Dialogo sugli spazi

Se qualcuno poteva essere amico di Giorgio Manganelli (e anche altre testimonianze certificano come ciò fosse possibile), questo qualcuno era Lea Vergine. A più riprese hanno scritto l’uno dell’altra e in più occasioni l’una ha chiesto all’altro di collaborare ai suoi progetti espositivi, così dando lena alla di lui Obbedienza alle leggi dei segni. A vent’anni dalla sua morte, Vergine ha scritto un ricordo di Manganelli fuori da ogni convenzione (che si legge nella Scommemorazione, il fascicolo che dedicò alla ricorrenza, nel 2011, la rivista «Autografo»).Ein due occasioni s’è indotta a pubblicare dialoghi con lui: meri lacerti da un entretien mentale, il loro, che s’immagina se non infini certo insistito, con ogni probabilità interminabile. Nel 1987, su «Vogue Italia Speciale», vedevano la luce le pagine che tre anni dopo Vergine raccoglieva nel suo libro Gli ultimi eccentrici, pubblicato da Rizzoli: pagine a loro volta deliziose, ma più tradizionalmente afferenti al genere “intervista” (non a caso comprendenti, fra l’altro, la meta-definizione di Manganelli dell’«intervista», appunto, come «occasione per l’intervistato per sapere che cosa l’intervistato pensa sull’intervistato stesso»). Ben diversa la natura del testo uscito sul numero 36 di «alfabeta», nel maggio del 1982: che si riproduce qui, in ricordo di Lea Vergine, per la cortesia di Lietta Manganelli (sia l’uno che l’altro «dialogo» sono stati raccolti nel 2000, insieme a quasi tutte le altre “interviste” manganelliane, nel volume La penombra mentale curato da Roberto Deidier per Editori Riuniti).

Se ogni volta Manganelli traduce il dialogo in sfida e ordalia, finendo per farlo assomigliare da vicino al set di una psicoanalisi deontologicamente assai poco ortodossa, in questo caso specifico il vettore della maieutica («diagnosi crudele» appunto o, come la definisce il Manga, «sevizie verbale»), se non si rovescia, si fa almeno biunivoco: al punto che è lei, in un paio di occasioni, a cercare di sottrarsi – o, almeno, «difendersi». Il tema è il rapporto, «antipatetico» per entrambi, con gli «spazi»: tanto con quelli «crudeli» (ancora una volta) della necessità, che con quelli «fantastici» della libertà (per esempio nel sogno). Prima in generale con le città, «modi di fantasticare la trascrivibilità dello spazio», poi più da vicino con gli spazi del vissuto quotidiano (di lei, infatti, più che di lui): lo «stanzino di lavoro», dove va in scena piuttosto il suo «ozio laboriosissimo e furibondo»; e poi il museo – vissuto dai due, stavolta, in modo antitetico. Per Vergine è uno dei pochi luoghi che sospenda l’incombenza dell’io, così liberandolo dai suoi «fantasmi», mentre per Manganelli il museo è soprattutto il ricettacolo di questi stessi fantasmi: una «gigantesca figura retorica» dove intrattenere, con loro, una «dinamica furibonda». Ma, proprio per questo, luogo amabile per lui, almeno quanto per lei: perché per il Manga, si capisce, «la pace è la sconfitta».

Andrea Cortellessa

***

MANGANELLI – Tu vivi a Milano…

VERGINE – No.

M. – Cosa vuol dire che non vivi a Milano anche se abiti a Milano… Cosa è per te lo spazio milanese? In che modo lo adoperi? E, intanto, lo adoperi?

V. – Non credo di poter adoperare uno spazio, milanese o no… per me è talmente faticoso pensare di adoperare lo spazio o il luogo dove si svolge la mia vita… Non mi è mai passato per la mente che vivere a Milano sia o possa essere diverso dal vivere a Roma, a Napoli o a New York.

M. – Mi pare che tu descriva un tipo di vita in cui il luogo non esiste.

V. – Diciamo che è secondario. Non mi lascio mai vivere dal luogo dove sono.

M. – Non credo che il luogo abbia la possibilità di viverti, però può entrare in rapporto con te. Io ho vissuto a Milano e a Roma: due grossi spezzoni della mia esistenza, e sono, non c’è dubbio, due forme emotivamente e plasticamente diverse…

V. – Se tu dici plasticamente diverse devo confessare che, vivendo a Milano, spesso mi ritrovo a pensare: «Cristo, come ho potuto scegliere di vivere nella bruttezza!».

