Mario Benedetti, quello che si sporge

È uscito il numero 5, settembre-dicembre 2020, della storica rivista «Nuovi argomenti» (pp. 143, € 16), che include fra l’altro una sezione in ricordo di Alberto Arbasino (con saggi di Emanuele Trevi, Michele Masneri e Flavia Piccinni), un’intervista di Raffaello Palumbo Mosca a Javier Cercas, e una sezione in ricordo di Mario Benedetti, ucciso dal COVID lo scorso 27 marzo. Fra i testi qui raccolti (interventi critici di Maria Borio e Guido Mazzoni, un’intervista al poeta di Maurizio Chiaruttini e una recensione radiofonica di Andrea Zanzotto, del 1990, alla sua plaquette Il cielo per sempre: materiali, questi ultimi, conservati e restaurati da Donata Feroldi) propongo qui il mio intervento.

A.C.


Si diventa altri occhi per morire dovunque, dovunque
Tersa morte

L’uomo si sporge. Costretto su una sedia a rotelle, dopo il primo sguardo dietro l’angolo non può – come faremmo noi, più o meno normodotati – fare dietrofront e sloggiare subito, dalla mente, la vista che lo ha turbato. Resta sul colpo, come si dice. E continua a guardare. Ingrandisco la fotografia, mi accanisco sui dettagli (la mano sinistra, essiccata come il collo tutto tendini, pare volersi aggrappare, incongruamente, a quel corpo dove risiede la malattia), mi concentro sul volto. È tutto in quelle tre aperture, in quegli squarci: la bocca semiaperta, a cercare aria; gli occhi spalancati, tutti pupille dietro gli occhiali offuscati. Come in Francis Bacon o Bill Viola, non si vede l’oggetto del suo turbamento. Neppure se potessi ingrandire ancora di più l’immagine potrei scrutarne il riflesso nei suoi occhi. Quello che posso vedere è «il grido, non l’orrore». Ma non è orrore, quello provato dall’uomo: che infatti non grida.

C’è tutto Mario Benedetti, in questa fotografia. Che è stata scattata, alla mostra degli Ambienti di Lucio Fontana all’Hangar Bicocca (spazio immenso, tanto agorafobico che claustrofobico, si capisce quanto potesse indurre smarrimento; in ogni caso la mostra – testimonia Donata Feroldi – a Benedetti non piacque), nel settembre del 2017: la stessa data del «finito di stampare» sul collected poems pubblicato da Garzanti. Due consuntivi anticipati, l’immagine che ho appena descritto e il libro che reca l’impegnativa insegna di Tutte le poesie: intempestività emblematica, per l’autore che confessò una volta (a Claudia Crocco) di sentirsi vivere in proroga – non solo, certo, per la morte del suo più celebre omonimo uruguagio (la cui effigie, per ironia della sorte e a specchio dei tempi, verrà pubblicata da «la Repubblica» nel dare notizia della sua morte). Era da un pezzo che Benedetti, o il «sosia» di Tersa morte, «pensa al protrarsi della vita che gli sopravvive» (243).

Titolo prematuro, Tutte le poesie, nonché inesatto: dal momento che vi mancavano le poesie (e le prose) da Benedetti pubblicate in gioventù e solo in parte confluite, nel 2004, nell’esordio tardivo nell’editoria maggiore, Umana gloria (in plaquettes come Il cielo per sempre, commentata da un lettore d’eccezione come Andrea Zanzotto ma anche dallo stesso autore: nei due materiali radiofonici del ’90 qui recuperati); ma mancava anche un libro della maturità come Materiali di un’identità, pubblicato nel 2010 nella collana «Nuova poetica» dell’editore Transeuropa: «un libro eterogeneo, non facile da classificare come poesia» – nel quale infatti i versi, a loro volta solo in parte poi ripresi in Tersa morte, si alternano a prose saggistiche, pagine di diario, addirittura un’intervista –, ha scritto l’intervistatrice di allora Claudia Crocco: che a ragionelo definisce «una delle opere di poesia più sperimentali degli ultimi anni». Dato che è il pensiero di Georges Bataille uno dei «materiali» che emerge con maggiore evidenza, da questa auto-esumazione prosimetrica, si può ben definire Materiali di un’identità la «parte maledetta» di un’opera la cui vulgata critica, a partire dalla pubblicazione di Umana gloria, ha pregiato di contro un preteso collegamento diretto e «autentico» all’«esperienza» – questo feticcio di ogni tautologia, in poesia – indicando nella sua opera «uno spazio etico di conoscenza e di insegnamento». E di conseguenza ritagliandola (anche editorialmente) in una chiave “puristica” che emargina se non addirittura censura – come nel caso di Materiali di un’identità – le punte più vulneranti che ne fanno una delle scritture più radicalmente “negative” del suo tempo.

