L’ekphrasis negli scritti sull’arte di Francis Ponge

È appena uscito il numero LXI di «Semicerchio. Rivista di poesia comparata», con la direzione di Francesco Stella (Pacini, pp. 112, € 22), dedicato a Metrics of Translation. Forme particolari di traduzioni sono anche le ekphrasis, e dunque proponiamo – per la cortesia di autrice, direttore ed editore – il saggio di Serena Pompili su quelle di Francis Ponge.

Verso la fine della guerra, incoraggiato da amici quali Jean Paulhan, Ponge inizia a frequentare gli ateliers di vari artisti e a scrivere saggi di pittura. Più che una vera critica d’arte, quella di Ponge è da intendersi quale esercizio di scrittura confrontata a una nuova realtà e a nuovi oggetti. Tale frequentazione gli permetterà di ritrovare molti dei quesiti già affrontati nella sua ricerca poetica. «Y a-t-il des mots pour la peinture?»[1] è la domanda centrale che troviamo ne Le peintre à l’étude, opera del 1948 nella quale Ponge raccoglie i suoi primi articoli sull’arte contemporanea. La questione dell’ekphrasis, la descrizione di un’opera visiva, si ripropone incessante e senza un’apparente risoluzione nella seconda raccolta, L’Atelier contemporain del 1977. In diversi momenti, infatti, Ponge riconosce di trovarsi in una situazione di imbarazzo nella quale la parola appare irrimediabilmente inadeguata.

Occuparsi di pittura non è per Ponge attività alternativa alla scrittura; al contrario, il dialogo con l’opera visiva gli permette di estendere le proprie ricerche sul linguaggio. Tra la parola e l’immagine, così come tra le parole e le cose, vi è un vuoto che il poeta sente di dover colmare a qualunque prezzo. L’artista e il poeta si riconoscono allora come figure speculari che condividono gli stessi tormenti nella rappresentazione di una realtà muta, fatta di oggetti insondabili.

Prendendo in esame alcuni testi de Le peintre à l’étude e de L’Atelier contemporain dedicati a Fautrier e Braque, ci proponiamo di indagare le modalità con le quali il Ponge poeta ha trattato il procedimento ecfrasticoe il conseguente rapporto tra linguaggio scritto e visivo, al fine di indagare in che modo «la pratique du peintre devient un modèle pour l’écrivain»[2].

Sulla soglia dell’atelier. Il dietro le quinte della creazione

Cos’è un atelier? È un luogo ibrido, nel quale avviene una «métamorphose»[3]. Così Ponge avvia la serie di saggi che compongono L’Atelier contemporain. Il poeta apre al lettore la porta del suo «laboratoire»[4], luogo dove poter modellare il proprio materiale, ovvero la lingua. Sulla soglia dello studio, limite simbolico che divide l’arte dalla vita, Ponge accoglie il lettore dandogli il benvenuto:

Toi qui viens de quitter ta conduite intérieure, laisse-moi, pour un instant, te précéder, cher lecteur: quelques degrés d’accès à la porte de chez moi vont suffire.[5]

Il lettore è invitato a «quitter sa conduite intérieure», ovvero ad affidarsi alla guida del poeta che lo precede nel cammino. La porta dell’atelier apre dunque un luogo nel luogo: siamo in presenza di una mise en abyme. «Le seuil», scrive Bernard Vouilloux, «est le limen sur lequel s’articule une porte […] séparant  le  dedans  du  dehors,  l’intérieur  de  l’extérieur,  l’ici  du  là-bas»[6];  oggetto  ambiguo  e «antropomorphe» che delimita uno spazio di mutamenti. Tutti i partecipanti sono investiti dalla metamorfosi: il poeta e il lettore, attenti voyeurs del dietro le quinte dell’arte, si riscopriranno diversi alla fine del percorso. Tuttavia, è l’artista a subire il cambiamento più grande e anche il più doloroso.

