Vuoto. L’universo iconografico di Jacopo Benassi

22/10/2020

Cosa avrei visto del mondo
Senza questa luce che illumina
I miei pensieri neri.

(Franco Battiato, L’oceano di silenzio, 1989)

Una delle caratteristiche che preferisco in un artista è la riconoscibilità dello stile. Quando sei sicuro che quello che stai guardando appartenga a quel determinato autore. Un espediente, un segno, un tratto, un colore possono avere una parte importante nel delinearne la modalità espressiva e diventarne una cifra imprescindibile.

Un altro tratto essenziale, che mi intriga sempre, è la sincerità con cui l’artista si regala, si presenta agli altri. Il vissuto in prima persona, la proposta iconografica e contenutistica inscritta nella pelle e nelle ossa, arricchita da tutte le sfumature che amici, amanti, parenti possono aggiungere. Serve anche una buona dose di coerenza, di determinazione, nell’individuare un percorso e portarlo a termine, qualunque cosa succeda in mezzo: gli amori se ne vanno, gli amici possono morire, le situazioni cambiare fronte con velocità e inevitabilità, ma la visione rimane lucida, sempre uguale a sé stessa, sempre un po’ più a fuoco, sempre un po’ più forte, tanto che a tratti quella potenza si manifesta ed è illuminante e illuminata. Si può anche avere la fortuna di studiare, ma anche di conoscere, persone di questo tipo e come dire, si acquista una certa dimestichezza nell’individuare quei tratti peculiari, quei modi di fare, quei vezzi, che ci inducono a classificare chi li possiede in quel dominio imprevedibile, cui riteniamo appartengano gli artisti, quelle persone che abbiamo individuato per suggerirci una soluzione inaspettata, un sorriso sorprendente, una visione che ci riscaldi il cuore.

Mi sento di poter applicare quanto sopra elencato a Jacopo Benassi (La Spezia, 1970). Fotografo, performer, forse anche scultore, ha una produzione che data dai primi anni Novanta e che è implementata da una vasta attività editoriale, dalle semplici fanzine di matrice punk ai libri d’artista autoprodotti o alle vere e proprie pubblicazioni con editori nazionali e internazionali. Il Centro Pecci, Prato, diretto dal 2018 da Cristiana Perrella, attenta alla qualità delle proposte e lungimirante nella selezione espositiva, gli dedica una mostra personale: “Jacopo Benassi. Vuoto”, curata da Elena Magini. Aperta fino al 29 novembre 2020, l’esposizione ripercorre, attraverso alcuni nuclei fotografici, editoriali e installativi, i momenti salienti della produzione artistica del fotografo spezzino.

Quando si entra nello spazio curvo, disegnato da Maurice Nio/NIO architecten di Rotterdam, responsabile del rinnovamento dell’istituzione museale pratese nel 2016, si potrebbe essere sovrastati dalle strutture a vista e dalle pareti concave. Il lavoro della curatrice, dell’artista e di chi ha collaborato con loro, è riuscito a portare brillantemente a termine l’arduo compito di farci dimenticare tutto questo e di permetterci di concentrarci sulle opere.

Fig.1

La prima che incontriamo è un’installazione che rappresenta lo studio dell’artista (fig. 1): letteralmente svuotato degli oggetti atti al suo lavoro e ripresentati qui con la lucidità di chi vuole rendere un omaggio consapevole a chi gli è stato accanto per una vita ed individuare delle modalità espressive, che, adottate dai primi anni Novanta, sono diventate la sua cifra stilistica nel 2020: l’uso del flash, la stampa in bianco e nero, il taglio brutale dell’immagine, il ritratto, l’autoritratto, l’omosessualità, il travestitismo, la scultura, il lavoro manuale, il tavolo per incontri e discussioni, gli strumenti musicali, il suono emesso dal corpo, l’analisi spietata della propria immagine fisica, il radicamento nel luogo dove si è nati.