A contraddire tale vulgata non sono però solo – come fanno con maggiore evidenza – i libri “estremi” di Benedetti, i Materiali e le Pitture nere su carta: quei «buchi neri della lingua», per dirla con Stefano Dal Bianco, i quali gli hanno fatto addirittura ipotizzare che si tratti del «portato di qualche disordine neurologico». (Una parentesi doverosa: è ingeneroso, oltre che incauto, incolpare degli “eccessi” di un autore – come fece Gianfranco Contini, quandoque bonus…, per Dino Campana – quel «poco di fisiologia» desumibile dalla sua cartella clinica; laddove è vero il contrario: nel caso di Mario Benedetti come in quello – per il resto dal suo distantissimo – di Amelia Rosselli, quello della poesia è uno spazio di salute, relativa e precaria, che il male interviene ad annichilire e silenziare; la scrittura è precisamente lo strumento umano col quale al male si tenta di resistere: che il male combatte e, per lo spazio magari minimo in cui prende forma, silenzia.)

Il presupposto della poesia di Benedetti, infatti, sin dal principio non è elegiaco, come da vulgata, bensì tragico: lo si vede dal suo sostrato filosofico, dal suo Bataille e dal Carlo Michelstaedter cui aveva dedicato la tesi di laurea (come prima di lui – unico fra i poeti italiani, a quanto mi consti – Alfredo Giuliani); lo documenteranno forse – se verranno ordinati e resi pubblici – i suoi giovanili tentativi di traduzione dal greco. Ma lo dice lui stesso, nella conversazione con Maurizio Chiaruttini qui riportata: il «rifiuto dello sperimentalismo» e «il tentativo di superare quindi anche il nichilismo» sono la petizione di principio che accomuna la sua poetica a quella dei compagni di «Scarto minimo»; ma Benedetti non si nascondeva, già allora, le «contraddizioni insite» in questa impostazione, che non poteva emendare la costitutiva insufficienza della lingua a dire il mondo, il manque à être che è la sua condanna e insieme la sua ragion d’essere (la sua umana gloria).

Le «poesie» sono «poche» – come in un maestro decisivo di Benedetti, Milo De Angelis – non in senso quantitativo, bensì qualitativo: «le parole che uso quindi sono poche, e sono inadeguate […] a potere nominare veramente le cose». Questo il doppio legame, letteralmente e costitutivamente tragico, di ogni poesia degna di questo nome, ma che Benedetti avverte subito con intensità squassante: la necessità di dire «di un evento, di qualche cosa di importante» (come il terremoto del ’76, il buco nero dal quale tutta la sua opera proviene, e che gli fa riconoscere un mentore in un poeta da lui così diverso come l’autore di Filò) e insieme «la consapevolezza […] di non poterla dire pienamente».