Dopo averlo introdotto nell’atelier, Ponge si rivolge di nuovo al lettore per prendere congedo da lui. Altri lavori attendono di essere terminati, e da ora in avanti il lettore proseguirà da solo l’esplorazione:

Mais voici le moment venu pour moi de t’abandonner où je t’ai introduit, cher lecteur. Je m’en vais, non loin d’ici, retrouver d’autres petits travaux qui m’y attendent et dont je te ferai part à l’occasion, si, du moins… Mais j’entends que tu viens de refermer derrière moi cette porte: voilà qui est bien.[7]

Il motivo dell’atelier ha l’intento di mostrare l’arte «non certes au sens d’un produit, mais d’une production, d’un acte, d’une fabrication, d’un faire, d’une pratique, d’un processus»[8], è preferire «à la neutralité des lieux de contemplation qui passivisent l’acte visuel»[9] un approccio attivo e consapevole da parte dell’osservatore. L’apporto di un testo scritto che testimoni l’attività celata dietro il quadro si rivela dunque decisivo, «comme si le meilleur moyen pour voir les tableaux était d’abord de voir le texte qui les donne à voir»[10].

Sappiamo che l’attenzione alla genesi dell’opera è un procedimento consueto nella poesia di Ponge. La scrittura è da intendere, in una certa fase, come un tentativo approssimativo che si svilupperà, forse, nella versione successiva. Questa estetica del «tâtonnement» si contraddistingue per uno stile che si addentra «dans la vie, dans le risque, dans la maladresse, dans la forêt épaisse des expressions maladroites»[11]. Troviamo, nell’Écrit Beaubourg, la perfetta sintesi di tale concezione: «Moins donc un monument, que, s’il me faut inventer ce mot: un moviment»[12].

Se nella scrittura la predilezione è per il «brouillon», nella pittura, piuttosto che l’opera completa, sarà l’«esquisse», il disegno, ad attirare lo sguardo curioso del poeta:

Que dessine Braque? Ses desseins. À la fois précis et imprécis encore.

[…] Une suite de tentatives, d’erreurs tranquillement compensées, corrigées. Elles ont l’allure et le ton de l’étude et de la recherche, jamais de la convinction, jamais de la découverte… Mais la découverte est là, à chaque instant.[13]

Questa apologia dell’errore, che troverà nelle note di Joca Seria la sua acme – si parlerà, in quel caso, di un rifiuto «dandy» della perfezione come «commandement de l’art poétique moderne»[14] – può divenire pura ostentazione se non seguito dalla «recherche d’une écriture à l’état naissant, d’un tracé humoral, visceral, spécifique»[15].

Tale ricerca di una scrittura in divenire, resa ancora più persuasiva dalla lezione della pittura, porta l’autore dell’Atelier a dare sempre più risalto alla materialità del linguaggio poetico. Lo scopo di Ponge, spiega Vouilloux,

C’est que soit reconnue dans le langage une matérialité qui peut être aussi bien celle du signifiant linguistique (phonique ou graphique) que celle du support (l’odeur de l’encre fraîche sur la feuille de papier journal) et qu’elle soit prise en considération, quand tout (les habitudes de lecture, l’idéalisme) conspire à son occultation par le signifié.[16]

L’approccio materialista di Ponge è teso a svincolare il linguaggio poetico dal primato del significato e dall’astrattismo che ne consegue. Ciò può avvenire solo se si restituisce la parola al suo significante linguistico o al suo specifico supporto materiale. Numerosi sono i riferimenti agli strumenti dello scrittore – «le bec acéré de la plume et cette acide liqueur d’encre»[17] – e dell’artista – «échelles, chevalets et pinceaux ou compas»[18]. Per poter ripristinare questo contatto originario con il linguaggio, il poeta dovrà inoltre «retrouver le geste, le mouvement, la danse, le son, l’aspect»[19].

In Braque ou Un méditatif à l’œuvre, Ponge definisce scrittori e pittori come uomini comuni, «peut être un peu plus sensibles, c’est-à-dire un peu plus réalistes (un peu plus matérialistes)»[20]. Colui che, aprendo un giornale, saprà coglierne, oltre al significato di ciò che è scritto, l’odore «d’encre fraîche sur la feuille», ovvero si scoprirà «sensible au moins autant au signifiant qu’au signifié», sarà un perfetto «lecteur pour la poésie ou pour la peinture de Braque».