Tutto questo ci sommerge come un’onda emozionale, osservando gli oggetti posizionati nell’installazione scultorea, dove Benassi si è “svuotato”, restituendoci nel farlo le tracce del suo vissuto fino a questo momento e mettendo in scena per noi la sua coraggiosa rinuncia a tutto ciò di cui si è servito finora per produrre la sua arte.

Come aveva fatto nel 1970 John Baldessari, in un’azione più radicale, in cui bruciava tutti i suoi quadri eseguiti tra il 1953 e il 1966, e quindi cancellava, azzerava quella produzione giovanile, qui Benassi crea il vuoto nel suo studio alla Spezia, raggiungendo un grado zero da cui ripartire per comprendere sia cosa ne sarà della sua arte, sia che cosa ne è stato.

Nel percorso espositivo sono individuati alcuni temi, fin qui determinanti. Partiamo dalla musica, da una fotografia che ritrae alcuni spettatori ad un concerto organizzato al Btomic, il locale che apre insieme a tre amici, Lorenzo D’Anteo, Gianluca Petriccione e Roberto Buratta, nel 2011 in Via Firenze, alla Spezia, zona Piazza Brin, nella periferia di centro in una città di provincia. Il locale, chiuso nel 2016, è stato il luogo di concerti che avrebbero ben figurato nelle programmazioni dei club delle grandi città italiane e europee. Lydia Lunch, Six Organs of Admittance, Jozef van Wssen, Julia Kent, Fabrizio Modanese Palumbo, Lori Glodstone, Mary Ocher, Khan of Finland: con tutti loro, Benassi ha mantenuto una profonda amicizia, spesso sfociata in progetti performativi e foto-musicali. Durante i concerti, si metteva tra il pubblico o sul palco e fotografava gli spettatori assorti e partecipi della performance sonora che si stava svolgendo. L’attenzione era sui volti, sulle espressioni, sulle posizioni corporee degli spettatori. Erano loro i protagonisti, non il musicista sul palco. Ne sono venute fuori una serie di fotografie, emblematiche di un’epoca recente, ma ormai passata e quasi mitologica, della storia della Spezia e che viene qui riassunta in una stampa in b/n di 40 x 50, incorniciata con legno grezzo.

Fig.2

La rappresentazione dell’omosessualità (fig. 2) è la parte più autobiografica che l’artista presenta in una carrellata di tutti i suoi amanti, rendendo esplicito il suo feticismo per i piedi e le ciabatte – fantastica la composizione a bassorilievo ligneo che non solo presenta le foto, ormai icone in certi ambienti, delle ciabatte in cuoio o in plastica, ma anche ne mostra, incorniciate, alcune paia da lui per anni indossate; e poi ci sono gli organi sessuali maschili e gli immancabili peli. La croce, simbolo religioso, ma anche iconografia gay, affiora dalle fessure nei pavimenti alla genovese del suo appartamento, così come si ritrova nella linea che divide le natiche e la parte tra queste e l’inizio delle cosce di uno dei ragazzi incontrati nel tempo.

Fig. 3

Immancabili gli autoritratti, genere artistico nel quale Benassi si è cimentato sin dall’inizio della sua attività fotografica e che qui lo ritraggono in alcuni momenti eseguiti durante delle performance, (fig. 3) cui invece si è accostato recentemente, anche attraverso l’incontro con il lavoro coreografico di Marco Mazzoni, Kinkaleri. Oppure nella serie che lo ritrae con il tutore alla gamba sinistra – conseguenza di una operazione subita dopo un incidente che gli aveva rotto due legamenti – mentre si sorregge, nudo, con le stampelle. Il ritratto è messo in contrapposizione, come in un dittico barocco, con una scultura in gesso assicurata con cavi e imbragature prima del restauro, ricollegandosi così ad una lunga tradizione storico-artistica, che mette a confronto il corpo fotografato e la scultura classica: da Wilhelm von Gloeden a Georges Platt Lynes, da George Dureau a Robert Mapplethorpe.

