Per Lea Vergine

21/10/2020

Forse certi eventi hanno un senso per chi ne è protagonista. Per chi rimane, invece, si crea un grande vuoto, doppio e improvviso. Se n’è andata Lea Vergine (Napoli, 1938), a distanza di un solo giorno dal suo compagno Enzo Mari, al quale l’aveva presentata Giulio Carlo Argan a metà degli anni Sessanta, a Roma, città da dove si sarebbe poi trasferita a Milano intorno al ’68. Lea Vergine era contraria a note biografiche sulle artiste, spesso rimaste nell’ombra di uomini ben più noti nel mondo dell’arte, volendo che fossero considerate in primo luogo per le loro opere. Tuttavia le circostanze dell’addio di quest’ «artista della critica» – per usare il titolo del libro curato da Maura Pozzati nel 2015 edito da Corraini, dedicato a dodici figure della critica d’arte italiana – hanno un valore così simbolico della fine di un’epoca, da osare trasgredire. In quel testo Lea era molto ben raccontata da Francesca Alfano Miglietti (FAM, la critica che più ha raccolto l’eredità della Vergine, pur svolgendola in maniera del tutto autonoma), la quale contestualizzava il pensiero di Lea nel clima storico e culturale in cui si era formata e aveva operato, fin dagli anni Sessanta e Settanta, ed espresso nella scrittura di libri, nella curatela di mostre e cataloghi, negli interventi a convegni. Un’epoca caratterizza dal concepire l’arte come il modo per riconfigurare il presente «per riconoscere e riconoscersi nella e tra la collettività», per «esorcizzare la morte di sé e del mondo» (come scriverà nel 1989 in L’immagine: arte, scienza, teoria), un «ansiolitico» quasi a scongiurare, come nota FAM, la morte dell’autore profetizzata da Roland Barthes nel 1968, una tra le principali figure di riferimento, insieme a quella di Michel Foucault, per quella generazione.

Lea Vergine con Gina Pane, PAC Milano, 1985

«Non mi sono mai sentita un critico, piuttosto una persona che scriveva di cose che non erano e potevano essere», affermava Lea, ma tale sentimento si univa al rigore mostrato nell’approccio a tematiche diverse, sempre sorretto dalla convinzione che alle base di tutto dovesse esserci la volontà di intendere il mestiere della critica come atto profondamente etico, nell’assumersi il compito di creare, non in modo casuale o improvvisato, bensì profondamente ponderato, un ponte verbale – e da qui l’importanza del linguaggio e della sua forma – tra la creazione artistica e chi la guarda. «Quando sento la parola ‘strategia’ provo schifo, ma se sento ‘metodo’ allora penso che lì si nasconda una pace, un empireo»: ed è con metodo, infatti, che Lea aveva affrontato argomenti quali la body art – Il corpo come linguaggio, 1974, lo scritto edito da Prearo che tuttora forse più la identifica, tale fu la risonanza che ebbe e che continua ad avere -, l’arte programmatica e cinetica, protagonista della mostra del 1984 a Palazzo Reale  a Milano, l’estrazione dall’oblio delle artiste delle avanguardie storiche (L’altra metà dell’avanguardia, la mostra del 1980 e il suo ricco catalogo), gli studi sul trash (la mostra al Mart di Rovereto del 2003), l’indagine sulla duplice natura umana e sull’alterità (La bella e la bestia  con Giorgio Verzotti, sempre al Mart o D’ombra al Palazzo delle Papesse a Siena nel 2006),  per non citarne che alcune.