Vediamo dunque come Ponge rivendichi con insistenza l’uguaglianza tra lo statuto di poeta e di pittore, capovolgendo una gerarchia classica nella quale l’artista, a causa del suo lavoro manuale, occupava una posizione di inferiorità. L’artista è ammirato da Ponge nel suo intrattenere un rapporto privilegiato con gli oggetti.

Ma come poter far coincidere l’atto della scrittura con la pittura? Come affrontare la descrizione di un’opera visiva? «Il faut voir comme un écrivain et écrire comme un peintre»[21], scrive Vouilloux, «hybrider les actes». Non tanto «écrire sur la peinture» quanto più «écrire depuis ou avec la peinture». Partire dunque dalla pittura come mezzo per ritrovare la materialità della scrittura sembra essere lo scopo di Ponge; impresa che, vedremo, si rivelerà tutt’altro che semplice e le cui difficoltà sono evidenti già nel primo testo su Fautrier.

Un soggetto troppo «gênant». Descrivere Les Otages

La serie degli Otages, realizzata tra il 1943 e il 1945, prende spunto dall’esperienza di guerra di Fautrier. Nel 1943, arrestato dalla Gestapo, l’artista riesce a trovare rifugio in un ospedale psichiatrico a Châtenay-Malabry. Da lì può osservare le esecuzioni degli ostaggi da parte dei tedeschi che avvengono nel cortile della prigione contigua. La serie, seppur priva di elementi figurativi facilmente riconoscibili, allude alle teste dei partigiani morenti. È facile capire il motivo di tanto interesse da parte di Ponge: non solo per il tema – che suscita comunque diverse meditazioni – quanto per le modalità –con le quali Fautrier utilizza il colore e la materia, ovvero l’elemento significante. Tramite un impasto fatto di gesso, colla, segatura, olio ed altri materiali, Fautrier costruisce un’opera che si elabora tutta nello spessore, in un lento processo di asciugature, stratificazioni e rotture che può durare diversi mesi. L’effetto evoca l’idea di pelle slabbrata, di ferite sanguinanti, di cicatrizzazioni interminabili.

Jean Fautrier, Tête d’Otage n.1, 1943

Sotto consiglio di Paulhan, vero e proprio mentore per il poeta, Ponge scrive la celebre Note sur les Otages, tra i primi testi che appaiono ne Le peintre à l’étude. Nel 1945, leggendo il manoscritto, Paulhan dice di trovarne «le début bouleversant»[22]. All’inizio troviamo infatti una piccola introduzione in corsivo, nella quale l’autore esprime tutta la difficoltà incontrata nel trattare questo tema:

Ce serait trop de dire que je ne suis pas sûr des pages qui suivent: voici de drôles de textes, violents, maladroits. Il ne s’agit pas de paroles sûres. Il est un moment de la création où l’on se sent comme bousculé par la grêle de coups que vous assène votre sujet.[23]

Alla violenza del soggetto trattato risponderà la violenza del testo, che per questo apparirà inconsueto, «drôle», «maladroit». Il linguaggio si aggira nell’ombra e nell’impossibilità di esprimersi.

Il testo, redatto in momenti diversi e continuamente rimaneggiato, appare come un découpage confuso di sezioni separate da asterischi (note di regia, appunti, pensieri, brevi componimenti, massime, commenti interrotti e dal giudizio parziale):

Les masques nègres, les Esclaves de Michel-Ange, le Guernica de Picasso, les crucifixions, les descentes de croix, les saintes faces.

Il s’agit de tableaux religieux, d’une exposition d’art religieux.

Le fusillé remplace le crucifié. L’homme anonyme remplace le Christ des tableaux.[24]

Quando il soggetto è «trop atroce»[25], la difficoltà non è solo nel parlarne, ma nel «tenir debout». In questa impossibilità di descrivere l’opera, Ponge vede il segno della sua grandezza: «la bonne peinture sera celle dont, essayant toujours de parler, on ne pourra jamais rien dire de satisfaisant»[26].

