Per una politica della performance

19/10/2020

Sembra leggermente inflazionata la parola “performance”. Diciamo che, come altre espressioni che sanno cogliere lo spirito del tempo (oggi si va da distopico a gratitudine), anche il concetto e la pratica di “performance” abbracciano uno spettro semantico piuttosto ampio e spesso altrettanto confuso. Tutto, insomma, sembra essere “performance”, performativo. Anche, naturalmente, nel piccolo mondo antico del teatro dove, da metà degli anni Cinquanta il termine anglosassone è diventato di uso comune. Per riassumere grossolanamente, vale la pena ricordare che dobbiamo al mitico trio Cage, Cunningham, Rauschenberg l’avvento del performativo, sviluppato poi, in termini teatrali da molti maestri (ovviamente a partire da Richard Schechner, con il suo Performance Group, dal 1967 ancora oggi).

Di fatto però la performance delle performance, se mi si concede un bisticcio linguistico, è iniziata molto prima delle performance stesse. Molto prima che Marina Abramovic facesse la muraglia cinese a piedi o si mettesse nuda come stipite in una porta con Ulay, prima che Orlan iniziasse a mutarsi in cyborg e molto prima ancora che le Femen intervenissero a seno nudo in piazza per rivendicare giuste libertà, certe eleganti signore edwardiane creavano una innovativa performance in cui il personale diventava dichiaratamente politico, il politico performativo e il performativo pubblico. Erano le Suffragette, quel meraviglioso movimento femminile e femminista che mise il corpo-scandalo al centro della vita politica inglese a cavallo tra ottocento e novecento, come nella famosa la notissima “Mud March” (Marcia del Fango) del 9 febbraio 1907 in cui 3000 donne camminarono da Hyde Park Corner fino all’assemblea di Exeter Hall sotto una pioggia torrenziale. E probabilmente – come sostiene la studiosa Leslie Hill – le suffragettes hanno inventato anche la performance art. Il legame tra performance e politica, dunque, è di vecchia data: ma ben ha fatto lo studioso e storico del teatro Marco De Marinis a dare alle stampe un prezioso volumetto in cui fa il punto (fortunatamente non definitivo, perché gioca in apertura, slancio, interrogazione sistematica) sulla dinamica relazione tra questi due mondi strettamente legati.

 Il libro, pubblicato da Editoria&Spettacolo, si intitola programmaticamente “Per una politica della performance”, ed è una intensa disamina in due capitoli (derivati da conferenze o interventi dello studioso), con epilogo e postilla, in cui De Marinis pone al centro della analisi una domanda strettamente politica: è possibile pensare una comunità nuova? Si può pensare, insomma, una comunità a venire?

Ovviamente il teatro – chi lo pratica, chi lo frequenta lo sa bene – è sistematico incontro con l’Altro, è “assembramento” (per usare una parola oggi tabù), è gesto connotante la pratica democratica. Teatro e città sono nati assieme. Allora, in questa prospettiva, Marco De Marinis muove proprio dal concetto stesso di “Città”, mostrando però come le “cittadine provinciali”, i luoghi marginali, spesso sconosciuti, siano stati e siano tuttora centri teatrali importanti.

De Marinis fa un elenco, forzatamente sommario: Ivrea, Marigliano, Santarcangelo, Volterra, Narni, Chieri, e poi Holstenbro, Saint-Denis, Opole, Brezinka… Sono le piccole cittadine, a volte poco più che villaggi, che hanno accolto i “rivoluzionari della scena”: quegli artisti che hanno scelto di abbandonare «il paesaggio metropolitano» per disegnare altri «paesaggi teatrali».

Dunque, se la Rivoluzione, come moto politico violento, è storicamente “cittadina” – da Parigi a San Pietroburgo, da L’Avana a Berlino, il teatro rivoluzionario altrettanto spesso non lo è. Spiega bene De Marinis: «All’immagine archetipica di un teatro istallato nel centro stesso della città, fino a costituirne il cuore pulsante e anche il simbolo (penso ovviamente al teatro di Dioniso, che prima di essere adagiato sulla collina dell’Acropoli pare fosse stato eretto addirittura nell’Agorà), andrebbe aggiunta un’altra immagine altrettanto archetipica (…) quella del carro di Tespi che porta il teatro nei villaggi più sperduti dell’Attica, ben prima dell’età periclea». È il nomadismo del teatro – natura fondante anche delle compagnie italiane – che fa dell’attore il portatore di una «diversità e alterità» che lo rendono perennemente marginale. Ecco allora emergere quella che Marco De Marinis chiama «l’altra storia del teatro». Una storia fatta appunto di girovaghi, di menti itineranti, oppure di “Laboratori” – altra parola-mondo – che sono luoghi appartati dentro la città, spazi che, quasi «voltano le spalle allo spettacolo e dunque al pubblico e alla città». Qui si sono elaborate i grandi cambiamenti della scena.

Il passo successivo allora, obbliga l’Autore a investigare coerentemente la “relazione pericolosa” tra teatro e rivoluzione.

