Emozionato è, senza ombra di dubbio, l’œil di Didi-Huberman e il suo irrequieto spaziare nel tessuto temporale anacronistico in cui si innestano e flirtano l’una con l’altra le strutture aperte di pensiero e immagine. Se lo si incontrasse per caso nei cunicoli ricamati della sua prosa gli si vorrebbe dire, con le parole di Leopardi, “Io benedico chi t’ha fatto l’occhi | Che te l’ha fatti tanto ’nnamorati”. E chissà se il Poeta dell’amore per la maraviglia avrebbe approvato il “poème-tableau” intriso di pathos e adornato di corsivi che a Rancière fa tanto orrore. Una cosa è certa: a Recanati è esistito un uomo la cui poesia, oltre che ragione di vita, è stata compagna fidata e sorella alleata dell’indagine analitica e del pensiero attento. La prosa, diceva lui, per esser veramente bella, nobile e dignitosa “bisogna che abbia sempre qualche cosa del poetico”. Nel testo, anche in quello critico, non occorre performare un trapianto: non bisogna sostituire il rigore analitico alla morbidezza della poesia, come se l’ultima fosse un organo malandato e l’altro la soluzione antisettica a tutto il suo dolore. L’uno non esclude l’altra, al contrario, i due ammiccano e si inseguono per le vie incantevoli ed infauste di un’affinità elettiva. Lei con lui.
Quando Goethe, sulle labbra del capitano, introduce il concetto di affinità elettive nell’omonimo e celebre romanzo, ci parla in primis della fibrillazione di un “lasciare e prendere, fuggire e ricercarsi” di sostanze opposte, la cui forza coesiva è forgiata nel conflitto e trova, nella spinta collidente, il cardine della propria insistenza. È la scrittura, nella sua qualità grafica (nella sua immagine), a farsi segno evidente di un amore non ancora pronunciato e di un destino ormai segnato: osservando la calligrafia di Ottilia e intuendone l’affinità con la propria mano, Edoardo non ha bisogno d’altro per cogliere il sentimento amabile e amante che dalla delicata mano femminile si abbandona alla carta, vestendosi d’inchiostro. Ci si ricorderà di come in questo intrecciarsi di mani, occhi, cuore e voce – “Tu mi ami!”, esclamerà finalmente Edoardo – maturi al tempo stesso il seme di una necessaria trasfigurazione e, per finire, consumazione. Amare, diremo dantescamente, “prima radice” dello scrivere.
Che cosa attraversa, nell’intimità, parola e immagine, pensiero e visione, filosofia e arte, poesia della mano e dell’occhio? Evidentemente ciò che l’occhio di Edoardo scorge nella grafia della bella Ottilia. Se la scrittura, nel suo tracciarsi, non può che mettere a nudo il sentimento amoroso da cui attinge, l’etimologia ci ricorda che filosofare è essenzialmente amare, mentre la mitologia racconta le origini della scultura nel gesto che, tracciando il profilo dell’ombra dell’amato, sigilla l’immagine della sua assenza imprimendo l’argilla sulla linea di contorno. “Liebe zur Sache” – amore per l’oggetto – scriveva Benjamin per contraddistinguere l’atteggiamento dello “storico” dell’arte che non esaurisce il proprio compito nel puro esercizio filologico o nella semplice indagine formale. Un amore tale da lasciarsi affondare nella plasticità dei margini dove “l’intuizione intellettiva” si intreccia – “sich vershränkt” – alla “singolare unicità dell’opera”[1] – e, per riprendere il registro Goethiano, “chi fosse il primo a cingere l’altro, non si sarebbe potuto dirlo”. Così facendo non si condanna il rigore del limite in modo assoluto: gli si vuole solo garantire la necessaria morbidezza. Si preferisce, insomma, il respiro vitale di un’oscillazione alla calce lapidaria. Ancora una volta, con ostinazione, si ama. Di questa oscillazione amorosa e, potremmo dire, “biologicamente necessaria”, per usare un’espressione a lui cara, era certamente consapevole Aby Warburg. Sostenitore per eccellenza del moto pendolare, come scriveva poco prima di morire, che oscilla nello spazio intervallare tra una formula di pathos e uno sguardo disposto alla contaminazione e alla stratificazione: filologica, storica, psicologica, culturale.
