Come in tutte le isole, a Ventotene il distanziamento è dimensione di vita, pratica acquisita nei tempi lunghi della storia. E in questo luogo di esilio e di confino da duemila anni fino all’altro ieri, più che altrove. Così quando chiedo ad Annarita com’è andata in primavera con la quarantena, lei scuote le spalle e risponde d’impulso: “Benissimo”. Poi una pausa: “I problemi semmai sono venuti dopo”.
Di cognome Annarita si chiama Matrone. La sua famiglia abita qui da generazioni, da quando, nella seconda metà del Settecento, il re di Napoli Ferdinando IV di Borbone emanò un decreto promettendo casa e “cinque tomoli di terreno” a chi fosse disposto a trasferirsi in questa isola inospitale e stupenda, battuta da venti violenti e priva di sorgenti d’acqua dolce, per ammansirla, per addomesticarla. All’appello – così vogliono i documenti storici, impastati di leggenda e di racconti orali – risposero per prime ventotto famiglie provenienti da Torre del Greco e da altre località della costa campana: i Matrone appunto, i Romano, gli Aiello, gli Iacono… Una sorta di aristocrazia locale, la versione ventotenese dei discendenti dei padri pellegrini negli Stati Uniti.
Annarita, biologa, lavora per il museo dedicato alle migrazioni degli uccelli, un edificio nella parte alta di Ventotene, il vecchio Semaforo occupato dai tedeschi durante la seconda guerra mondiale. Studia la fauna e la flora dell’isola e guida i forestieri per sentieri impervi e polverosi alla scoperta di piante profumate di cui spiega, insieme rapida e appassionata, gli usi – una scienza di famiglia, più che di studi universitari – su su fino a un tramonto fatto apposta per Instagram, il cerchio fiammante del sole che scompare nel mare color indaco. Solo il raggio verde rohmeriano ci elude, e verrebbe da dire: per fortuna.
Più tardi il cielo diventerà quasi nero, bucherellato di stelle come la carta da presepio, l’ideale per noi astronomi della domenica con le nostre app scaricate sul telefonino alla ricerca delle Pleiadi e degli anelli di Saturno. In questo cielo, come tutti gli anni a metà settembre, anche nel 2020 marchiato dalla pandemia, sono salite le mongolfiere, un’altra traccia del passato campano dei ventotenesi. Il lancio di o’ pallò segna l’avvio delle celebrazioni della festa patronale che cade il 20, lo stesso giorno della breccia di Porta Pia, ma che a Ventotene ricorda una santa evanescente perfino nel nome, Candida, giovane martire il cui corpo – si dice – approdò misteriosamente su una spiaggia dell’isola nel IV secolo dopo Cristo.
Non fosse per le mascherine, ammainate sul mento, appese al braccio o nei luoghi chiusi poste disciplinatamente a coprire naso e bocca, il Covid-19 – con questo suo nome alieno da brutto film di fantascienza – sembrerebbe un fantasma lontano, e remoti i mesi del lockdown. Di casi finora non ce ne sono stati, e guai se ce ne fossero, dicono i ventotenesi, consapevoli del pericolo su un’isola di neppure due chilometri quadrati, che d’inverno ha tre o quattrocento abitanti stanziali e d’estate, questa estate, si è riempita giorno dopo giorno di persone desiderose di sole, di mare, di vacanza, dopo una clausura che ha cancellato la primavera.
Voglia di normalità e necessità di cautela procedono sghembe, come una coppia male assortita e però costretta dai fatti a rimanere solidale. Controlli distratti sulle spiagge e nei ristoranti, ma anche ingressi scaglionati nei negozi e prenotazioni obbligatorie per le visite a Villa Giulia, il complesso che Augusto fece costruire come luogo di villeggiatura e subito trasformò in reclusorio per la figlia Giulia, condannata per adulterio alla relegatio ad insulam – prima di una serie di donne confinate qui per aver dato scandalo, più che per i loro costumi corrotti, per le loro ambizioni politiche e pubbliche (“amante della cultura e molto erudita”, la descrisse Macrobio).