M. – La mia impressione è che Milano non consenta nessuna forma di difesa nei confronti dell’autodistruzione. Mi sembra una città estremamente favorevole alla decadenza, al deciduo. È intensamente inamabile, sebbene possa conseguire un suo rozzo cameratismo. È il massimo che si possa attingere da una città come Milano; o mi sbaglio?

V. – Rozzo cameratismo… ma è molto cambiata negli ultimi dieci anni. Pare che non ci sia nessun posto in Italia dove la gente soffre, dove patisce anche senza senso, alle volte; il numero di depressi lombardi è sconfinato…

M. – Questo computo sarebbe arduo; diciamo che è una città che dà l’impressione che i depressi ci stiano bene…

V. – La gente passa dalla noia alla depressione all’ansia; non si diverte…

M. – Si diverte in maniera molto accanita. Fa venire in mente i tedeschi nelle birrerie. Ma stiamo uscendo dal tema. A me interessa Milano come modello di uno spazio da percorrere. Ogni città accarezza un’immagine di sé, e questa immagine è uno spazio mentale. In questo spazio mentale noi ci muoviamo o non ci muoviamo. Milano per me è una porta d’ingresso al tema del tuo muoverti nello spazio.

V. – Ma se c’è una persona che non ha dimestichezza alcuna con la categoria dello spazio, quella sono io?

M. – Non parliamo più di Milano come luogo, ma come ipotesi mentale di una struttura. Milano come Londra, come Monaco, è un modo di fantasticare la trascrivibilità dello spazio. Pensa, per esempio, com’è chiaro il problema dello spazio in una città come Firenze…

V. – Lo spazio di un cimitero. Non ci vivresti mai…

M. – Non ci vivrei, ma senza il concetto di spazio Firenze è impensabile. Ora, nei confronti di questo concetto tu hi un atteggiamento di rifiuto; lo spazio non c’è, o c’è ma non è percorribile? Cioè, lo spazio è un pieno, non è solo un continuo. Non ci si muove dentro un cubo di granito. Tu sei nel cubo o sei in uno spazio che, pur essendo vuoto, ti inibisce il movimento, in quanto ti offre tutti i possibili movimenti; quindi tu dovresti sceglierne uno e negarne un numero eccessivo per il tuo temperamento?

V. – Sono troppo dipendente per riuscire a scegliere uno di questi luoghi o percorsi o itinerari o labirinti…

M. – Quindi gli itinerari ci sono. Non sei nel cubo di granito. Sei in uno spazio come in un grafico mentale e lì dentro tu ti accoccoli nell’atteggiamento che ti consente di rifiutare la domanda implicita dello spazio: dove, tu, mi percorri? Quale disegno sei tu nello spazio?

V. – Ma io non mi vivo come un disegno nello spazio, m’intendi? Vale a dire che lo spazio io lo sento come un altro da me.

M. – Un altro da te significa che lo spazio è tuo nemico?

V. – Probabilmente. Se non mi è nemico del tutto, tuttavia non mi è affine, non c’è simpatia…

M. – Quindi non puoi scegliere nulla nell’ambito di ciò che si propone come spazio. C’è come un diniego strutturale…

V. – Diciamo che tendo a metterlo da parte…

M. – Potremmo forse dire che tu sei il tuo spazio…

V. – Forse è più giusto…

M. – Allora hai un rapporto antipatetico con lo spazio. Da come tu lo descrivi lo spazio è congelato, intorno a te. Sebbene il congelamento, come tale, non abbia nessun opinione su di te, tu hai un’opinione estremamente rigorosa verso di lui. Tu abiti te stessa e ti escludi la possibilità di abitare altre immagini. O mi sbaglio?

V. – No. Mi sembra centrato. Mi sembra un’affermazione che rasenta una diagnosi crudele.

M. – Mi piace che tu abbia parlato di crudele diagnosi. Perché la chiami crudele?

V. – Non mi offri nessuna scappatoia, non adombri nessun cunicolo affettuoso nel quale celarmi o defilarmi… insomma, da queste tue domande non posso venir fuori. In questo momento tu rappresenti proprio il cubo di granito, lo spazio congelato che stai descrivendo.

