è solo un aspetto della deriva evoliana. Egli stesso descrive altri due aspetti attingendo alla sapienza indiana: egli si dice a un tempo kshatriya (uomo d’azione, guerriero) e brahmâna (contemplativo, sacerdote). Il versante contemplativo è quello che lo spinge alla filosofia e alla meditazione, mentre il versante guerriero lo assimila a quella che, a torto o a ragione, descriviamo come ideologia della Destra, come La scrivono coloro che là si schierano, ovvero con la maiuscola.

La sovversione modernista ha emanato molto spesso un alone di Rivoluzione Conservatrice. Le grandi avanguardie artistiche e filosofiche del secolo scorso hanno colluso in modo preferenziale con due ideologie politiche: il fascismo e il comunismo. I futuristi italiani, Ortega y Gasset, Céline, Drieu la Rochelle, Pound, Heidegger, Jünger, Ungaretti, Pirandello, Gehlen, Hamsun, Cioran, Mishima, Borges, Paul de Man, Evola, ecc., tutti hanno colluso, in vario modo, con qualche movimento di estrema destra. Indubbiamente l’apporto della cosiddetta cultura radicale di destra non è stato meno decisivo di quello della cultura radicale di sinistra nel dar vita al modernismo artistico e letterario. E ricordiamo questo non per concludere col vecchio adagio benpensante “gli estremi si toccano”, ma piuttosto per interrogarci su quale forza determinante abbia incrociato i destini delle avanguardie artistiche e filosofiche del Novecento con i due grandi radicalismi anti-borghesi del secolo scorso. Il nesso sta con ogni probabilità nel fatto che il fascismo e il comunismo, entrambi, sono stati le due grandi cause perse di quel secolo – detto, proprio per questo, breve.

Un personaggio di Borges diceva che un vero gentiluomo non si sporca mai con le cause vincenti, può schierarsi solo con cause perdenti[30]. Da una parte Tzara divenuto poi stalinista, dall’altra il suo ammiratore Evola che guarderà con favore al Terzo Reich: quel che unisce questi due gentiluomini insorti è il loro essersi fatti avvocati di due grandiose cause perse. (Forse il solo vantaggio della cultura di Destra è di sapere già – e quindi, di volere anche – di essere una causa persa. La Destra si fa meno illusioni della sinistra.) Tutte le avanguardie del Novecento sono insorte contro la cultura borghese, capitalista, liberale, insomma contro il mondo moderno. Si pensi a un personaggio come Pasolini, che si diceva comunista, e oggi non a caso letto e celebrato dai giovani di estrema destra; e la generazione gramsciana che ne ha decretato la fortuna condivideva la nostalgia pasoliniana per un mondo popolare antico e pre-capitalista. Le grandi avanguardie del secolo scorso si sono rivoltate contro la «rivolta delle masse»[31]. Hanno reagito al predominio delle masse, a quella “cultura democratica” fondata sui sondaggi, al regno della quantità e della doxa, che ha dominato il loro secolo anche prima di vincere, ufficialmente e simbolicamente, per due volte, a Berlino – nel 1945 e nel 1989.

Il modernismo, almeno in arte, è stato radicalmente anti-moderno. Le avanguardie, al di là delle loro declinazioni leniniste o nazional-socialiste, hanno inalberato l’arte (o la sua distruzione) come resistenza aristocratica contro il dilagare di un “classicismo popolare” divenuto ormai industria dello spettacolo, macchina patetica per le anime aristotelicamente compassionevoli e angosciate, Hollywood, Broadway, Telenovelas, Mediaset. È quanto aveva visto bene, sin dal 1925 nella Desumanisaciòn del arte, Ortega y Gasset, quando poneva come tratto essenziale di ogni modernismo un effetto che solo in apparenza è estrinseco o casuale: la sua anti-popolarità, interpretata come sua dis-umanità. Per tutta l’arte moderna vale quindi quel che Adorno dice di Schönberg, per esaltarlo: «Nessuno vuole avere a che fare con [la musica di Schönberg], né i sistemi individuali né quelli collettivi; essa risuona inascoltata, senza echi»[32], come un manoscritto abbandonato in una bottiglia gettata in mare. Altro esempio: nel Teatro e il suo doppio[33], in cui Artaud propone il suo progetto di teatro della crudeltà, alla voce «Pubblico», scrive solo: «Il faut d’abord que ce théatre soit» (Bisogna innanzitutto che questo teatro sia).  Il teatro non è fatto per il pubblico, ma tutt’al più il pubblico deve aggiustarsi al teatro.