Se si leggono a specchio questa intervista e il coevo intervento di Zanzotto, appunto, sulla stessa raccolta Il cielo per sempre, ci si rende conto dell’ambivalenza di un emblema connotato come il cielo (e si ricorderà come la parola «Niebo» – che dava il nome alla rivista di De Angelis da Benedetti citata quale “sorella maggiore” di «Scarto minimo» – voglia dire, in polacco, proprio “cielo”…): se con un’ulteriore petizione di principio Benedetti lo designa «luogo ideale dove potere conciliare» la «contraddizione» di cui sopra, Zanzotto legge a contraggenio il titolo, invece, come «sotterranea e candida bestemmia»: «il cielo “per sempre” non è un augurio ma è una condanna», «un esilio, qualche cosa di lontano, qualche cosa di povero e di morto»; mentre «il poeta sembra invece sognare la terra, con tutte le sue attrattive» (anche se aggiunge subito – e come poteva non farlo, chi storicamente aveva messo in luce il tema, anzi l’ossessione della poesia moderna per la «terra desolata in profondità» – «la terra in realtà, anziché essere attraente, è ormai gelatinosa, infausta e piena di ex giochi della speranza che si sono trasformati in giochi della disperazione»).

La trascendenza interdetta di questo cielo («questo spazio che cerco di creare, questo spazio trascendente […] mi si spezza, tende a spezzarsi e quindi a dissolversi»), anziché dare adito a una fantasia narcisistica di elazione, sublimazione e invulnerabilità eternizzante, carcera il soggetto in una condizione di fragilità, gettatezza e derelizione che può ricordare, figurativamente, il solo Pagliarani della Ragazza Carla («questo cielo d’acciaio / che non finge / Eden e non concede smarrimenti, / è nostro ed è morale il cielo / che non promette scampo dalla terra, / proprio perché sulla terra non c’è / scampo da noi nella vita»). Entrambi si ricordano, con ogni probabilità, del cielo coperchio dello Spleen di Baudelaire; ma mentre Pagliarani ne trae una lezione di stoicismo anarchico e ribelle (nonché, lui sì, uno spazio etico di conoscenza e di insegnamento), Benedetti si vede consegnato a una dannazione una volta di più ambivalente: perché i «colpi della vita» del Vallejo posto in esergo a Tersa morte (239) sono stati inferti, dalla sorte, proprio a lui e alla cerchia ristretta dei suoi affetti più intimi; eppure «tutte queste cose quotidiane vorrebbero assurgere a una dignità più universale, […] un punto di vista non limitato alla cosa quotidiana – quindi in qualche maniera, neocrepuscolare». È per questo che la sua poesia esula dalla dimensione neocrepuscolare del soggettivismo di ritorno oggi endemico, per assurgere a quella tragica, cioè idealmente universale, che «ci rappresenta»: come dice Dal Bianco, «il testo è legato alla persona che l’ha scritto non in quanto individuo “storico”, ma proprio in quanto essere umano a-storico, antropologico».

Questo l’etimo spirituale dell’idiozia di Benedetti: come nell’epigrafe sgrammaticata trascritta da Zanzotto in Vocativo – «ed io come un fiore appasito guardo tutte queste meraviglie» –, per cui l’io è “ridotto” (in senso diverso, certo, dalla «riduzione dell’io» prescritta da Giuliani agli sperimentali Sessanta) nella prigione percettiva e cognitiva dell’isolamento “idiota” (termine di cui proprio Zanzotto ricordava l’etimo comune a quello di «idioma»). Per questo non può accedere, Benedetti, alla fiducia malgrado-tutto nella comunicazione, né tanto meno alla pretesa di recare un insegnamento, di uno come Pagliarani: consapevole dell’insufficienza della soggettività neocrepuscolare, e insieme dell’impossibilità di davvero evadere dalla limitatezza dell’io, dal suo solipsismo disforico. Il muro della psiche che verrà infranto solo nel 2014, consegnando Benedetti allo sguardo da un altro mondo (quello che ci guarda – anzi, appunto non ci guarda – in un’altra fotografia, scattata da Viviana Nicodemo alla casa di cura di Piadena lo scorso gennaio), è per lui insieme una prigione e una trincea; e coincide, ripeto, con la resistenza della sua scrittura.