M. – Allora tu consideri crudele una condizione che ti nega di fantasticare una via d’uscita. Ho la tentazione di pensare che tu viva due spazi: quello congelato e quello fantastico. Non coincidendo lo spazio fantastico con quello congelato è un allettamento, quello sì, crudele; se coincidessero cesserebbero di essere tali e tu potresti muoverti. Mi ha colpito che tu chiamassi crudele la diagnosi, cioè che tu la vivessi come una limitazione, come un divieto. Nessuno ti costringe a vivere lo spazio congelato. Evidentemente c’è, dentro di te, un altro spazio che preme e suggerisce ed è questo che soffre. Mentre quello congelato non ti appartiene quello fantastico ti appartiene, e tu puoi sapere che soffre.

V. – Difatti lo so; e allora?

M. – Però la parola crudele ci ha consentito di riconoscere l’esistenza dello spazio fantastico, in cui non ti muovi ma ti immagini in movimento. È una situazione di quelle che, spesso, sperimentiamo nei sogni. Diciamo che tu non puoi muoverti nello spazio che avrebbe bisogno delle tue mani per cambiare. Lo spazio che abbiamo chiamato di granito o congelato è desideroso di essere maneggiato. Se non mi sbaglio ci troviamo davanti ad una duplice offesa: lo spazio congelato ti congela, ma tale spazio non viene toccato…

V. – Stai parlando della vita e adoperi la parola spazio…

M. – Non mi pare che la parola spazio possa essere vita…

V. – No? Sei sicuro?

M. – Se i due spazi si incrociano ne nasce un terzo brulicante… questo è forse ciò che tu chiami vita, parola che mi ripugna per il suo carattere emotivo, sebbene sia emotivo anche questo discorso; ma lo è in una maniera, come potremmo chiamarla?

V. – Emotiva con riserva…

M. – No. Anonima. Metodologicamente emotiva…

V. – Emendamento accettato.

M. – Quando tu mi parli di vita dici una parola che mi ripugna, e mi interessa il fatto che mi ripugna come mi interessa che la parola crudele ripugna te.

V. –Non è esatto che la crudeltà mi ripugni. Constatavo che quella che tu leggi come mia mancata corrispondenza tra spazio congelato e fantastico sia faccenda che costituisce per me una forma di impedimento. Qualsiasi impedimento, come tale, è crudele.

M. – Vorrei capire se l’impedimento è solo una proibizione al movimento o se è anche una garanzia. Cioè se la crudeltà appartenga anche a te.

V. – Certo, la vivo come appartenente a me… impedimento come garanzia? Probabilissimo: l’impedimento ha una sua alchimia perversa che è la garanzia, l’impedimento ha un suo lato cauto, pavido, losco, laido addirittura… quest’orrenda parola che è garanzia.

M. – Se l’impedimento è la garanzia, se la garanzia è il laido e se tu addirittura riconosci che l’impedimento crudele è una descrizione di te, allora sei in conflitto con questo laido. Tu dici: io vivo questo impedimento come una descrizione di me che detesto, ma la mia crudeltà mi è congeniale.

V. – Perché congeniale? Mi è manifesta.

M. – Ma questa crudeltà tu non la rifiuti!

V. – Dal momento che mi è manifesta non la rifiuto… ché fa venire in mente il lager?

M. – Quindi coabiti con questa crudeltà?

V. – Coabito con la crudeltà, coabito con molte altre cose con cui non vorrei intrattenere commerci.

M. – Che vuol dire «non vorrei»?

V. – Che desidererei che non fossero presenti nei miei conti quotidiani.

M. – Vorresti che si ritirassero o vorresti allontanarle?

V. – Beh! Sarebbe stupendo se spontaneamente scomparissero o, che so, magari fossero le contingenze ad annullarle…

M. – Cioè che accadesse una cessazione di crudeltà. Ma se la crudeltà non può cessare di accadere, che succede, quale atteggiamento assumi nei suoi confronti?

