Possiamo immaginare che una singola fotografia sia solo la cristallizzazione di un determinato momento, colto entro flussi di immagini che l’hanno preceduta e che hanno continuato ad accadere dopo? Tra il fotografo e il fotografato si dinamizza una relazione silenziosa entro due spazi paralleli? Uno utilizza uno strumento di registrazione e l’altro offre il divenire della vita, il panorama geografico o un altrove. Il primo documenta qualcosa che accade nello scorrere del tempo e il secondo porge e rilascia il suo movimento interno. Ma tra questi due poli entrano altri fattori che complicano la questione. Cercare di riprodurre il reale significa anche interromperlo per uno o più momenti. Poi entrano in campo pure le forze emotive di chi fotografa, l’interpretazione soggettiva del reale, il taglio personale dell’inquadratura, la scelta del determinato momento da attrarre con la macchina, e altro ancora. Intanto il reale continua a rilasciare le sue innumerevoli e innumerabili immagini, continuamente, senza pausa. E il fotografo continua a emettere il tempo del suo cuore, il ritmo del suo respiro, la sua carica creativa, la concatenazione dei suoi pensieri o ragionamenti, l’altrove delle sue visioni, il rapporto col caso, la possibilità dei cortocircuiti.

La relazione tra l’affermazione di un’esperienza interiore e ciò che accade nello scorrere del tempo cela il desiderio di cogliere anche solo un frammento dell’energia inaccessibile della vita. La curiosità di chi ricerca un senso nelle cose del mondo deve anche fare i conti con il linguaggio stesso della fotografia, con lo scambio tra sguardo umano e occhio meccanico, tra fotogramma e complessità del reale. Azioni, immagini e aspetti latenti come scorrono dentro una singola fotografia? Come si può cogliere l’impercettibile che sta tra un soggetto e la sua immagine?

Ugo Mulas, nella sua ricerca, parte da queste domande aperte. E fa interagire le sue tensioni emotive con le prospettive delle situazioni esterne. Sceglie lo strumento del bianco e nero, il suo lirismo e le sue atmosfere, per indagare il rituale del suo sguardo. Ciò che accade nel tempo, e nel mondo di coloro che hanno rivolto lo sguardo nel futuro (gli artisti più interessanti nel loro studio), Mulas cerca di fermarlo sulla membrana del suo medium, come se dovesse testimoniare l’intensità delle buone intuizioni e i riti della vita, sia interiori sia esterni. E in questa ricerca non basta saper cogliere alcuni attimi eccezionali dell’esistenza e fermarli nella stampa in camera oscura. La vita in divenire vibra in un continuum di fatti, eventi, accadimenti, e Mulas vuole prestare la sua vita personale e il suo sguardo per fornire serie di immagini utili per comprendere la magia dell’esistenza, per partecipare all’insieme dei momenti e dei movimenti del quotidiano: “La verità è tutta la nostra vita, tutta la nostra giornata minuto per minuto, e ogni minuto può valere l’altro, e anzi deve valere l’altro”[1]. La fotografia da sola non ha senso perché è solo un frammento colto da una sola persona in un solo istante.

Per dare un’idea di continuum tra una fotografia e l’altra, Mulas stampa lasciando sempre un piccolo margine nero attorno al soggetto, per testimoniare la fine dell’immagine, oppure lascia vedere anche i rettangoli vuoti della pellicola sul rullino. E per trovare i piccoli frammenti quotidiani che danno senso e valore all’insieme di un’esistenza non c’è bisogno di andare lontano da dove si abita ogni giorno.
Così sono esemplari gli artisti fotografati nei loro studi, nel luogo dove ossessivamente hanno cercato di comprendere la verità. Mulas prende le distanze dall’unicum di Cartier-Bresson, per rendere visibile il lavoro sul tutto di un momento e di una tecnica. Ha quindi stampato a volte tutti i fotogrammi di un rullino da 36 fotogrammi su una sola lastra ingrandita. L’ha mostrata come fosse un’opera concettuale, per testimoniare l’unità organica dei vari momenti e di vari scatti, intesi nello stretto rapporto tra fotografia e il contesto di medium, inscindibilmente legati: “Nelle fotografie c’è un tempo astratto, sempre, tanto è vero che se tu guardi un provino, un contatto, tu vedi trentasei fotografie scattate in tempi diversi che possono essere scattate a pochi secondi l’una dall’altra, ma si può trattare anche di giorni, e tu contemporaneamente hai davanti tempi diversi”[2].