Una resistenza (Tommaso Di Dio l’ha definita «resilienza materiale») che trova spalti di strenua solidificazione nella citazione assidua di materiali culturali: letterari e soprattutto artistici. Non è un caso che proprio questo punto sollevi i maggiori distinguo di Dal Bianco: che in un testo credo inedito del ’96 (assai dopo la fine del percorso comune in «Scarto minimo», dunque, ma anche assai prima che i due autori trovassero finalmente la strada dell’editoria maggiore: lui nel 2001 con Ritorno a Planaval, e Benedetti come detto tre anni dopo con Umana gloria) se la prendeva con le «esibizioni di elementi di cultura scritta», confessando di «non riuscire a non vederci un che di falso». La divaricazione dei due versanti di «Scarto minimo», qui salutarmente esplicita, è invece negletta da chi consideri come un’unità le opere da quell’esperienza provenienti: ed è forse proprio questo l’equivoco critico maggiore, su Benedetti.

Anche in questo caso l’oltranza di Pitture nere su carta, che sin dal titolo dichiara la propria matrice culturale nelle atroci figurazioni “private” del Goya della Quinta del Sordo, non è altro che l’estremizzazione parossistica di un modo di scrivere, e prima ancora direi di vivere, che di Benedetti è peculiare. Altri hanno sottolineato la frequenza dei riferimenti, in specie visivi, che costellano già Umana gloria; qui mi preme (cercare di) spiegare la specificità di questo modo di citare. Niente di più distante, da Benedetti, della maniera modernista – la saturazione dello spazio psichico, prima che metrico, codificata da Pound ed Eliot – fatta propria per esempio da Sanguineti (o, in prosa, da Arbasino); in particolare non mi pare che le sue citazioni rientrino propriamente nella tradizione prestigiosa (e compiaciuta) dell’ekphrasis: vi manca del tutto l’ebbrezza (narcisistica) dell’emulazione e della competizione, la retorica del Cimento che si fa vanto, in particolare, della capacità di ricreare virtualmente l’insieme dell’immagine cui si riferisce. Viceversa Benedetti convoca sulla pagina frammenti che, come dice Di Dio, vi stazionano come «ex-voto», reliquie corporali: istituendo un’equivalenza psichica spettrale fra (parti dell’)oggetto e (parti del) soggetto (il Dal Bianco ’96 deprecava la sua «convinzione che non ci sia differenza fra libri e persone fisiche»). Introducendo con un bellissimo testo a Materiali di un’identità,Antonella Anedda evocava i brandelli di corpo di Carpaccio a San Giorgio agli Schiavoni: e davvero la frammentazione si presenta qui lancinante nonché, nell’allegoria del corpo malato, non meno che crudele. Ma lo stesso Benedetti, commentando le Pitture nere all’Accademia di Brera nel 2010, istituiva un’equazione eloquente: è come se «tutti i riferimenti […] a opere di pittori o di fotografi costituissero il mio modo di sentire, di vivere la realtà stessa; è come se non mi bastasse, non fosse sufficiente partire dall’oggetto, dall’ambiente di vita […] ma fosse importante considerare l’oggetto sotto l’aspetto artistico, questo livello che acquista la realtà e che per me è importante; per cui un quadro ha una sua realtà vera: è come se il quadro portasse la realtà a un compimento maggiore».

C’è sempre un’insufficienza, in senso propriamente ontologico, che il poeta denuncia nella realtà; ed è cercando di contrastarla – con la reattiva ringhiosità di cui parlava Zanzotto – che convoca sulla pagina oggetti, letterari o artistici, che per lui sono presenze materiali solide, o quanto meno più solide degli spettri mentali che dell’esistenza ci figuriamo. Essi infatti hanno una realtà vera anche per altri, oltre che per il soggetto “idiota” (cioè solipsista). E rappresentano una difesa, ben comprensibile, sul piano psicologico. Un componimento di Umana gloria, Rientri di fine agosto in città (126), si conclude, una volta di più, con una citazione: «Nessuno, mamma, ha mai sofferto tanto…». Si tratta del primo verso della sequenza Giorno per giorno,dedicata da Giuseppe Ungaretti, nel Dolore, alla morte traumatica, alla fine del 1939, di suo figlio Antonietto: che i vecchi lettori idealisti di poesia tanto pregiavano quale esempio di sincero strazio, in un poeta altrove troppo allusivo e formalizzato, troppo “letterario”. Poesia dell’esperienza, cioè. Finché non si è scoperto come quello non fosse che un centone di citazioni, appunto, e non dai grandi maestri della tradizione bensì dagli oscuri fratelli Thuile mentori del giovane Ungà ad Alessandria d’Egitto. Un plagio, insomma. E, benché Benedetti questo verosimilmente non potesse saperlo, pare intuirlo: quando tre versi prima scrive «Una letteratura che ci prende su».