V. – Di resistenza; nel senso di non desistere, di tener duro.

M. – Mi pare di capire che le alternative sono: il contemplare la crudeltà come tale o il resistere.

V. – Contemplare la crudeltà non è da me, né per me.

M. – Prima hai detto che la riconoscevi.

V. – Nel senso che la decifro; non la offendo, né l’attacco.

M. – Ecco, non l’attacchi. Al massimo ti difendi.

V. – Fosse obbligata a sintetizzare, concedimi un po’ di rozzezza, con un verbo, l’insieme degli errori e degli sprechi commessi nella mia vita, nella gestione o usufrutto dello spazio fantastico, mi viene da dire: difendere. Credo d’aver sciupato un’infinità di energie nel difendermi… ma a chi vuoi che importi questo discorso…

M. – E se c’è stato questo spreco di energie, è forse la codificazione della esistenza intellettuale come difesa?

V. – Forse sì.

M. – Tuttavia nel tuo modo di difenderti c’è un’articolata e sottile capziosità…

V. – E dove la vedi la capziosità in me? Il cavillo, l’insidia, il sofisma?

M. – Il tuo modo stesso di pensare, il tuo modo di porti nei confronti delle esperienze intellettuali che affronti, sono inconsueti, sono spesso difficili…

V. – Ma per quel che concerne il lavoro è un’altra cosa. Se parliamo di attività professionale la faccenda è ribaltata. Non sono una persona che col lavoro, e attraverso questo, si difende: tutt’altro, sai che scelgo sempre di misurarmi con le imprese più ingrate, più difficoltose… mi espongo con quella che tu una volta hai definito temerarietà, coraggio…

M. – Adesso mi colpisce la parola lavoro. Parola che ti è assolutamente incongeniale. Non ho mai conosciuto una persona che riuscisse a oziare in modo laborioso.

V. – Davvero? Menzogna nera! Sei tu uno dei capisaldi di questa corrente, peraltro con illustrissimi antecedenti…

M. – Può darsi. Anzi, mi piace.

V. – Dico, siamo in pochi a detenere la libera docenza in ozio laboriosissimo!

M. – Ecco, che tu chiami la tua attività lavoro mi incuriosisce. Dal momento che non sei tipo da usare una parola solo perché codificata dal sociale mi pare che lavoro detto da te rappresenti un’articolazione della tua difesa. Questo è il mio lavoro: è una frase molto difensiva. Quando poi dici che il tuo lavoro è irto, litigioso…

V. – Via, litigioso! Furibondo; preferisco.

M. – … ecco tutto ciò non si concilia col concetto di lavoro socialmente più accetto…

V. – Ma stai parlando di un pianeta cui entrambi, mi pare, siamo del tutto estranei. Accetto poi, accettazione non sappiamo cos’è, abbi un po’ di pudore! L’accettazione, è una cosa che non ci riguarda.

M. – Sì, certo il lavoro nel senso del socialmente accetto è una cosa che non ci riguarda, almeno che non ti riguarda. C’è un mio caro amico che dice: non bisogna assolutamente lavorare! È veramente l’errore di fondo. Non c’è degradazione che l’uguagli…

V. – Mi sembra una delle pochissime cose che nessuno di noi possa rimproverarsi.

M. – Forse tu meno di me. Comunque, non c’è nulla di più degradante del lavoro.

(Intervallo, nello spazio e nel tempo)

M. – È passato del tempo da quel colloquio in cui si è parlato dello spazio congelato…

V. – Chiamalo colloquio!

M. – Da quella sevizie verbale… sarebbe interessante sapere se quella discussione…

V. – Non è stata una discussione, Giorgio; un’inquisizione piuttosto perpetrata ai danni di un pugile sempre più suonato, come dicevi prima…

M. – Tempo fa, parlando dei musei, hai detto che ami molto il loro spazio e lo hai chiamato lo spazio della pace. Che senso ha per te?

V. – Dal momento in cui metto piede in un museo d’arte antica, mi sento libera, protetta e difesa da tutti i disturbi del quotidiano. Non sono più sottoposta a nessun esame…

M. – (ghigno) Sei perciò al di fuori del discorso che stiamo facendo adesso. Quindi, questo dove siamo ora non è un museo. Mi fa piacere.

V. – Lo credo bene, questo è il mio stanzino da lavoro, detto «deposito di carta igienica»… come richiamo museale potremmo esserci noi: due figure di Bosch… Vada per Bruegel…

M. – Mi incuriosisce la contrapposizione tra la pace del museo e l’inquietudine dell’oggi.

V. – La pace del museo è quella del passato remoto, certo, contrapposta alla inquietudine dell’oggi e all’ansia del futuro. Tutto è già accaduto in un museo.

M. – Io direi: tutte le domande sono state fatte e tutte le domande sono state dimostrate inadeguate. Mi incuriosisce, nella tua risposta, l’implicita esclusione dell’ipotesi che esista un luogo d’inquietudine feroce che è, per l’appunto, il luogo della pace.