Jean Fautrier, Tête d’Otage n.8, 1944

Giungiamo qui al cuore del testo e alla domanda citata all’inizio:

Y a-t-il des mots pour la peinture? On peut se le demander (en voici bien la preuve). Et se répondre: évidemment, on peut parler à propos de tout. Mais pour commencer ne faut-il pas éviter de se demander cela, et plutôt entrer dans le jeu? Ou se répondre plus simplement: voyons… essayons, nous verrons bien. Ou au contraire: non, évidemment non, pas des mots valables; la peinture est la peinture, la littérature est autre chose, et c’est évidemment pour la littérature que sont faits les mots, non pour la peinture. Mais à ce compte, il y a des mots pour tout, et il n’y a des mots pour rien.[27]

L’intero passo è caratterizzato, come vediamo, da un senso di incertezza e instabilità, dove lo stile appare meno ricercato del solito. L’autore si mostra a tratti diffidente nei confronti della scrittura.

L’ekphrasis resta una pratica necessaria alla diffusione dell’arte: Ponge non fa mistero di certo utilitarismo; molti scritti gli vengono commissionati dai pittori stessi «désireux que leurs tableaux donnent lieu à paroles»[28]:

Que veulent les peintres qui vous demandent d’écrire sur leur peinture? Ils veulent que leur manifestation (exposition, recueil) retentisse, en même temps qu’à ses yeux, aux oreilles du monde. Qu’il y ait une sorte d’imposition à la pensée par des mots à propos de leur peinture.[29]

L’influenza del testo sull’esperienza visiva dello spettatore è innegabile. La scrittura guida il suo sguardo offrendo gli strumenti per meglio comprendere l’opera. E quanto più l’autore sarà noto, uno dei «messieurs littérateurs amis du peintre»[30], tanto più l’influsso sarà maggiore e la parola sinonimo di garanzia: «il faut attirer le public».

La critica è inoltre la chiave che permette a Ponge di mantenere quegli scambi d’amicizia che si riveleranno preziosi per il suo successo editoriale e, soprattutto, un valido mezzo di sostentamento nei momenti di difficoltà economica. Sarà lui stesso ad informare con schiettezza il lettore che l’impresa potrà «nous rapporter quelque argent»[31].

Jean Fautrier, Tête d’Otage n.20, 1944

In che modo dunque parlare degli Otages senza essere «condamnés à des expressions confuses, à l’absurde»[32]? Ponge sembra convincersi sempre di più dell’impossibilità di qualsiasi intento descrittivo. Istintivamente, saremmo portati a ricorrere ad aggettivi come «pathétiques, émouvants, tragiques»[33], ma quelle teste, ricorda Ponge, non sono fatte di carne: «Ils sont épais, tracés à gros traits, violemment coloriés; ils sont de la peinture. Voilà ce qu’on peut dire». L’unica possibilità è nella descrizione del significante, la materia di cui sono composti, la dimensione dello spessore, il colore che esce dal tubo, «le blanc de zinc sortant du tube, l’huile colorée»[34]. Per il resto, Ponge è categorico; non esistono parole per Fautrier:

Nous l’avons dit: il serait vain de tenter d’exprimer par le langage, par les adjectifs, ce que Fautrier a exprimé par sa peinture. Les adjectifs, les mots ne conviennent pas à Fautrier. Ce que Fautrier a exprimé par sa peinture ne peut être exprimé autrement.[35]