Per scrivere d’immagine si deve, in qualche modo, scrivere l’immagine. Per scrivere l’immagine la si deve, ad ogni modo, amare. Questo sembra dirci Didi-Huberman con il suo prendere posizione, quella dell’immagine. E, come in tutti gli amori, è una scelta non esente dal rischio. Minacce insidiose che Jacques Rancière, riferendosi alle parole di Didi-Huberman sui montaggi di Bertolt Brecht (Kriegsfibel 1955; Arbeitsjournal 1938-55) e Harun Farocki (Images of the World and the Inscription of War, 1988)[2], non manca di sottolineare. Pericolo numero uno: “eccesso”, ovvero possibilità di un troppo amare. Nel prendere la posizione delle immagini e, dunque, nel dichiarare loro il suo amore, Didi-Huberman corre il rischio di un troppo “dare”: da una parte il tentativo di instillare il soffio vitale di una parola redentrice nelle immagini che, secondo Rancière, “giacciono morte sulla pagina”. Iniettare, insomma, il siero miracoloso di un certo “attivismo patetico” offerto dalla parola nel tessuto necrotico e passivo del visuale che solo così può mostrarsi “attivo”. Dall’altra parte, dice Rancière, eccesso lirico. Troppi i corsivi, troppa la poesia in circolo in questo continuo inseguirsi e ammiccare di parole e immagini nelle sue pagine aggraziate. Il verdetto finale: la biblioteca di casa Didi-Huberman è il luogo di un omicidio premeditato ad opera dell’italique che ha preso posizione. Con mano angelica i corsivi hanno prima assassinato e poi riesumato le immagini per “mostrare” una sola sopravvivenza, quella del poème-tableau. Delitto a sfondo passionale, certamente.
Se l’accusa muove dalla contrapposizione tra un’immagine passiva – morta, che “è lì per non dire nulla” – e l’eccesso della parola che vuole a tutti i costi sopravvivere all’immagine, la difesa di Didi-Huberman punta il dito verso i no comment di Rancière di fronte all’eccesso “gestuale” delle immagini – di quei soulèvements che mostrano il fermento ritmato della sopravvivenza di un gesto corporeo nelle sue implicazioni antropologiche, politiche e filosofiche. Come rispondere, in parole, al ritmo vitale dell’excès che si innerva in certe immagini? Che cosa dire di questo “sensibile” che ci urta e ci sconvolge, che cosa dire, chiede Didi-Huberman, di queste sensazioni che lo sguardo cattura, di questi feelings? Che cosa fare del “senso e dei sensi”? Che fine ha fatto Merleau-Ponty? Di no comment sembra avvalersi l’accusa – “That is not my cup of tea”, come traducono gli inglesi.
Una logica separatista fonda l’intera strategia dell’accusa e pervade, in molteplici sfumature, il testo di Rancière: dividere il tempo (“la sopravvivenza come principio attivo della divisione del tempo”), dividere la passività della fotografia dall’attività della parola, dividere la voce dell’epigramma dal silenzio visuale, dividere l’emozione dall’artista, dividere, infine, una volta per tutte, la poesia e l’amore dall’immagine. Agli atti del divorzio Didi-Huberman contrappone l’implexité: l’implicazione plurivŏcus, lo spazio di inesauribile eterogeneità dove si intrecciano non solo parola e immagine ma anche emozione e pensiero, toccandosi con mano senza potersi mai del tutto afferrare. Non siamo distanti dalla methexis di cui scrive Nancy, ovvero lo spazio di partecipazione, “commerce”, “communication”, “partage” che l’immagine realizza, di modo che il soggetto sia implicato nel senso e nei sensi, nell’emozione – “j’y deviens moi-meme un moment de la motion général des sens, des sentiments, des signifiances”[3]. Lungo una simile traiettoria Emanuele Coccia, con Aristotele, chiama metaxy la zona intermedia, il medium, lo spazio (“l’utero”, “il corpo”) oltre i confini dell’oggetto e del soggetto dove gli esseri viventi raccolgono il sensibile con cui “nutrono le loro anime giorno e notte”[4].