V. – Lo sarà per te!

M. – Mi pare che lo sia inevitabilmente, altrimenti non si costruirebbero musei. Essi sono un’opera di esorcismo. Tu dici che appartengono al passato. Niente è meno vero: è un trucco mnemonico con cui crediamo di vedere cose accadute nel passato. In realtà è ora, nel momento in cui vediamo questi oggetti, che siamo o non siamo disturbati…

V. – Per me è sempre stato uno dei pochissimi luoghi o spazi, dove io non mi sento inseguita da fantasmi…

M. – Ah! Questo mi piace molto… dì, dì…

V. – Nel museo sono una persona che non è chiamata a dare responsi; mi sento una entità anonima, invisibile, cui è dato, quasi con affettuosità, di viaggiare per stanze, epoche e mondi che non smuovono nulla, in me, di molesto o doloroso, anzi.

M. – Diciamo che il museo è per te lo spazio congelato abitabile? Tu hai detto prima qualcosa che mi è piaciuta per la sua involontaria autoironia. Hai detto: «è un luogo dove i fantasmi non mi inseguono». Mi è venuta in mente l’immagine di un castello scozzese pieno di fantasmi. È vero che se ci vado non sono inseguito dai fantasmi perché sono proprio lì in mezzo a loro…

V. – Che vuoi che ti dica, evidentemente questo di cui parli ora è per me uno spazio amico…

M. – Sì, però consentimi di una analisi lessicale…

V. – Figurati, non è il caso di risparmiarmi…

M. – Hai detto: «inseguita dai fantasmi». I fantasmi ti irritano se si muovono; quelli che stanno fermi ti sono congeniali?

V. – Credo di avere ottimi rapporti con i fantasmi, sia quelli in moto che con quelli sedentari.

M. – Quindi non è vero che i fantasmi sono assenti! La frase era ambigua perché parlava di inseguimento da parte di fantasmi. Sembrava che la parola fantasma fosse essenziale, mentre essenziale è la parola «inseguita».

V. – Probabilmente sì. Forse dico fantasma e sbaglio. A quello del castello scozzese io corro incontro a braccia aperte.

M. – Perché questi fantasmi, se fermi, sono il luogo della pace? Purché non accada nulla…

V. – Ma nei musei succede senza accadere.

M. – Succedere significa un susseguirsi, accadere indica un partecipare, allora rifiuto dell’evento in quanto cosa che precipita…

V. – In quando cosa che ti obbliga ad una reazione immediata.

M. – E i fantasmi non obbligano ad una reazione immediata?

V. – No. Sono al di là dello spazio e del tempo.

M. – In che senso? Prima hai detto: tutto è già accaduto. Sembrerebbe che la concentrazione di tempo del museo sia una concentrazione totale. Il museo sarebbe l’emblema del deposito totale del tempo. L’espressione «al di là del tempo e dello spazio» mi sembra debba nascondere qualche altro concetto crudamente preciso. Nella tua descrizione, il fantasma si unisce all’immobilità e alla pace. Con questo fantasma tu hai stabilito una specie d’accordo…

V. – Di connivenza…

M. – … Connivenza. Una volta parlammo di complicità… connivenza è un’intesa taciturna col fantasma per cui… per cui che cosa? Sei tu che mimi il fantasma o è lui che mima quel tipo particolare di consistenza che, sola, non ti può graffiare?

V. – Ma mi accompagnano, quando giro per un museo, questi fantasmi, meglio presenze. Sento queste presenze in molti altri luoghi, in questa vecchia casa, per esempio… ma non ho risposto alla tua domanda…

M. – No, ma forse non si può perché tu hai descritto uno spazio fantasmatico, carico di tempo e fondamentalmente tranquillo, immoto…

V. – Silenzioso soprattutto…

M. – Silenzioso. Tutto ciò a me risulta difficilmente comprensibile perché il museo è una gigantesca figura retorica che cerca di proteggere dei momenti di una dinamica furibonda… Vorrei capire, adesso, se questo luogo di raccolta dei fantasmi, se quest’abitazione (perché essi vi risiedono in modo stabile e legale) stinge, se diventa un contagio, un lazzaretto, un lebbrosario da cui possono uscire malati…

V. – Alla stessa stregua in cui lo possono i ricordi e le memorie.

M. – Possono contagiare il quotidiano, vuoi dire? Ed entrerebbero nel quotidiano come elemento di conflitto o di quiete?

V. – Ricordi e memorie che io coltivo e concimo, forse anche esageratamente, sono per me motivo di rasserenamento o meditazione; che so, un rifugio, un bene di rifugio.