La particolarità di Lea, incline più al «lei» che al «tu» anche con le persone più care, stava infatti nel rivendicare una scientificità e un distacco ‘emotivo’ nel trattare temi molto scottanti, disturbanti (fin dalla mostra che destò scandalo nel 1969 a Milano: Irritarte. Appunti per un’analisi delle comunicazioni irritanti), quale presupposto ineludibile per chi intende la critica come una disciplina nella quale la storia dell’arte possa svolgere ancora un ruolo importante, da un punto di vista proprio metodologico. E questo è singolare poiché, proprio in quegli stessi anni si affermava invece, da parte di chi si occupava di critica d’arte contemporanea, il disprezzo nei confronti della storia dell’arte (disprezzo spesso reciproco, da parte degli storici dell’arte verso il mondo del contemporaneo). Storia dell’arte intesa come disciplina ormai morta, alla quale invece Lea riconosceva dignità nel rigore necessario che imponeva, indipendentemente dall’oggetto della ricerca.

Lea Vergine con Giorgio Manganelli

Sono pensieri che ritroviamo proprio espressi dalla stessa Lea in tempi recenti, nel volume, pubblicato nell’estate 2020 da Postmediabooks, di Angela Maderna, L’altra metà dell’avanguardia, quarant’anni dopo, frutto di una riflessione compiuta sulla portata della mostra L’altra metà dell’avanguardia» 1910-1940. Pittrici e scultrici nei movimenti delle avanguardie storiche, curata da Lea Vergine nel 1980 a Palazzo Reale di Milano (poi anche a Roma e a Stoccolma), con l’allestimento di Achille Castiglioni e la grafica di Grazia Varisco. Una mostra dedicata a donne artiste delle avanguardie, molto celebri alla loro epoca ma presto dimenticate, suddivisa in undici sezioni dal Blaue Reiter al Surrealismo, che fu per molti aspetti epocale, concepita nel 1975, ma realizzata purtroppo solo nel 1980, sullo scorcio di un decennio in cui molte cose sarebbero cambiate. L’energia propulsiva del movimento femminista era infatti ormai esaurita, lasciando posto al teatrino di abiti firmati da esibire nella ‘Milano da bere’ e di Tangentopoli e agli auricolari delle fanciulle di «Non è la Rai», che aprivano la via a una lunga stagione di ‘veline’ molto diversa dagli scenari prospettati e sperati al tempo delle faticose conquiste degli anni Settanta. Forse è una delle ragioni per cui, pur con la risonanza che L’altra metà dell’avanguardia ebbe al tempo e pur con gli effetti ‘benefici’ di portare alla riscoperta figure come Carol Rama e di includere un maggior numero di artiste donne in mostre quali Futurismo e futurismo a Palazzo Grassi (1986), I surrealisti a Palazzo Reale a Milano (1989) o L’arte della negazione al Palazzo delle Esposizione di Roma (1994), curata da Giovanni Lista e Arturo Schwartz, estimatori della mostra dell’80, emerge la convinzione di Lea, formulata nell’ultimo anno di vita, che il lascito del suo libro non sia stato veramente raccolto, e che la narrazione riguardante le artiste non sia ancor oggi la medesima adottata per gli artisti.