Si svolge così la definizione del tempo reale attraverso una sintesi visuale, espressa dentro “spartiti fotografici”, dove la diversità dei fotogrammi, il loro abito dei toni di bianco e di nero, mostra la semplice complessità di un racconto per immagini, mettendo in risalto non solo l’unitarietà ma anche le contraddizioni di questo linguaggio. Mulas tenta di andare oltre l’unicum dell’attimo privilegiato, per dare visibilità a “un attimo uguale ad altri diecimila attimi”[3].
Nel caso della serie dedicata a Lucio Fontana, se pensiamo alla carica gestuale precedente all’evento del taglio della tela, la sola immagine dell’artista ripreso di spalle, con il taglierino nella mano, di fronte alla tela bianca immacolata, già dà l’idea della tensione dell’attesa, prima della risoluzione nel gesto. Così gli altri scatti rendono il mistero del processo di gestazione, di progettazione, e di realizzazione, attraverso un montaggio temporale affidato allo spettatore. Mulas vuole rendere il processo senza fratture, dove i vari fotogrammi testimonino aspetti all’interno di un tessuto unitario.

A un certo punto mette in discussione l’essere considerato un “fotografo degli artisti” e sposta lo sguardo dentro il nucleo essenziale del processo fotografico; rende visibile la vita nascosta del fotogramma. Mulas cerca di dare meno spazio alla soggettività e di analizzare il processo fotografico, l’aspetto concettuale, l’idea. Dal 1972 le Verifiche prendono in considerazione solo l’analisi del fotogramma, gli obbiettivi, il tempo di prova, il diaframma, gli acidi, lo sviluppo del materiale, il ritocco, i metodi della ripresa, insomma tutto ciò che non riguarda i caratteri biografici di chi ha scattato le fotografie.

Anche la presenza dell’autoritratto svela il tentativo di lasciare spazio solo alla fotografia che si autoritrae. Il passo indietro di colui che fotografa si risolve al limite come documentazione della propria presenza mentre avviene lo scatto: si ritrae e non ritrae al contempo, mostra e non mostra la propria identità. L’atto del coprirsi il volto con la macchina fotografica rivela una sorta di nascondimento nell’immagine, per far avvenire una sostituzione: trasmuta il volto di una identità nel piccolo specchio pervaso dal bianco della luce. La figura personale si fa ombra, si consegna alla luce che espropria l’immagine del fotografo. Mulas si spinge verso una filosofia del registrare le immagini del mondo. Predilige un approccio logico del vedere. V’è un’apertura alla meta-fotografia, con un’attenzione alle procedure, agli atti che precedono o seguono la nascita di uno scatto, all’uso e alla funzione: la carica della macchina fotografica, la messa a fuoco, l’inquadramento, lo scatto, lo sviluppo, l’ingrandimento, il taglio. E alla Verifica 11 si addentra fino all’origine dell’opera, al suo grado zero, in una sottile investigazione del suo procedere per comprendere la complessità di ciò che non si vede nel “mentre” fotografico. La ricerca lo conduce a un progressivo spostamento verso l’astrazione di un’astrazione, verso il silenzio che sta tra l’origine e la fine del rapporto instaurato fra il linguaggio fotografico e l’immagine. Il desiderio di assolutizzare conduce la ricerca fotografica verso la presa di coscienza di se stessa. La vita viene fatta coincidere in sovrimpressione con l’immagine della vita, ed entrambe considerate una cosa sola, costituita di materia e di tempo, all’interno di un processo.

Ci si sposta verso una nuova dimensione, nel nucleo dell’idea e nel linguaggio della fotografia, per sentire la vitalità dell’essere coscienti. L’intuizione di Mulas apre a una inedita possibilità di indagine, mette in discussione ciò che fino ad allora era stato prodotto dai fotografi che lo hanno preceduto. La fotografia analizza se stessa, sotto una nuova luce. E l’ultima verifica è dedicata a Duchamp, al grande demolitore, a colui che ha fatto da apripista a tutte le avanguardie del Novecento, conducendo le visioni verso altre dimensioni del reale e altre vie percorribili.
[1] Ugo Mulas, intervista di A.C. Quintavalle, in Ugo Mulas, immagini e testi, Istituto di Storia dell’arte, Università di Parma, Parma, maggio 1973, p. 19.
[2] Op. cit., p. 21.
[3] Op. cit., p. 19.
Bibliografia su Ugo Mulas:
Ugo Mulas, a cura di G. Celant, Milano 1989; Ugo Mulas. Incontri, a cura di A. Mulas e G. Paolini, Pesaro 1995; Ugo Mulas: dentro la fotografia, a cura di E. Grazioli, Nuoro 2004; Ugo Mulas: la scena dell’arte (catalogo della mostra, Roma-Milano-Torino, 2007-2008), a cura di P.G. Castagnoli, C. Italiano, A. Mattirolo, Milano 2007; Ugo Mulas. La Fotografia, a cura di P. Fossati, Torino 2007; Ugo Mulas: la scena dell’arte, a cura di P.G. Castagnoli, Milano 2008; Ugo Mulas. Vitalità del negativo, a cura di G. Sergio (con testi di A. Bonito Oliva), Milano 2010; E. Grazioli, Ugo Mulas, Milano 2010; Ugo Mulas. Intrecci creativi, a cura di F. Pola, Venezia 2019.
In copertina: Ugo Mulas, Il laboratorio, Una mano sviluppa, l’altra fissa, A Sir John Frederick William Herschel, Courtesy Archivio Ugo Mulas, Milano.