M. – Un bene di rifugio. Questa è un’abile illusione. Ma torniamo al tema delle astuzie da usare nei confronti di alcuni tipi di spazio… Mi pare che questa descrizione del mondo dei fantasmi museografici, i quali, in qualche modo, abitano anche lo spazio quotidiano e formano nel quotidiano degli anfratti di riposo, riporti al tema del rifiuto di una complicità col quotidiano e di una connivenza con qualcosa che però non è – e questo mi pare il punto in cui discordiamo – l’immobilità conflittuale che il quotidiano porta seco, pur restando tale. Tu parli di quotidiano, e di fantasma. Io dico che il quotidiano è più fantasmatico del fantasma. Il quotidiano nasce dalla decomposizione del platonico e porta con sé le ferite della sua origine interrogativa. Col quotidiano non c’è possibilità di connivenza perché il quotidiano pone delle interrogazioni che pretendono, con la tragica e meravigliosa ipocrisia del quotidiano, una risposta che quotidiana non sia. La complicità è violenta, la connivenza è una specie di fittizia calma. È un dirci: non ci sono risposte perché nessuno fa delle domande.

V. – Non c’è soluzione perché non c’è problema?

M. – Esattamente.

V. – Lo diceva un grande dadaista. Ma, dimmi, il luogo di pace, per te, qual è?

M. – Non esiste.

V. – Tu menti; non dici bugie, menti. Qual è il tuo equivalente del mio museo? La lettura?

M. – Per carità!

V. – Ascoltare la musica?

M. – Dio ne guardi! Sarà meglio fermarci qui, nell’elenco…

V. – No. Devi pur aver provato sensazioni simili a quelle che mi portano nei musei. Dove e quando?

M. – Non ricordo… Puoi dirmi che a me piace mangiare e bere…

V. – E quando mangi e bevi sei in pace?

M. – Qualche volta sto bene. Se vogliamo trovare l’equivalente potrei dire che un frammento di pace esiste, in modo paradossale, quando si incontra una domanda che rifiuta qualsiasi risposta. Allora ha luogo una pace verticale che si consegna all’inanità della domanda.

V. – Scendi a designare la situazione con un esempio concreto e situala, ti prego, nel tempo e nello spazio. Hai detto: quando mangio e bevo. È vero. Bisogna però vedere con chi.

M. – Ah! Fondamentale, certo… Perché non dire che la pace è la sconfitta? Forse è l’approssimazione più vicina e lì rientra anche il cibo. Mi nutro, quando ho cessato di domandare, non avendo alcuna speranza che qualsiasi domanda possa sciogliersi al calore di una risposta. La pace è la sconfitta.

Giorgio Manganelli - Lea Vergine

GIORGIO MANGANELLI (Milano,1922 - Roma, 1990) è uno dei maggiori scrittori italiani del Novecento. Ventisette i libri pubblicati in vita (da “Hilarotragoedia”, 1964, a “Encomio del tiranno”, 1990), quarantasei quelli usciti postumi (da “Due lettere”, 1990, a “Concupiscenza libraria”, 2020): per la maggior parte editi da Adelphi.
LEA VERGINE (Napoli 1938 – Milano 2020) è stata scrittrice, critico d’arte e collaboratrice delle più importanti testate italiane. Collabora sin dal 1973 con quotidiani come Il Manifesto e Il Corriere della Sera e molti periodici.
E’ stata uno dei primi critici ad occuparsi della Body Art, pubblicando nel 1974 “Il corpo come linguaggio”, il libro che ha creato uno scandalo simile a quello delle opere che analizzava.
Ha posto in rilievo in “L'altra metà dell'avanguardia 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche”, 1980, la funzione delle donne nei fenomeni artistici della prima metà del 20° sec., apportando un contributo fondamentale nell'approccio critico e nella scoperta dell'opera artistica femminile. Numerosissime le sue pubblicazioni e le mostre organizzate. Ha scritto di sé: ”Non mi sono mai sentita un critico, piuttosto una persona che scriveva di cose che non erano e potevano essere.”

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