La poesia per Benedetti non è la spada di folgore che splende nelle tenebre, non è smalto e cammeo, neppure il fregio che nasconde lo sfregio. Piuttosto è il codino di Münchhausen col quale prendersi su dalla palude. È il resto umano, il frammento di realtà vera al quale aggrapparsi: nel mare in cui, senz’ombra di dolcezza o di allegria, si sta facendo naufragio.

Mario Benedetti, gennaio 2020, fotografia di Viviana Nicodemo

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Le citazioni dai testi di Mario Benedetti, salvo ove diversamente indicato, sono date nel testo con la pagina di Tutte le poesie, a cura di Stefano Dal Bianco, Antonio Riccardi e Gian Mario Villalta, Milano, Garzanti, 2017.

La prima fotografia descritta è stata scattata il 29 settembre 2017 da Alessandro Serra alla mostra Lucio Fontana. Ambienti, curata da Marina Pugliese, Barbara Ferriani e Vicente Todolì all’Hangar Bicocca di Milano; me l’ha mostrata Donata Feroldi. La seconda è stata scattata il 5 gennaio 2020 da Viviana Nicodemo a Piadena, alla casa di cura dove Benedetti ha concluso i suoi giorni lo scorso 27 marzo, ed è stata pubblicata da Milo De Angelis nel suo ricordo, pubblicato il giorno dopo nel blog di Luigia Sorrentino (http://poesia.blog.rainews.it/2020/03/mario-benedetti-il-poeta-dellinverno/), primo di una lunga serie: «abbiamo trovato un Mario tranquillo e a volte persino sorridente, attirato in modo irresistibile dai gianduiotti che gli avevamo saggiamente portato, ricordando le ultime visite e la sua passione per il cioccolato. Abbiamo parlato a lungo con Donata dell’umore di Mario, notevolmente migliorato rispetto alla costrizione carceraria del precedente ospedale milanese. E abbiamo parlato anche della sua poesia laconica, della sua parola carica di mutismo, costretta a compiere uno sforzo supremo per trovare la voce».