Insomma, non importa che l’arte delle avanguardie incontri un pubblico. Certo, questa reazione iconoclasta di un’arte volutamente impopolare declina verso sinistra o verso Destra a seconda che si assuma l’etica del nobile guerriero staccato dalla massa (Destra), o si assuma l’idea che la massa debba diventare tutta nobile (sinistra).

Un pregiudizio storiografico ci porta a vedere ogni epoca storica come un affresco omogeneo, come permeata da uno spirito unico che impregnerebbe di sé l’arte, la politica, la religione, la filosofia, persino la scienza. Uno sguardo più perspicuo ci porta invece a vedere ogni epoca come un campo di battaglia in cui configgono forme di vita spesso opposte. E quel che ci appare più importante e decisivo di ogni epoca, a un’analisi più fine si rivela come una reazione di quell’epoca contro sé stessa. Così l’invenzione greca della democrazia trovò massima espressione nella radicale confutazione della democrazia da parte di Platone, critica che ancor oggi ci punge. L’etica e le virtù dell’impero romano si espressero in filosofie radicalmente individualiste, tese alla “cura di sé” e al benessere interiore, come lo stoicismo e l’epicureismo. Il Seicento, secolo di cupe guerre di religione, di Inquisizioni e di trionfo delle monarchie assolute, fu anche l’epoca del fiorire del razionalismo filosofico e scientifico. Il Settecento illuminista e in apparenza razionalista fu tutto attraversato dall’affermarsi della sensibilità romantica che trionfò in un bestseller epocale, I dolori del giovane Werther. E potremmo continuare così per ciascuna epoca. Ogni sistema istoriale – per dirla come Heidegger – non ha coerenza organicista, ma illustra la lotta immane di un’epoca contro sé stessa. Ogni modernità (ovvero ogni epoca, per chi ci vive), se interrogata profondamente, è dis-identica a sé, è anti-sé, è anti-moderna.

Resta una differenza tra l’avanguardista di Destra (come Ungaretti o Evola o Pound) e l’avanguardista di sinistra (come Tzara o Breton o Sollers): modello del primo è il guerriero, modello del secondo è l’amante cortese, il troubadour. Entrambe figure medievali. Tutto il modernismo è una nostalgia pre-raffaellita? Ma sia il guerriero (Destra) che l’amante povero della Signora (sinistra) rincorrono un ideale di nobiltà. Essere nobili – attraverso l’arte o la guerra – è stato il sogno dell’arte del secolo breve.

In effetti, che il modernista si orienti al fascismo o al comunismo, comunque è animato da un presupposto distruttivo, nichilista. Si prenda la celebrazione da parte di Breton dell’atto surrealista più semplice: scendere per strada e sparare all’impazzata sulla folla[34]. Cosa sarebbe “di sinistra” in un atto così delittuoso e assurdo? Come da una raccomandazione del genere Breton poté passare al trotzskismo? In fondo, non siamo molto lontani dall’enunciato «la guerra, igiene del mondo» del Marinetti super-nazionalista e proto-fascista. C’era nelle avanguardie novecentesche, di estrema sinistra o di estrema destra che si dicessero, un’urgenza “soreliana” e a-umana di violenza e di guerra. In ogni caso, «l’atto surrealista più semplice» per Breton rivela quel che ha alimentato le grandi arti del Novecento: una rabbia sconfinata, terroristica, contro “il mondo borghese”, ovvero contro la gente comune, la folla anonima dei petits bonhommes. Così le avanguardie novecentesche ben rappresentano un’epoca che ha visto guerre e sterminî spaventosi. Alla base c’era la profezia di Nietzsche dell’Oltre-Uomo come superamento della mediocrità del «gregge umano», come identificazione finale dell’Uomo con Dio, che non commette atti buoni o cattivi, ma che semplicemente gioca, crea e distrugge nella più irresponsabile innocenza etica. Evola quindi, celebrando l’Io nella sua assolutezza a-umana, non fece altro che dare forma esplicita, didascalica, al titanico progetto aristocratico delle arti del Novecento.