Dopo una così lapidaria ammissione della sconfitta della parola, saremmo portati a credere che l’esperienza di Ponge-critico raggiunga qui il suo termine. Ma il testo su Fautrier non è che l’inizio di una ricerca che verrà inglobata anni dopo nell’Atelier Contemporain. Poco prima, Ponge identifica il suo lavoro in quello di Fautrier: «Il y a chez lui la rage de l’expression (du tube de couleur). Il ne s’est pas mis à peindre pour ne rien dire»[36].In questo passaggio possiamo vedere come Ponge citi tra le righe la sua opera da poco ultimata, La Rage de l’expression, che sarà pubblicata definitivamente nel 1952. Probabilmente, attraverso questo espediente intertestuale, Ponge sta parlando di sé: c’è in lui «la rage de l’expression» scritta, come in Fautrier c’è la «rage» che gli fa estrarre con forza il colore dal tubo. Come Fautrier, Ponge non si è messo a scrivere «pour ne rien dire». Capiamo, dunque, che l’ekphrasis in Ponge non è da intendere quale mera descrizione dell’opera grafica e che probabilmente non è mai stata questa la sua intenzione. Come nota Chiara Nifosi:

Il ne s’agit pas d’importer une technique afférente au langage pictural dans le domaine poétique; il s’agit au contraire de trouver un correspondant langagier qui puisse entraîner le déplacement de l’objet dans un espace nouveau, entreprise ressentie par le poète comme une véritable urgence.[37]

La vera urgenza è nel trovare un «correspondant langagier» o, per usare un’espressione di Ponge, una «machine verbale»[38] e non una trasposizione mimetica dei due linguaggi. Ponge si appropria degli strumenti della pittura per produrre testi che abbiano le sembianze di opere plastiche in divenire. L’unica ekphrasis possibile, dunque, non è quella di un quadro in quanto soggetto, ma di un quadro in quanto processo e movimento. Nulla di più adatto degli Otages. Dopo aver ammesso l’apparente sconfitta, Ponge intraprende un’analisi dettagliata della tecnica utilizzata da Fautrier.

Jean Fautrier, Forêt, 1943

Sappiamo che la preparazione tecnica dell’opera richiede molto tempo, soprattutto a causa del gran numero di materiali utilizzati e delle asciugature necessarie. L’esecuzione, al contrario, deve essere «rapide et intense»[39]. Dopo aver concepito l’idea generale, Fautrier si mette al lavoro all’alba. Il primo strato sulla tela è composto da «plusieurs couches de papier» a cui segue un processo di riscaldamento. È poi la volta del «pastel écrasé» e di altri materiali, tra cui oli e colori applicati dal tubo che rendono la stratificazione sempre più spessa. Il bianco è tra i colori predominanti. Il rilievo di tale creazione è ciò che più affascina Ponge.

In certi casi, la superficie evoca «des pétales superposés»[40], altre volte una «tartine de camembert»[41], mentre la lavorazione di Fautrier gli ricorda il rituale con il quale i gatti ricoprono di cenere i propri escrementi. Come vediamo, la poetica degli oggetti è sempre presente nella mente di Ponge-critico. Ne risultano opere  «extraordinairement maladroites, proches de la laideur congénitale au matériau employé»[42]. Queste architetture poco armoniose mostrano, sulle loro superfici tormentate, la presenza del materiale grezzo che le compone, come impalcature lasciate scoperte alla vista dell’osservatore: procedimento che ricorda quella che potremmo definire la poétique de l’échafaudage di Ponge. Se l’arte moderna riesce a sollevarsi a malapena dalla contingenza del materiale, come afferma Ponge[43], l’artista è colui che potrà compiere l’ultima metamorfosi: nel caso di Fautrier, «il transforme en beauté l’horreur humaine actuelle»[44].

La lezione di Braque

Ai testi su Fautrier si alternano quelli ancor più numerosi su Braque, il pittore preferito da Ponge. Riprendendo la struttura delle Vite parallele di Plutarco, Ponge mette a contrasto due figure eroiche: quella di Fautrier, dall’aspetto dionisiaco, votato alla rappresentazione «de certains conflits, de certaines gênes[45]», e quella di Braque, personalità apollinea, maestro di un’arte classica caratterizzata da «un équilibre qui ne comporte aucun manque»[46].

Attraverso un procedimento già noto, Ponge dà inizio ad uno dei suoi testi più celebri, Braque le Réconciliateur, comunicando al lettore un senso di disagio analogo a quello incontrato in Fautrier:

Lecteur, pour commencer il faut que je l’avoue: ayant accepté d’écrire ici sur Braque (sans doute parce que j’ai d’abord beaucoup désiré le faire sans me demander en quel lieu), me voici bien embarrassé[47].