Un giudizio che lascia aperta una questione molto delicata, sulla quale tuttora possiamo interrogarci quando si tratta di genere e di ‘quote rosa’. E qui mi soffermo, proprio perché tali considerazioni hanno il sapore di un bilancio, forse pessimista, forse troppo severo, ma certo foriero di spunti su cui rimeditare riguardo la pratica della critica d’arte oggi. Nel concepire la mostra del 1980, Lea vuole prendere le distanze dal taglio adottato da due mostre tenutesi in quegli anni: Women artists: 1550-1950 al Los Angeles County Museum a cura di Ann Sutherland Harris e Linda Nochlin e Künstlerinnen international 1877-1977, organizzata dal gruppo Frauen in der Kunst nel 1977 presso lo Schloss Charlottenburg di Berlino. Una distanza dettata non solo dalla scelta cronologica, ristretta da Lea a un trentennio e circoscritta a figure aderenti quasi tutte ai movimenti delle avanguardie storiche, fino a contare 114 presenze, ma soprattutto dalla volontà di non seguire criteri socio-antropologici nel riportare alla luce quelle figure, ma dando quei criteri per scontati, visto l’assunto della mostra, dedicata solo alla produzione al femminile: «Non ho fatto un censimento, ma ho guardato alla qualità delle opere», spiegherà, ribadendo che l’arte è in sé «androgina». Certo Lea Vergine riconosce, e qui il suo unico vero punto di contatto con Linda Nochlin, che, pur non esistendo un’arte al femminile, vi sia un ‘atteggiamento’ femminile, condizionato da quella che lei definisce «oblatività», ovvero, in psicoanalisi, la disposizione d’animo (e relativo comportamento) improntata a generosità assoluta, senza contropartite o precisione di compensi materiali o morali, che caratterizza l’universo femminile e che spesso ne ha limitato e circoscritto la libera espressione in campo artistico.  Tuttavia, nel progetto espositivo di Lea e nel catalogo, l’unica vera rivendicazione, consiste nel far convergere l’attenzione sulle opere delle artiste esposte, svincolandosi dalle loro vicende biografiche, pur importanti e spesso lesive dello sviluppo della loro personalità. Un rigore metodologico che le costerà – accanto ai molti apprezzamenti – anche critiche accese da parte delle femministe: quel che buona parte della critica militante rimproverava alla mostra di Lea era appunto l’aver ignorato il racconto delle vite di quelle artiste, lasciando quindi il pubblico considerare le loro opere libero da condizionamenti antropologici o sociologici, libero di amarle o detestarle per il valore di quanto avevano creato e non in base a rivendicazioni di genere. Tra tutte le voci ricorderemo solo quelle di Carla Lonzi, che d’altronde aveva abbandonato la critica d’arte per la militanza politica, di Laura Viotti su «Lotta Continua» (che l’accusava di non citare mai le maternità, il numero di figli) e, benché meno veemente ma comunque dubbiosa, quella di Anne Marie Souzeau Boetti, che rimproverava a Lea il non aver dato spazio a quella «devianza» delle donne rispetto al loro ‘normale’ destino che «invade lo spazio espressivo». Pur partendo da altri presupposti, anche Giovanni Testori sul «Corriere della sera» criticava il non aver messo in questione i termini stessi (maschili) dell’inquadramento storico delle avanguardie novecentesche. Rossana Bossaglia si interrogava invece sull’ambiguità della questione posta da Lea: «è interessante scoprire che le donne hanno partecipato con pari energia e dignità a gruppi e fenomeni riconosciuti, o testimoniare che hanno prodotto in un’altra  e magari segreta direzione?». Il panorama di queste diatribe rivela, ancor più dei molti elogi, la vivezza del dibattito che la mostra aveva sollevato e ancor oggi fecondo, cui Lea stessa rispondeva definendosi «non rivoltosa, ma rivoluzionaria».

Con Gillo Dorfles

D’altronde ci piace qui ricordare anche la bellezza e la grande eleganza con le quali Lea Vergine ha accompagnato la vivacità del suo spirito fino all’ultimo, e la coquetterie, culminante nei suoi magnifici cappelli, a sottolineare la complessità e il temperamento della profetessa della body art, che praticava la critica come specchio per esaltare «le gioie insolenti dell’intelligenza».

Laura Lombardi

Insegna Fenomenologia delle Arti Contemporanee all'Accademia di Belle Arti di Brera. Si è occupata di argomenti di arte e di critica d’arte dal XIX secolo ad oggi (con particolare attenzione all’arte dell’età unitaria, al simbolismo tra Francia e Italia, all’Orientalismo e ai rapporti tra parola e immagine), pubblicando saggi e monografie e collaborando a diverse mostre. Membro della SISCA (Società Italiana di Storia della Critica d’Arte), scrive da molti anni per il mensile “Il Giornale dell’arte” (Allemandi). Tra le sue ultime pubblicazioni “Un sogno fatto a Milano, Dialoghi con Orhan Pamuk intorno alla poetica del museo”, Johan&Levi, Milano 2018; “The gentle art of fake. Arti, teorie e dibattiti sul falso”, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2019.

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