E se, in questa prospettiva, il primo riferimento è Richard Wagner, rivoluzionario di fatto (nell’insurrezione di Dresda) e nello spirito, si tratta di affrontare quel secolo e mezzo di storia in cui si rivendica «l’autonomia della creazione teatrale e quindi di una identificazione del teatro rivoluzionario, ovvero della rivoluzione teatrale, con un teatro rivoluzionato, nel senso di ripensato interamente anche e soprattutto a partire dal recupero della sua essenza o identità originaria, mitica, in qualche modo legata alla grecità». Sono indicativi i tre esempi chiamati in causa da De Marinis: Georg Fuchs, con il saggio “La rivoluzione teatrale” del 1907; Antonin Artaud, ovviamente, con la sua vita e la sua opera; e infine Julian Beck, fondatore con Judith Malina del Living theatre, che in pieno 68 scrive il saggio Teatro e Rivoluzione. Esempi fulgidi, momenti cardine, su cui riflettere, cui lo studioso aggiunge – scandagliando stavolta la dialettica tra rivoluzione e rivolta – il mitologo italiano Furio Jesi, e arrivare, con lui, a una provvisoria ma indicativa conclusione: «il teatro, nell’accezione più ampia – scrive De Marinis – può fornire all’effervescenza rivoluzionaria tecniche, idee, creatività, materiali, ma non può che finire schiacciato alla lunga dalla istituzionalizzazione del processo, dal suo trasformarsi in sistema, regime (…) Pertanto, il teatro della rivoluzione non potrà diventare, prima o poi, l’opposto di un teatro rivoluzionario, o meglio ancora, rivoluzionato. Ciò vuol dire che, inesorabilmente, il teatro della rivoluzione finisce per entrare in rotta di collisione con la rivoluzione del teatro, e per combatterla senza quartiere». Basti pensare a Mejerchol’d, a Tret’jakov, a Majakovskij, a Asja Lacis…

Nella sua accurata e coltissima analisi, Marco De Marinis si sofferma poi sul decennio 1964-1978, ovvero quell’arco di tempo, scelto simbolicamente, che va dall’allestimento scenico del Marat/Sade fatto da Peter Brook al sanguinoso rapimento Moro: anni (“un po’ prima del piombo”, avrebbe detto Garboli) in cui si è tentato, teatralmente, di sovvertire canoni e modi, di reinventare la relazione spettacolo-pubblico, di dilatare il «fatto teatrale fuori e oltre i suoi tradizionali confini, materiali e istituzionali». Epoca in cui, sostanzialmente, si è capito che la Rivoluzione non sarebbe arrivata, e sarebbe stato meglio – come avvenuto – rivoluzionare il teatro.

L’epilogo, lucidissimo, mette in esergo frasi di Judith Butler e Carola Rackete: è la realtà, è il nostro tempo che prende il sopravvento sullo sguardo storico. È la “Performance della politica”, annunciata acutamente e gloriosamente dalla “Società dello spettacolo” di Guy Debord e poi sistematicamente applicata ovunque. È, dice De Marinis, «l’arte di mettere in scena, drammatizzare i problemi, spesso inventando ex novo emergenze che non sono realmente tali, al solo scopo di accrescere il consenso a breve o brevissimo termine». Contro questa smaccata “rappresentazione”, il Teatro potrebbe ritrovare un proprio ruolo fondante, in un lavoro di «resistenza culturale permanente», giocato su sistematiche opposizioni. Si tratta di contrapporre, spiega lo studioso, la relazione alla separazione; la partecipazione alla passività; la comunità all’individuo o all’isolamento; l’azione alla rappresentazione; il corpo all’immagine. A tale scopo, afferma De Marinis, «non si può non ripartire dalla lezione del teatro politico del secolo scorso». Ci riusciremo? Ce la faranno la società civile, il mondo del teatro, i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo a imporsi come alfieri di una società a venire? Saranno ancora “performer” militanti, come furono le suffragette a inizio secolo?

Mi fermo qui nell’analisi, anche se il ragionamento di Marco De Marinis prosegue arioso nelle pagine del volume. Vale la pena, allora, provare a leggere e interrogarsi. Nella consapevolezza, disarmante, che quel “teatro politico” è piuttosto assente dalle nostre scene, banalizzate dalle pratiche del “bando” che incidono non poco sulle scelte artistiche; mortificate da economie davvero scarse; ridondanti di retoriche inutili e proposte evanescenti. Eppure, quella forza (ancorché fallimentare), del teatro politico novecentesco sembra un obiettivo necessario per dare vita alla comunità a venire, per restituire alla “performance” il senso profondo di gesto politico. Guardare indietro, insomma, per volare avanti.

Marco De Marinis
Per una politica della performance
Editoria&Spettacolo, 2020
12euro

In copertina: Living Theatre, Paradise Now, Napoli, Teatro Mediterraneo, 1969. ph. Fabio Donato©

Andrea Porcheddu

Critico teatrale e studioso, va a teatro dal 1988, più o meno ogni sera. Ha raccontato quel che pensava su diverse testate nazionali, online, cartacee, radio e tv. Collabora con glistatigenerali.com, con L’Espresso, Radio3Rai, Che-fare.com, Lettre International e ha collaborato con altre testate nazionali e internazionali. Nel suo percorso ha incontrato Emma Dante, Ascanio Celestini, Virgilio Sieni, Ricci/Forte e molti altri artisti cui ha dedicato libri e saggi. Nel frattempo tiene corsi all’Università (all’Università di Roma “La Sapienza”) e laboratori di critica, come alla Biennale Teatro di Venezia dal 2010 al 2016. Si è dedicato alle teorie critiche applicate alla scena italiana con il libro “Questo fantasma, il critico a teatro” (Titivillus editore) e cura la collana “Guide Teatrali” di Cue Press, con cui ha pubblicato il libro “Che c’è da guardare? La critica di fronte al teatro sociale d’arte” (2017) e il più recente “Altri corpi/nuove danze” (2019). Con Luca Sossella Editore ha dato alle stampe “Il respiro di Dioniso, il teatro di Theodoros Terzopoulos” (2020). Ha diretto festival, ha fatto parte di giurie internazionali (Sarajevo, Teheran) e nazionali, e nel 2012 ha lavorato come direttore artistico del Bahrain National Theatre.

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