Quindi, se il modernismo è stato essenzialmente anti-moderno (ovvero anti-capitalista e anti-borghese), gli avatar politici degli artisti – essenzialmente, nazifascismo e anarco-comunismo – sono stati in fondo dei tentativi di dare sbocco sociale, legittimità etica, a un nichilismo distruttivo individualista. L’impegno comunista o nazifascista cercò di dare rispettabilità collettivista e altruista a quella «pulsione di morte» (direbbe Freud) che portò alcuni al suicidio, altri – come Boccioni – a cercare di farsi ammazzare in guerra.

Evola si riconobbe guerriero, kshatriva, e optò per la Destra. Forse perché in gioventù si confrontò seriamente col suicidio. «Vi scriverò ben presto – scrive a Tzara il 16 maggio 1921 – una lunga lettera con molte cose divertenti. Nondimeno, vi comunico il mio suicidio che avrà luogo tra due o tre mesi. Vostro J. Evola»[35]. Mesi dopo preciserà che si trattava di un suicidio “metafisico”. Comunque è sopravvissuto a un duello spirituale immane che mise in gioco anche la propria vita fisica. Di solito i sopravvissuti a una grande prova radicale si sentono Signori. Il guerriero, ideale di ogni spirito di Destra, è più o meno l’eroe descritto da Hegel nella famosa dialettica del padrone e del servo[36]: guerriero è chi diventa padrone rischiando la vita in un duello per una contesa di puro prestigio. Il duello di Evola per puro prestigio fu contro quello che lui chiamò «mondo moderno». Eroe fatalmente perdente, per Hegel, dato che il servo – chi invece non ha rischiato la vita – diventa lui il signore, grazie all’umiltà del lavoro e della scienza. Malgrado tutto, è sempre «il mondo moderno» – il servo – quello che, alla fine, sopravvive. E quindi vince. 

Il testo qui riprodotto amplia e aggiorna il contributo al catalogo della mostra Dada. L’arte della negazione (Roma, Palazzo delle Esposizioni, 29 aprile-30 giugno 1994), a cura di Enrica Torelli Landini, Dee Luca 1994. Le illustrazioni che accompagnano il testo sono tratte dal catalogo di Arte e magia. Il fascino dell’esoterismo in Europa (a cura di Francesco Parisi, Rovigo, Palazzo Roverella, 29 settembre 2018-27 gennaio 2019), Silvana 2018.

Immagine di copertina: Julius Evola, Senza titolo, 1919-20


Una bibliografia essenziale post-1994:

F. Cassata (2003). A destra del fascismo. Profilo politico di Julius Evola, Torino, Bollati Boringhieri.

P. Chiantera Stutte (2002). Julius Evola. Dal dadaismo alla rivoluzione conservatrice (1919-1940), Roma, Aracne.

Fondazione Julius Evola (2015). Bibliografia di Julius Evola

P. Furlong (2011). Social and Political Thought of Julius Evola. Taylor & Francis.

H. T. Hakl (2002). Julius Evola et la «révolution conservatrice» allemande, Deux Etendards (sotto lo pseudonimo di H.T. Hansen)

H.T. Hansen (2002). Julius Evola’s Political Endeavors, introduzione a J. Evola, Men Among the Ruins (Vermont: Inner Traditions).

J.-P. Lippi (1998). Julius Evola, métaphysicien et penseur politique: Essai d’analyse structurale, Éditions L’Âge d’Homme.

A. Romualdi (1998). Su Evola, Roma, Fondazione Julius Evola.

M. Sedgwik (2004). Against the Modern World: Traditionalism and the Secret Intellectual History of the Twentieth Century, Oxford, Oxford University Press.

