La resa dei conti sarà dopo le elezioni, in tutti i sensi. Non solo si conteranno i voti – e la conta si preannuncia piena di incognite e di contestazioni – ma si continuerà a contare anche il numero dei contagi e dei morti della pandemia che non accenna a scemare, anzi si inasprisce giorno per giorno, frutto pestilenziale della divisione profonda che affligge tutti gli aspetti della vita americana.
La biopolitica della morte ha mostrato in queste ultime settimane di campagna elettorale tutta la sua rapinosa assurdità e continuerà a mietere vittime, simboliche e reali. Le eco-camere sono in piena attività, così come le unità di rianimazione; la guerriglia della dis-informazione, visibile e invisibile, ha raggiunto il parossismo. E dopo ci sarà ancora chi farà, fa già appello, vox clamans, alla ragione, ai migliori angeli della nostra danneggiata natura; e inevitabilmente chi darà libero corso ai peggiori, alla paranoia e al risentimento. C’é persino chi si prepara a una resistenza, armata o disarmata, a qualunque imprevedibile esito.
Una cosa è certa: il giudizio delle urne non ci libererà dalla pandemia né l’attesa panacea, il vaccino, ci renderà immuni dal risentimento. Il vaccino arriverà, prima o poi, ma non c’è cura per una democrazia malata, solo terapie più o meno intensive o distensive, regressive o progressive; e una perenne convalescenza – o convivenza col virus. Per la democrazia, l’unica “cura,” la più radicale, è quella che uccide il malato: questo il succo della biopolitica della morte.
Lo slogan lanciato fin dall’inizio della pandemia da Trump (la cura non può essere peggio della malattia), ha messo a nudo tutta la sua logica perversa. Il rifiuto di riconoscere la gravità del contagio, la sofferenza e la morte seminate dal virus, in nome del diritto alla più egoistica vita e di una fantomatica immunità di gregge, si rispecchia sinistramente nel rifiuto di riconoscere la sovranità del voto, la volontà del gregge, in nome di una indimostrabile frode. Tutto questo si riassume nel gesto teatrale di togliersi la maschera, sul balcone della Casa Bianca o sui palchi dei comizi elettorali.
Questo gesto – dichiarazione superba di assoluta “immunità” del capo – è anche lo smascheramento delle sue reali intenzioni, del cupio dissolvi che l’anima nei confronti della precaria vita democratica. Il sospetto della frode elettorale, che rischia di inficiare agli occhi dei più irriducibili qualunque esito della conta, è il contagio, il virus inoculato intenzionalmente nel corpo politico, insieme alle più deliranti cospirazioni, non più teoriche ma vendute come virtualmente “reali.”
Se il libero voto è l’anticorpo della democrazia, per chi intende continuare ad imporre il dominio di una minoranza sempre più pallida, la soppressione del voto e dei suoi risultati è l‘unica “cura” possibile. C’è solo da augurarsi che la conta non finisca di nuovo in pareggio: anche la fedeltà al patto originario, la costituzione, verrà messa a dura prova da chi vuole imporne la lettera, ab-soluta da ogni giustizia, e ha ora la maggioranza assoluta nella corte suprema.
La democrazia è fatta di innumerevoli occhi. Val davvero la pena di invertire il panopticon della sorveglianza totale. E tenere, pur mascherati, gli occhi ben aperti.
In copertina: seggio elettorale a Concord, New Hampshire, 11 febbraio 2020, ph. Joseph Prezioso