Se in Fautrier l’imbarazzo era provocato dalla natura «gênante» del soggetto, in Braque è la grande ammirazione per la personalità e l’opera dell’artista a rendergli difficile il lavoro. Nel rapporto che Braque intrattiene con gli oggetti, Ponge vede i maggiori principi estetici della sua poetica. In questo incipit capiamo inoltre che, sebbene si tratti dell’ennesimo testo commissionato, egli desiderava affrontarlo già da tempo. Nel testo troviamo ancora una volta il motivo della porta e l’ammissione fittizia dell’impraticabilità dell’ekphrasis:

Au lecteur qui se présente ici il faut seulement qu’après l’avoir ainsi dans mon antichambre plusieurs fois fait tourner sur lui-même, je le lance à cheval sur mes moutons dans le couloir dialectique au fond duquel s’ouvre ma porte sur Braque[48]

Il saggio si chiude in maniera circolare sulle considerazioni già incontrate. I quadri sono «choses expréssement faites pour être vues»[49] e dunque non vi è «rien qu’on puisse dire». In Braque le Réconciliateur, Ponge definisce così il suo tentativo di scrittura su Braque:

Une sorte de compte rendu de mon idée globale intime sur Braque, pour si arbitraire ou puérile qu’elle puisse paraître : une sorte de poème à ma façon.[50]  

Una costante dei testi di Ponge è l’idea che l’arte proceda da un’esigenza intima e che per capirla sia importante avvicinarsi alla personalità dell’artista. Gli aggettivi utilizzati per definire il suo metodo informano da subito il lettore della natura particolare e bizzarra di tale pratica. 

Ponge non si dilunga quasi mai in generiche considerazioni di storia dell’arte, tantomeno si sofferma su descrizioni biografiche. Troviamo, piuttosto, aneddoti personali sull’incontro con i pittori, descrizioni dettagliate dei loro ateliers, delle loro figure, della loro personalità. L’artista è spesso investito da un’aura di eroismo e descritto da Ponge come modello esemplare, «Maître de vie»[51] nel caso di Braque. Tali resoconti cercano di riprodurre «le choc émotif»[52] provato al cospetto di questi «créateurs inadaptés»[53], uomini giganti in grado di cambiare il mondo e rappresentativi de «l’avenir de l’homme»[54]. Vediamo ancora una volta, dunque, come il contatto con il mondo dell’arte sia formativo per Ponge.

In Braque ou Un méditatif à l’œuvre, Ponge racconta un episodio avvenuto nel 1945 quando, insieme a Paulhan, visitò l’atelier di Braque. In quell’occasione, Ponge vide per la prima volta Le Violon, tra i quadri più emblematici dell’opera di Braque. La sua reazione, che ricorda la scena proustiana della morte di Bergotte e che può essere ricondotta ad un episodio della cosiddetta sindrome di Stendhal, viene da Braque ricordata come un «sanglot esthétique»[55] e descritta nei suoi particolari fisici come «une sorte de spasme entre le pharynx et l’œsophage». Subito dopo Ponge tenta di spiegare razionalmente quello strano avvenimento, «cette sorte de défaillance nerveuse»[56], riconducendolo a un momento di grande  debilitazione fisica provocata dalla recente guerra. Ma come capiamo proseguendo la lettura, lo choc è provocato da qualcosa di più, per l’appunto «esthétique», legato alla nuova concezione dello spazio nella scena cubista. Abbandonati i vecchi principi della geometria euclidea, il nuovo spazio prevede la rappresentazione di una quarta dimensione, quella temporale. La crisi della concezione euclidea rappresenta un cambiamento epocale,

puisque enfin nous vivions, concevions le monde (et nous-mêmes), agissions dans le monde […], et exprimions le monde (et nous exprimions nous-mêmes) selon les figures imposées par la géométrie en vigueur depuis Euclide […] et cela depuis vingt-trois siècles environ.[57]