Oggi più che mai, per cogliere la vibrazione vitale delle immagini che si distinguono dal superfluo, non si può prescindere dallo spazio di implicazione in cui occhio, stomaco, pelle e anima, altri occhi e altre pelli si sfiorano per caso come dei passants senza meta alcuna e, per lunghi attimi, si chiedono: “ne te verrai-je plus qui dans l’éternité?” Non si potrebbe forse dire che saper guardare un’immagine sia come innamorarsi di un perfetto sconosciuto? Solo attingendo da questa fitta al cuore che smuove – sposta i confini, excès – e commuove può la scrittura porsi all’altezza dell’immagine. Solo così può “sollevarsi”, come diceva Benjamin, “alla vera intuizione del bello” dove quest’ultima non è il rendersi visibile della verità ma quel qualcosa – “ritmo” – che, andando oltre la bellezza, illumina, come tutta la poesia della mano e dell’occhio è in grado di fare, la stoffa poliedrica e bucherellata del reale. In questo spazialismo non può che darsi amore e, con esso, poesia: poesia come dispersione, diceva Blanchot, e montaggio come poesia della dispersione, dice Didi-Huberman, contro – e con – il principio della divisione.
Per rimanere con Benjamin e Goethe, se Rancière, davanti al poème-tableau, prende la posizione del chimico (“era addirittura un titolo onorifico dei chimici, chiamarli separatori”), l’œil di Didi-Huberman è, al contrario, quello dell’alchimista. Il chimico-commentatore, scriveva notoriamente Benjamin con la metafora dell’opera come “rogo”, analizza, separatamente, legno e cenere. Per il critico-alchimista, invece, “la fiamma custodisce un segreto: quello della vita”[5]. In altre parole, dove lo sguardo di Rancière si limita a distinguere tra vita dell’epigramma e l’immagine morta, Didi-Huberman scorge, al contrario, una fiamma vitale – il ritmo pulsante della vita storica – nel continuo implicarsi a vicenda di segno verbale e visivo. Non si dava divisone, per Benjamin, tra le due figure. L’uno era anche l’altro. Morbidezza con rigore.
Legno e cenere: quando Rancière analizza il gesto critico di Didi-Huberman operando una scissione continua tra immagine come forma visuale e immagine come “operazione figurale”. Distinzione necessaria, forse, ma che di per sé non porta ad apprezzare la sensibilità di uno sguardo che si nutre dell’implicazione ambigua dell’una nell’altra. Le due non entrano in concorrenza tra di loro (così scriveva Benjamin delle opere d’arte e della filosofia) ma si incontrano nello spazio intimo di un’affinità elettiva – zona ambigua, intrisa tanto d’amore quanto di conflitto. L’œil, proprio perché innamorato, è in grado di mostrare la fiamma che alla separazione oppone la combustione di scrittura e visione, consapevole che in questo bruciare si rischia la vita di entrambe. E se alla fine sono le parole, come dice Rancière, a dover chiarire come opera l’immagine non è per cedere alla logica di una fin troppo scontata opposizione tra un discorso che agisce e un’immagine che perisce e nemmeno per sventrare l’immagine e rovesciarne le fredde interiora sulla pagina bianca. È per cercare di portare alla luce il gioco ritmato di quel “lasciare e prendere, fuggire e ricercarsi” che oscilla tra l’esibizionismo muto dell’immagine e gli Umlaut della parola.