P. Staudenmaier (2019). Racial Ideology between Fascist Italy and Nazi Germany: Julius Evola and the Aryan Myth, 1933-43. «Journal of Contemporary History».

G. Stucco (2002). The Legacy of a European Traditionalist: Julius Evola in Perspective, «The Occidental Quarterly» 3 (2), pp. 21-44.

A. Tarquini (2009). Il Gentile dei fascisti, Bologna, il Mulino.


[1] Su Giulio Cesare Andrea Evola, cfr. la sua autobiografia, Il cammino del cinabro, Scheiwiller, Milano 1972. Philippe Baillet, Evola e l’affermazione assoluta, Edizioni di AR, Padova 1978; Adriano Romualdi, Julius Evola: l’uomo e l’opera, Giovanni Volpe, Roma 1979; Piero Vassallo, Modernità e tradizione nell’opera evoliana, Thule, Palermo 1980.

[2] Cfr. Giovanni Lista, Dadaismo italiano, in «Berenice», XI, 26, aprile-giugno 1989, pp. 27-38. Sul dadaismo in generale, cfr. Arturo Schwarz, Almanacco Dada, Feltrinelli, Milano 1976.

[3] Giovanni Lista, Tristan Tzara et le dadaisme italien, in «Europe», 555‑556, luglio-agosto 1975.

[4] Edita dalle Edizioni Dada, ad opera di Maglioni e Strini a Roma; ripubblicata dai «Quaderni di Testi Evoliani», 3, Roma, 1992. Le opere pittoriche di Evola sono riprodotte in libro a cura di Enzo Cipriano e di Elisabetta Valento, per la casa editrice Il Settimo Sigillo di Roma. Cfr. Roberto Melchionda, Il volto di Dioniso. Filosofia e arte in Julius Evola, Basaia, Roma 1984.

[5] Sul rapporto di Evola con la cultura “tradizionale”, cfr. Pietro Di Vona, Evola, Guénon, De Giorgio, SEAR, Reggio Emilia, 1993.

[6] Evola ebbe anche una corrispondenza con Guénon: René Guénon, Lettere a Julius Evola, Arktos, Carmagnola 2005.

[7] Julius Evola, Cavalcare la tigre, Scheiwiller, Milano 1971, pp. 150-7.

[8] Id., Filosofia, etica e mistica del razzismo, Sentinella d’Italia, Gorizia 1985; Indirizzi per un’educazione razziale, Edizioni di AR, Padova 1979; Sintesi di dottrina delle razze, Edizioni di AR, Padova 1978; Tre aspetti del problema ebraico, Edizioni di AR, Padova 1978.

[9] Diorama filosofico, a cura di Marco Tarchi, Europa, Roma 1974, pp. 159-60.

[10] La Aleramo lo descrive attraverso il personaggio di Bruno Tellegra in Amo dunque sono (1927).

[11] Lettera del 7 dicembre 1920, cfr. Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara, «Quaderni di testi Evoliani», 25, 1991.

[12] Neue Sachlichkeit: una confessione della nuova generazione nordica, in «Rassegna Italiana», XVI (1933), p. 316.

[13] Cfr. Testimonanze su Evola, a cura di Gianfranco De Turris, Edizioni Mediterranee, Roma 1985, p. 203.

[14] Cfr. José Ortega y Gasset, La disumanizzazione dell’arte, Lerici, Cosenza 1980.

[15] Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara, cit., p. 35.

[16] Julius Evola, Sul significato dell’arte modernissima, in La parole obscure du paysage intérieur, All’Insegna del Pesce d’oro, Milano 1963, p. 37. Il testo rielabora una conferenza tenuta all’Università di Roma il 16 maggio 1921 e viene pubblicato nel 1925, in appendice ai Saggi sull’idealismo magico.

[17] Sul significato dell’arte modernissima, cit., p. 27.