Tutto è rimesso in questione. Ma Ponge acquisisce una vera consapevolezza di questa inquietante rivelazione solo attraverso il quadro di Braque. Il pittore è riuscito a scongiurare la principale «damnation de la peinture»[58]: la staticità, l’immobilità nel tempo. Con Braque, la temporalità fa irruzione nella pittura. Di tale opera Ponge non propone alcuna ekphrasis ma solo gli effetti provocati dalla visione, che devono aver avuto conseguenze sulla sua stessa scrittura. Non un «monument», abbiamo visto, ma un «moviment»: è possibile che la lezione di Braque abbia contribuito al formarsi di tale concezione. In effetti, attraverso i «brouillons» che attestano la genesi del testo, Ponge introduce l’elemento temporale nella sua opera. Come nota Adelaide Russo

Ponge entreprend au milieu du vingtième siècle ce que Braque et Picasso, suivant l’exemple de Cézanne, avaient accompli avant 1925. Il peut et doit repenser la nature de la poésie comme Braque a essayé de le faire pour la peinture.[59]

La pittura istruisce il poeta. Così come il Bergotte di Proust di fronte alla Veduta di Delft di Vermeer capirà di dover «passer plusieurs couches de couleur, rendre sa phrase en elle-même précieuse»[60], Ponge scriverà, «depuis ou avec la peinture»[61], dei testi che abbiano la dinamica della gestazione poetica.

Fin dalle prime pagine de Le peintre à l’étude, capiamo che gli scritti sull’arte di Ponge non fanno parte di studi critici tradizionali e ricordano piuttosto «des transpositions poétiques»[62] legate «à l’histoire littéraire plutôt qu’à l’histoire de l’art». Il lettore è da subito informato del metodo utilizzato dal poeta: i pittori saranno infatti trattati «pas tout à fait comme des choses, mais enfin à ma manière, c’est sûr»[63]. La rivendicazione di un approccio critico che tenga conto delle sole inclinazioni personali ricorda il metodo di Baudelaire, i cui scritti sull’arte vengono spesso citati da Ponge[64].       

Sappiamo che l’avvicinamento di Ponge alla pittura è dipeso in gran parte dalla sua volontà di acquisire gli strumenti di un linguaggio immediato, universale e dinamico, che potesse collaborare alla costituzione di una poesia che renda conto degli oggetti che ci circondano. Quella dell’ekphrasis, dunque, ci sembra una problematica solo apparente, dato che non è a una descrizione mimetica che Ponge aspira. Nella ricerca «tâtonnante» di una scrittura che si mostra nei suoi avanzamenti e nella sua materialità dobbiamo riconoscere piuttosto i tratti della «machine verbale» che Ponge sta costruendo. Tuttavia, dato il carattere aleatorio della questione, riteniamo che le ipotesi fin qui illustrate possano essere seguite da ulteriori indagini, al fine di meglio comprendere la complessità della ricerca poetico-linguistica intrapresa dal poeta.

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[1] O.C., P.E., tomo I, p. 98. Abbreviazioni, qui e oltre: O.C., P.E. = Francis Ponge, Œuvres complètes, a cura di Bernard Beugnot, Le peintre à l’étude, tomo I, Gallimard, Paris 1999; Francis Ponge, Œuvres complètes, a cura di Bernard Beugnot, L’Atelier contemporain,tomo II, Gallimard, Paris 2003.

[2] A. Russo, Le peintre comme modèle: Du Surréalisme à l’extrême contemporain, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq, 2007, p. 164.

[3] O.C., A.C., tomo II, p. 569.

[4] O.C., P.E., tomo I, p. 133.

[5] O.C., A.C., tomo II, p. 565.

[6] B. Vouilloux, Un art de la figure: Francis Ponge dans l’atelier du peintre, Presses Universitaires du Septentrion, Villeneuve d’Ascq, 1998, p.21.

[7] O.C., A.C., tomo II, p. 566.

[8] B. Vouilloux, Un art de la figure, cit., p. 59.

[9] Ibidem.

[10] Ibidem.

[11] O.C., Réponse à une enquête, tomo II, p. 223.

