Le icone pronunciano in linee e in colori, trascritto coi colori, il nome di Dio. Perché, che cos’è l’immagine, di Dio, la luce spirituale del suo santo sguardo, se non il nome di Dio tracciato sul volto santo?
Tra tutte le dimostrazioni filosofiche dell’esistenza di Dio suona la più persuasiva quella di cui non è fatta menzione nei manuali: esiste la Trinità di Rublev, perciò Dio è.
Pavel A. Florenskij, “Le porte regali“
A dirla in breve, la pittura delle icone è una metafisica dell’essere; non una metafisica astratta, ma concreta. (…) La pittura d’icone sente ciò che raffigura come manifestazione sensibile dell’essenza metafisica. Nei mezzi stessi della pittura d’icone, nella sua tecnica, nelle materie adoperate, nella fattura dell’icona si esprime la metafisica di cui vive e grazie a cui esiste l’icona.
Il primo iconografo è Dio stesso, perché nell’incarnazione di Gesù Cristo egli ha compiuto il massimo autoritratto. Quando l’uomo lo emula, come ritrattista dei santi, riconosce automaticamente che il suo dipinto si riporta sempre all’immagine originaria dell’Assoluto. Per questo l’iconografo deve prepararsi a dipingere con preghiere e digiuni, con ascesi e santità.
Michael A. Wittig, “Il Monte Athos“
Il discorso di Florenskij sull’icona emerge dallo sfondo di un motivo neoplatonico. Il pittore d’icone non pro-duce, ma “toglie un sipario” e vede il suo oggetto, vivo di per sé (come sarx). La realtà sensibile non viene svalorizzata, come nella visione gnostica, ma salvata in quanto annunciata e comunicata come immagine del Padre. Il valore dell’icona ha il suo fondamento nel fatto che il Cristo si è definito eikon del Dio invisibile e su questo presupposto si fonda la riflessione teologica dei primi secoli sull’icona.
La legittimità della forma dell’icona è dunque fondata sul dogma dell’Incarnazione, sul mistero del Verbo incarnato, immagine del Padre nello Spirito Santo. L’incarnazione è la più grande opera d’arte: ispirata dallo Spinto Santo, la Madonna offre tutte le sue forze e genera l’Uomo-Dio. Cristo è la perfettissima immagine, perché “chi vede me, vede il Padre”.
Si legge nella deliberazione del Concilio russo dei Cento Capitoli: “II pittore d’icone dev’essere umile, mite, pio, non ciarliero, non ridanciano, non litigioso, non invidioso, non beone, non ladro, non rapinatore, soprattutto deve serbare la purezza spirituale e corporea con ogni cura…”.
Il Cristo è immagine di Dio invisibile: per suo mezzo vediamo l’Invisibile. Tomáš Špidlík ricorda che nella lingua russa la parola “Santo” dice anche “uno molto simile”; il cristiano è simile, il santo è molto simile a Cristo, la Vergine è la più simile a Cristo: l’uomo santo è immagine di Cristo e di Dio, nell’uomo santo si vede l’invisibile; ma come dipingerlo affinché si veda che è veramente santo?
Dipingere un’icona, dice Špidlík , è “vedere qualcosa che non si vede con occhi normali”; ad esempio, vedere Cristo come Pantokrator, cioè come nessuno lo aveva visto. Cristo era stato visto sofferente, fustigato, crocefisso, morente ma non come il vero imperatore in trono.

Vedere dunque qualcosa che non si vede, ma in cui si crede: nella Scuola di iconografi del Monte Athos la prima immagine da dipingere era la Trasfigurazione sul Tabor. Si insegnava a praticare quello che si chiama il “digiuno delle forme”: si dipinge solo quello che è simbolo; tutto ciò che è in più è distrazione.
L’Hermeneia, il manuale di pittura del Monte Athos del IX secolo, scritto dal monaco Dionisio di Phourna è il manuale per eccellenza dell’area linguistica greca. Nel monastero di Esphigmenou si trova inoltre un manuale d’iconografia sacra del XVIII secolo in cui è scritto: “II sacro ministero della rappresentazione iconografica cominciò presso gli apostoli (…) Il sacerdote ci rappresenta il corpo del Signore nei servizi liturgici in forza delle sue parole (…) il pittore attraverso le immagini”.
“Le icone pronunciano il nome di Dio”: le icone sono venerate perché sono parole e, scriveva Origene, le parole divine sono diverse dalle parole umane.
Ma come fare a unire l’immagine di Cristo con Cristo stesso, e dunque a non venerare un semplice pezzo di legno? San Teodoro Studita dice che umanità e divinità non hanno la stessa forma ma sono unite per mezzo della preghiera; solo l’amore pu. unire il legno con Cristo stesso. Senza la preghiera, dice Florenskij, l’icona è una finestra murata: si vede la finestra, ma non attraverso di essa.

“Le icone pronunciano il nome di Dio”: dando all’invisibile il nome di Dio, le icone educano a essere in contatto con l’invisibile e a “scoprire” quanto illusoria possa essere una vita solo in rapporto con il visibile (non sono visibili il pensiero, il valore, l’amore, la memoria…).
Dice Basilio, archimandrita di Iviron, citando Giovanni Damasceno: “L’icona è afona e parla. Hai davanti a te la persona rappresentata. Ti unisci a lei. La trovi, la incontri, la baci con le labbra, con gli occhi, col cuore: “è necessario… prostrarsi davanti alle icone e baciarle con gli occhi, con le labbra e col cuore (…). L’icona non aiuta semplicemente la memoria ad immaginare gli eventi antichi o le persone passate, ma crea e impone una percezione di presenza. Porta il credente a una relazione e a un contatto personali con il santo rappresentato”.
Le parole di Basilio di Iviron non sono lontane dal senso della “tautegoria” di cui parla Luigi Pareyson, rievocando Schelling.
Nelle chiese bizantine i santi sono raffigurati quasi sempre nella parte inferiore delle pareti, proprio a ‘manifestare’ la loro comunione con i fedeli. L’icona è pneumatofora, carica dell’energia dello Spirito.
Per chiarire il significato del valore terapeutico dell’icona, viene consigliato un semplice esercizio: rimanere, ‘occhi sugli occhi’, per qualche minuto osservando un’icona. Si rimane, in seguito, con la percezione di essere guardati. L’icona educa, nel quotidiano contatto con gli altri, ad aprirci alla loro Alterità.

Il testo qui riprodotto è tratto dal volume:
Lucio Saviani
Monte Athos. Il cielo in terra. Esperienze della filosofia
Luca Sossella editore, 2018, riedizione 2020
In copertina: L’entrata del laboratorio della Skete di Sant’Andrea, ph. Oliviero Olivieri