Fiamma vitale: non a caso Didi-Huberman scrive che l’immagine brucia: “saper guardare un’immagine sarebbe, in qualche modo, divenire capaci di distinguere dove essa brucia, dove la sua eventuale bellezza serba il posto a ‘un segno segreto’’[6]. Se è vero, come lui afferma, che dobbiamo “implicarci in” – condizione fondamentale per avvertire il calore della fiamma – per poterpoi “esplicarci con” è altrettanto vero che in questa “esplicazione” (termine pericoloso), o nell’offerta amorosa della parola che tenta di sollevarsi all’immagine, bisogna fare estrema attenzione. Si possono comprendere, da una parte, le riserve di Rancière verso l’atto esplicativo – “operatività della dimostrazione” – che sembra, talvolta, voler disvelare un segreto nell’immagine. C’è davvero il rischio, così facendo, di scottarsi – rischio di cui Didi-Huberman è sicuramente consapevole. Come esplicare – se di esplicazione si può parlare – senza uccidere le sfumature intrise di senso e sensi dell’implicazione? Tentando di conservare, forse, il residuo indicibile che resiste all’esplicazione nel bisbiglio insicuro di un’evocazione. Ma la questione è certamente complessa e non è semplice parlare di “metodo”, come scrive invece Rancière.
Preservare il palpito in parola. Rinunciare però a disvelare “tutti i secreti di questo palpito”, come suggeriva Leopardi. Limitare dunque l’amore. Non a caso Benjamin, scrivendo di quel “Liebe zur Sache”, parlava anche di limite: “l’amore per l’oggetto si limita [hält sich an] al riconoscimento della radicale unicità dell’opera d’arte”[7]. Anche nel più travolgente degli amori, essere capaci di vera rinuncia: compito difficilissimo ma fondamentale per mantenere viva la fiamma. Dall’altra parte, essere consapevoli che è la rinuncia, forse, la forma più nobile di attenzione – dunque d’amore – verso l’altro. Verso quel perfetto sconosciuto o sconosciuta incontrata al semaforo che è l’immagine.
Questa nobile attenzione che oscilla tra implicazione e rinuncia saprà forse indicare dove l’immagine si distingue dal superfluo e dal cliché, aprendosi così ad innumerevoli gradazioni pluricellulari che alterano il tessuto connettivo del reale. Si cammina a piedi nudi su terre instabili, certamente. Ma l’alternativa a questo rischio non può essere, d’altra parte, il no comment – non si intende qui il semplice rifiuto della parola ma il rifiuto dell’implicazione come presupposto fondante dell’ “esplicazione”. Si deve provare, insomma, a rendere conto di una fondamentale impossibilità – amorosa, certo – senza trasformarla in un altro possibile. Questo Didi-Huberman l’aveva compreso sin dai testi degli anni Novanta che lo hanno reso celebre: “Exigence du visuel: exigence vouée à l’ <<impossible>>”[8]. È di queste pagine che Rancière sembra volersi dimenticare, nel descrivere l’intero corpus di Didi-Huberman come “libri sul montaggio di immagini”, immagini che a loro volta sono il risultato di ri-montaggi di chi ha praticato “una più classica forma di montaggio”. Due dettagli sembrano perdersi in quest’approssimazione: che la ripresa di un gesto non è sorda ripetizione e che, nel confronto con la fotografia e il fotogramma, la parola critica risponde ad esigenze particolari, dovute alla specificità del linguaggio in questione. Il linguaggio della fotografia, scriveva Berger, è il linguaggio degli eventi. È con l’eventualità di questo linguaggio che la parola si deve per forza scontrare nell’Œil. Così, se in queste pagine Didi-Huberman sembra talvolta cadere in tentazione, dando forse troppa fiducia alle possibilità esplicative di una “descrizione della sovra determinazione” (surdétermination), tale tendenza è però attenuata da un constante tentativo a sfumare la rigidità dell’esplicazione nella morbidezza dell’evocazione. Non è dunque di peccato capitale che vogliamo parlare.