[12] O.C., L’écrit Beaubourg,tomo II, p. 908 (corsivo mio). 

[13] O.C., A.C., tomo II, p. 588. 

[14] Ivi, p.633.

[15] O.C., P.E., tomo I, p. 321.

[16] B. Vouilloux, Un art de la figure, cit., p. 67.

[17] O.C., A.C., tomo II, p. 567.

[18] Ivi, p. 569.

[19] B. Vouilloux, Un art de la figure, cit., p. 67.  

[20] O.C., A.C., tomo II, p. 713.

[21] B. Vouilloux, Un art de la figure, cit., p. 75.

[22] O.C., tomo I, p. 933.

[23] O.C., P.E., tomo I, p. 92 (corsivo mio).

[24] Ivi, p. 106.  

[25] Ivi, p. 92.

[26] Ivi, p. 98.

[27] Ibidem.

[28] Ibidem.

[29] Ivi, p. 97.

[30] Ivi, p.99.  

[31] Ibidem, p.100. La questione diviene ambigua quando qualche anno dopo, in Pour un Malherbe, Ponge affermerà: «qu’un poète se fasse critique, mauvais signe: sa patrie est le monde muet, qui n’a jamais proscrit personne» (O.C., tomo II, p. 24). Bisogna dunque credere che Ponge si reinventi critico a malincuore per la sola necessità materiale? Tale possibilità ci appare poco plausibile, se non altro per la sfida lanciata dalla pittura, non tanto diversa da quella del «monde muet»: utilizzare la lingua per esprimere un quadro, oggetto «muto» per natura. «De toute façon ce sera un exercice», ammette infine (O.C., P.E., tomo I, p. 100).

[32] O.C., P.E., tomo I, p. 100.

[33] Ivi, p. 108.

[34] Ivi, p. 109.

[35] Ibidem.

[36] Ivi, p. 108.

[37] C. Nifosi, Un style qui appuie trop sur les mots: Ponge et l’objet peint, in «Nouvelle Fribourg», 1, 2015, p. 7 (corsivo mio)

[38] O.C., A.C., tomo II, p. 566.  

[39] O.C., P.E., tomo I, p. 110.

[40] Ivi, p. 109.

[41] Ivi, p. 112.

[42] Ivi, p. 113.

[43] O.C., P.E., tome I, p. 112.

[44] Ivi, p.96.

[45] O.C., tomo I, p. 929.

[46] Ibidem.

[47] O.C., P.E., tomo I, p. 126.

[48] Ivi, p. 129.

[49] Ivi, p. 135.

[50] Ivi, p. 127 (corsivo mio).

[51] O.C., A.C., tomo II, p. 247.

[52] Ivi, p. 565.

[53] O.C., P.E., tomo I, p. 138.

[54] Ibidem.

[55] O.C., A.C., tomo II, p. 709.  

[56] Ivi, p. 710.

[57] Ivi, p. 712.

[58] Ivi, p. 670.

[59] A. Russo, op. cit., p. 161.

[60] M. Proust, La Prisonnière, Gallimard, Paris, 2012, p. 176.  

[61] B. Vouilloux, Un art de la figure, cit., p. 75.

[62] Ph. Verdier, L’Atelier contemporain: Francis Ponge, in «Études françaises», 17, 1981, p. 121.  

[63] O.C., A.C., tomo II, p. 565.

[64] Si ricorderanno, a tal riguardo, le parole di Baudelaire: «La critique doit être partiale, passionnée, politique, c’est-à-dire faite à un point de vue exclusif, mais au point de vue qui ouvre le plus d’horizons» (Écrits sur l’art, Le Livre de Poche, Paris, 2013, p. 141).           

In copertina: Francis Ponge                

(1991) dottoranda all’Università degli studi di Roma Tre, si occupa di letteratura francese e in particolare di poesia del Novecento. La sua tesi verte sulla poetica del gesto nell’opera di Henri Michaux. Ha pubblicato articoli su Louis-Ferdinand Céline («Il Sole 24 ore») e François Villon («InLimine»).

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