[18] Ho sviluppato queste tesi in alcuni saggi: Riflessioni della modernità, «Rivista di Estetica», XXXI, 1991, 38, pp. 27-48; Una riflessione sull’arte d’avanguardia, «Lettera Internazionale», 81, 3° trimestre 2004, pp. 28-31; La modernità e il reale, http://www.sergiobenvenuto.it/capricci/articolo.php?ID=99; La modernité et le réel, «Ligeia», XXIV, 105-108, janvier-juin 2011, pp. 5-13.

[19] Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, Laterza, Bari 1972, pp. 85-88.

[20] Evola, Sul significato dell’arte modernissima, cit., p. 38.

[21] Riferimento alla differenza, in Kant, tra «giudizio determinante» e «giudizio riflettente». Nel primo («uso apodittico della ragione») il generale è già dato e conosciuto, per cui si tratta di determinare creativamente i casi particolari a cui si applica. Nel secondo («uso ipotetico della ragione») il generale è problematico e deve essere trovato. 

[22] Cfr. Julius Evola, L’operaio nel pensiero di Ernst Jünger, Volpe, Roma 1974, p. 40.

[23] Il tema della Cosa (das Ding in Freud) è stato ripreso da Jacques Lacan, Il seminario, libro VII. L’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino 1994.

[24] L’idea che tutta l’arte – e non solo l’arte – del XX secolo ha puntato sul reale è stata sviluppata da Alain Badiou, Il secolo, Feltrinelli, Milano 2006. Da qui la vocazione epurativa dell’arte moderna.

[25] Tristan Tzara, Manifeste de l’amour faible et de l’amour amer [1924], in Id., Sept Manifestes Dada. Lampisteries, Pauvert, Paris, 1960.

[26] Evola, Sul significato dell’arte modernissima, cit., pp. 37-9.

[27] Sottolinea invece la distanza di Evola da Nietzsche Massimo Cacciari, nell’intervista data a «Il Settimanale», 24, 1981.

[28] Evola dirà di preferire il pensiero di Croce alla «prosopopea fumosa» di Gentile (il fratello simile è sempre più odiato dell’estraneo dissimile), anche se Croce era anti-fascista e Gentile invece era ministro fascista. Il vantaggio di Croce, per Evola, era forse nel fatto che non fosse laureato.

[29] Evola, Sul significato dell’arte modernissima, cit., p. 41.

[30] Jorge Luis Borges, Tema del traidor y del héroe, in Id., Ficciònes, Buenos Aires, Sur, 1944.

[31] Cfr. José Ortega y Gasset, La ribellione delle masse, 1930; SE, Milano, 2001.

[32] Theodor W. Adorno, Filosofia della musica moderna, Einaudi, Torino 2002, p. 130.

[33] Le Théâtre et son double, Paris, Gallimard, 1938; trad. it. Il teatro e il suo doppio, a cura di Gian Renzo Morteo, Torino, Einaudi, 1968.

[34] Manifesto del surrealismo, 1924, tr. it. Manifesti del surrealismo, Einaudi, Torino 2003.

[35] Lettere di Julius Evola a Tristan Tzara, cit., p. 39.

[36] Fenomenologia dello spirito, §§ 431-33.

Sergio Benvenuto

già ricercatore del CNR a Roma, esercita come psicoanalista e scrive da filosofo. È stato Visiting Researcher alla New School for Social Sciences di New York, insegna psicoanalisi in vari istituti in Russia, Ucraina e Italia. È presidente dell'Istituto psicoanalitico Elvio Fachinelli. Ha fondato nel 1995 l’”European Journal of Psychoanalysis”. È redattore delle riviste di psicoanalisi “American Imago”, “Psychoanalytic Discourse” e della rivista filosofica franco-indiana “Philosophy World Democracy”. Ha collaborato e collabora a varie riviste culturali sparse per il mondo, di varie lingue. Ha pubblicato vari libri in italiano e in molte altre lingue. Tra i più recenti: “Perversioni” (Bollati-Boringhieri), “Accidia” (il Mulino), “La gelosia” (il Mulino), “Godere senza limiti” (Mimesis), “Conversations with Lacan” (Routledge), "La ballata del mangiatore di cervella" (Orthotes 2020), “Il teatro di Oklahoma. Miti e limiti della filosofia politica di oggi” (Castelvecchi).

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