Alla scrittura spetta il compito ultimo e delicatissimo di dare forma all’implicazione amorosa di sguardo e immagine senza mai farla “propria”. Muovendosi con rigore e morbidezza nel passaggio continuo dal gesto all’occhio e dall’occhio alla mano, Didi-Huberman non può che danzare, poeticamente, tra i raggi rifratti del senso, bucando il manto oceanico del reale. Buchi nell’acqua, certo, se il fine del tentativo è puramente descrittivo, esplicativo. Ma non deve esserlo. Con il rigore ci deve essere poesia, morbidezza, emozione, i corsivi che a Rancière non vanno giù. Si intravedono così “un’altra terra e un altro cielo” che, come diceva Endimione allo Straniero mostrando l’impossibile al cuore dell’affinità, “non ti è dato possedere”. In quest’ultima consapevolezza sta la nobiltà del gesto critico che si muove tra il “ti amo” e il silenzio, tra l’eccesso e la rinuncia. In questo pensiero oscillante, e non nella separazione lapidaria, riconosciamo quello che Edoardo vide nel volto di Ottilia e nella sua scrittura, tra l’occhio e la lettera (“Guardò Ottilia, un’altra volta la copia…”).
Pensiero oscillante, ovvero pensare l’immagine tra gli eccessi di un “ti amo” talvolta troppo dichiarato e il silenzio gelido di un sentimento mai pronunciato. Non separare, dunque, il chimico dall’alchimista ma intrecciarne gli sguardi, con rigore e morbidezza. Rancière con – e contro – Didi-Huberman. Non si vuole, in questo amore verbo-visivo, seguire Edoardo e privare l’impossibile del suo carattere costitutivo (“Ah, ma se il possibile è impossibile – mi viene da fantasticare – bisogna che l’impossibile diventi possibile”). Si vorrebbe invece seguire quell’Ottilia che voleva perdere “ogni traccia d’egoismo” – impresa (im)possibile? – (“Le apparve a un tratto evidente che il suo amore, per realizzarsi sino in fondo, doveva perdere ogni traccia d’egoismo”) e, nel desiderare solamente la felicitàdell’ “altro” – l’immagine, la sconosciuta al semaforo, l’Edoardo di ogni Ottilia – lasciarlo sfuggire alle “branche” della ragione, come scriveva il Poeta, che invece lo vorrebbe sempre vicino, sempre più nostro. Fare di questo sentimento in perdita la prima radice dello scrivere. Ecco, forse, l’emozione più grande che la morbidezza poetica di Didi-Huberman ci regala. E, in questo nostro mondo che non smette di soffrire, esiste forse scrittura degna d’esser ricordata che non indossi un velo d’emozione?
[1] W. Benjamin, “Oskar Walzel” (1926) in Gesammelte Schriften vol. 3, ed. R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1972-91, p. 51 [trad. mia]
[2] in G. Didi-Huberman Quand les images prennent position. L’Œil de l’histoire, 1, Paris, Les Éditions de Minuit, 2009 e Remontages du temps subi. L’Œil de l’histoire, 2, Paris, Les Éditions de Minuit, 2010
[3] J-L. Nancy “L’image: mimesis & methexis” in Penser l’image I, ed. E. Alloa, Dijon, Le Presses du Réel, 2011 p. 83
[4] Cfr E. Coccia, La vita sensibile, Bologna, Il Mulino, 2011
[5] W. Benjamin, “Goethes Wahlverwandtschaften” (1922) in Gesammelte Schriften vol. 1.1, ed. R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1972-91, p. 126 [trad. mia]
[6] G. Didi-Huberman, “L’immagine brucia” in Teorie dell’immagine, ed. A. Pinotti, & A. Somaini, Milano, Raffaello Cortina editore, 2009 p. 253
[7] W. Benjamin, “Oskar Walzel” (1926) in Gesammelte Schriften vol. 3, ed. R. Tiedemann e H. Schweppenhäuser, Frankfurt a. M., Suhrkamp, 1972-91, p. 51 [trad. mia]
[8] G. Didi-Huberman, Devant l’image, Paris, Les Éditions de Minuit, 1990p. 37
In copertina: Gerhard Richter, Kleine Landschaft am Meer, 1969, olio su tela 71.5 cm x 105 cm