Le battute di Benedetti sulla morte del suo omonimo sono riferite da Claudia Crocco in Mario Benedetti (poeta italiano), ivi, 3 aprile 2020: il titolo riprende quello della voce di «disambiguazione» su Wikipedia). Le considerazioni della stessa Crocco su Materiali di un’identità sono in «Le parole e le cose», 9 novembre 2017 ; nel testo è ripresa la conversazione (Maggio 2009) contenuta nel libro del 2010, alle pp. 55-61, e se ne aggiunge una ulteriore, datata «Agosto 2012»). Le particole di vulgata, riguardo a Benedetti, sono campionate dall’Introduzione di Antonio Riccardi a Tutte le poesie, cit., p. 6. Le considerazioni “neurologiche” di Stefano Dal Bianco sono nel saggio, per il resto eccellente sotto ogni punto di vista, L’idiota che ci rappresenta (ivi, p. 16; più avanti cito da p. 12). Il saggio di Contini su, o contro, Campana è Due poeti degli anni vociani. II. Dino Campana [1937], in Id., Esercizî di lettura sopra autori contemporanei con un’appendice su testi non contemporanei [1939], Torino, Einaudi, 1974, citato alle pp. 20-1; per una discussione in questa chiave del “caso” Rosselli rinvio ai miei Touch. Io è un corpo [2005], e Amelia Rosselli, una vicinanza al Tremendo [1997-2003] in La fisica del senso. Saggi e interventi su poeti italiani dal 1940 a oggi, Roma, Fazi, 2006, pp. 64-6 e 85-6, e 330-9. Di Milo De Angelis cito Non è più dato, da Tema dell’addio (2005; ora in Id., Poesie, introduzione di Eraldo Affinati, Milano, «Oscar» Mondadori, 2008, p. 242; rinvio anche in questo caso al mio Milo De Angelis, Orfeo lombardo [2005], ivi, pp. 391-2). Di «terra […] “desolata” non in superficie, ma in profondità» parla Zanzotto a proposito di Montale nel suo decisivo L’inno nel fango [1953], in Id., Scritti sulla letteratura. I. Fantasie di avvicinamento [1991], a cura di Gian Mario Villata, Milano, Mondadori, 2001, p. 18. I versi dalla Ragazza Carla [1960] sono in Elio Pagliarani, Tutte le poesie (1946-2011), Milano, il Saggiatore, 2019, p. 128. «Scritto su un muro di campagna» è l’inserto posto in esergo da Zanzotto alla poesia Colloquio, in Vocativo [1957]: Le Poesie e Prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, saggi introduttivi di Stefano Agosti e Fernando Bandini, Milano, «I Meridiani» Mondadori, 1999, p. 155; l’etimologia di idioma e idiozia è nelle sue Note a Idioma [1986], ivi, p. 811. Di «riduzione dell’io» parlava Alfredo Giuliani nell’Introduzione a «I Novissimi» [1961], in Id., Immagini e maniere [1965], Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1996, pp. 131 sgg.

Di Tommaso Di Dio (autore di altri interventi assai centrati, sul suo maestro) cito Dal mito al museo. Struttura e significato in Pitture nere su carta di Mario Benedetti, in «L’Ulisse», 15, gennaio 2012 (che si riferisce a Georges Didi-Huberman, Ex voto [2006], traduzione di Rosella Prezzo, Milano, Cortina, 2007), poi in «Punto critico», 24 gennaio 2013 . Il testo del ’96 di Dal Bianco su, o contro, Benedetti è stato letto dall’autore in un incontro coordinato da Maria Borio il 10 maggio 2018. Sulle citazioni visive rinvio al saggio citato di Di Dio; a Italo Testa, Visività. Per Mario Benedetti, in «Punto critico», 24 ottobre 2011: è l’introduzione al reading all’Accademia di Brera, il 10 marzo 2010, dal quale sono tratte anche le citazioni dall’auto-commento di Benedetti; ad Antonella Anedda, Mappe, perturbazioni. Le stringhe temporali di Mario Benedetti, introduzione a Materiali di un’identità, Massa, Transeuropa, 2010, p. 6.

Il verso di Ungaretti, dalla raccolta Il Dolore del 1947, è in Id., Vita d’un uomo. Tutte le poesie, a cura di Carlo Ossola, Milano, «I Meridiani» Mondadori, 2009, p. 245. Di François Livi è citato Ungaretti: autobiografia e memoria letteraria. «Giorno per giorno» e «Lampe de terre» di Henri Thuile, in «Lettere Italiane», LIII, 3, luglio-settembre 2001, pp. 354-76.

In copertina: Mario Benedetti visita la mostra di Fontana all’Hangar Bicocca, 29 settembre 2017, ph. Alessandro Serra

(Roma, 1968) critico e saggista. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre; nel 2018 ha tenuto la «cattedra De Sanctis» al Politecnico di Zurigo. Ha pubblicato saggi, curato testi e realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive, spettacoli teatrali e musicali. È nella redazione del «verri» e collabora ad «Alias», «Il Sole 24 ore», «Tuttolibri», «doppiozero», «Le parole e le cose2» e altre testate.

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