Divoratore di libri di fotografia, i suoi maestri sono stati Sergio Fregoso, fotografo spezzino che ha reso in modo lucido ed inedito il paesaggio e la gente che lo ha abitato, Florence Henri, conosciuta attraverso quest’ultimo, dalla quale impara la necessità di una disciplina ferrea nello sguardo e nella costruzione dell’immagine, e poi Diane Arbus, per quella sua vicinanza, attraverso l’obiettivo fotografico, alle persone. Altri si sono aggiunti a questa lista, partendo da questi momenti iniziali di un percorso artistico che ha segnato la sua vita.

Rimane un ultimo dettaglio, fondamentale all’interno dell’iconografia benassiana: la rappresentazione, non edulcorata, degli esseri umani incontrati durante le proprie esperienze di vita. Qui il pretesto arriva da un progetto pratese legato alla tradizione tessile: dopo una visita alla fabbrica Manteco e al suo Archivio e l’incontro con i proprietari Marco e Matteo Mantellassi, Benassi scatta delle fotografie che confluiscono in un libro, sincero e a tratti duro, curato da Antonio Grulli e con un testo di Maria Luisa Frisa, pubblicato da Skira e dal titolo The Belt. Non è solo la luce implacabile del flash, è soprattutto la lucidità della visione che gli permette di fare delle foto emozionanti nella fabbrica, ai lavoratori e alle lavoratrici, ai prodotti finali e alle lavorazioni della lana, alle immagini identitarie del pulpito del Duomo di Donatello e Michelozzo e alla rappresentazione della Sacra Cintola di Prato. È un occhio che vede la sofferenza come la poesia dentro ognuno di noi, il grottesco e lo splendore di un credo o di una superstizione, il glamour di un capo di alta moda e la quotidianità di un pranzo consumato direttamente dalla gamella.

Fig.4

Il flash, quella luce che toglie la luce reale, come gli diceva il suo mentore e maestro, Fregoso, ci saluta negli occhi di alcune mucche ritratte in un paesaggio francese, la campagna dove vive Augustin Laforêt, il compagno di Jacopo, restauratore e scultore, presenza necessaria e significativa, omaggiata in un ritratto nella installazione iniziale. (fig. 4)

Mentre si esce, se si gira intorno all’installazione iniziale, c’è una grande foto, un’Italia in cemento e piastrelle colorate, capovolta: non credo sia un omaggio all’Italia rovesciata, 1968, di Luciano Fabro, ma condivide con quella un certo disprezzo canzonatorio nel definire una situazione dentro la quale non ci si sente a proprio agio.

Magari non siete mai stati al Centro Pecci, magari pensate che la fotografia o l’arte non vi interessino, magari sembra assurdo in questi tempi prendere un treno o salire in macchina per andare a vedere una mostra. Ma visitare Jacopo Benassi. Vuoto potrebbe suggerire anche a voi che è ora di liberarsi di ogni fardello e incominciare tutto da capo. Consapevoli di quello che si è e si è stati, ma, soprattutto, sicuri di quello che non si vorrà mai essere.

Jacopo Benassi. Vuoto
a cura di Elena Magini
Centro per l’arte contemporanea Luigi Pecci, Prato
fino al 29 novembre 2020

In copertina: uno scatto di Jacopo Benassi

Francesca Cattoi

(La Spezia, 1968) svolge attività di ricerca nel campo dell’arte contemporanea e della creazione di progetti espositivi. Laureatasi presso il corso di laurea DAMS, Università degli Studi di Bologna, prosegue la sua formazione presso l’Università della California Santa Barbara. Collabora con Germano Celant in qualità di assistente per progetti espositivi ed editoriali dal 2003 al 2013. Dal 2013 al 2015, ha ricoperto il ruolo di consulente artistico e responsabile della programmazione del CAMeC Centro Arte Moderna e Contemporanea, La Spezia, dove ha presentato due cicli espositivi uno dedicato alla fotografia ed uno alla scultura.
Dal 2012, è Collection Registrar presso la Fondazione Prada, Milano.

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