A Ventotene, come in gran parte d’Italia, il turismo muove l’economia. Ma la domanda, impossibile da eludere qui e altrove con la pandemia in corso, è: quale turismo? quale economia? “Bisogna stare attenti”, dice Fabio Masi della libreria Ultima spiaggia, e non si riferisce solo al rischio del coronavirus. La libreria di Ventotene la conoscono in tanti pure fuori dall’isola, perché è la prova concreta della vitalità di un mestiere che in tanti considerano morituro o già morto. Ventotenese per parte di madre, Masi ha allestito lo spazio – l’antica farmacia del paese – con la mano sicura di chi ha capito che per venderli, i libri, bisogna conoscerli, e conoscere chi li compra o li potrebbe comprare. Una parete è dedicata ai libri di mare, mentre la sala interna, piena di copertine colorate, attira le bambine e i bambini che giocano sulla piazza e in libreria entrano tranquilli e disinvolti. Le novità ci sono, naturalmente, ma sono selezionate con discernimento, mettendo in evidenza le proposte degli editori indipendenti accanto ai vincitori dei premi letterari. E il banco all’entrata è occupato dai libri sulla storia di Ventotene, molti dei quali pubblicati dalla stessa Ultima spiaggia – non solo libreria, ma anche minuscola casa editrice, oltre che parte attiva nella realizzazione di un festival, “Gita al faro”, che invita autrici e autori a trascorrere qualche giorno sull’isola e a scrivere un racconto a partire da questa esperienza.
È una scelta, un modo chiaro di ricordare a chi arriva a Ventotene, magari scendendo per poche ore da una barca, che il turismo non è neutro, che ogni luogo possiede tratti unici, e questo in particolare ha alle spalle una storia lunga di isolamento che va ben oltre l’attualità in cui siamo calati.
Di Ventotene l’isolamento ha plasmato nei secoli la forma e l’esistenza, da quando Augusto relegò Giulia a Punta Eolo giù giù fino al confino fascista, la “villeggiatura” cui furono costretti tanti di coloro che si opponevano alla dittatura o erano comunque considerati pericolosi. Fra gli altri, Umberto Terracini, Camilla Ravera, Pietro Secchia, e poi Eugenio Colorni, Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, che qui scrissero il Manifesto per un’Europa libera e unita: il Manifesto di Ventotene, appunto.
Una storia inseparabile dall’altra, quella dell’isolotto di fronte, verso cui lo sguardo è attratto come da una calamita: Santo Stefano, compatta massa rocciosa sulla cui sommità si distingue il profilo del carcere borbonico, eretto negli ultimi anni del Settecento sullo schema del panopticon di Jeremy Bentham. Un capolavoro dell’isolamento, a modo suo: “Ogni cella ha una porta ed una piccola finestra ferrata che guardano nel cortile; e sul muro opposto ha un buco o feritoia lunga un palmo, stretta tre dita, dalla quale trapassa l’aria esterna”, racconta nelle Ricordanze Luigi Settembrini, alla metà del XIX secolo rinchiuso per otto anni in questo “albergo di pene e di dolori”, come in seguito l’anarchico regicida Gaetano Bresci, morto suicida o suicidato, e il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini, che da qui scrisse una lettera durissima alla madre, perché aveva osato chiedere la grazia per lui: “Come si può pensare, che io, pur di tornare libero, sarei pronto a rinnegare la mia fede? E privo della mia fede, cosa può importarmene della libertà? La libertà, questo bene prezioso tanto caro agli uomini, diventa un sudicio straccio da gettar via, acquistato al prezzo di questo tradimento, che si è osato proporre a me”.
Negli ultimi tempi le visite allo storico penitenziario, dismesso definitivamente nel 1965, sono state sospese: insicuro l’approdo, fatiscente la struttura. I settanta milioni di euro stanziati nel 2016 per il recupero del carcere sono rimasti fermi in quello che i media locali definiscono un “limbo burocratico” – il solito impasto di cavilli, microconflitti e inerzia, che tanto pesa sull’andamento delle cose in Italia.
Adesso, però, la situazione pare essersi sbloccata. Nominata a gennaio commissario straordinario del governo per Santo Stefano, Silvia Costa, ex europarlamentare Pd, non si è arresa al rallentamento da Covid-19 e a giugno ha organizzato un tavolo istituzionale in cui Mibact e Invitalia, l’agenzia nazionale per lo sviluppo, hanno firmato un accordo, ed è stata rinviata di un anno, a fine 2021, la scadenza entro la quale il progetto di recupero deve essere operativo, pena la restituzione dei soldi stanziati.
“È un passo avanti notevole”, commenta Anthony Santilli, curatore del Centro di ricerca sul confino politico e la detenzione. Sicuramente, ma il tempo è poco, le questioni da affrontare tante: le modalità di restauro del complesso borbonico, la messa in sicurezza degli approdi in quella che è anche un’area marina protetta, i criteri di un recupero che abbia respiro insieme locale ed europeo, come vorrebbe l’Associazione per Santo Stefano in Ventotene, che si batte da anni per valorizzare il carcere mettendo al tempo stesso in rilievo i legami forti tra le due isole.
Sul muro accanto all’ingresso di un caffè Santilli indica una targa: “Qui aveva sede una delle mense dei confinati”. È uno dei segnali che Ventotene offre a chi viene da fuori perché la sua visita non resti ingabbiata in un “qui e ora” amorfo, in un turismo privo di memoria. Sono tracce preziose ovunque, ma su quest’isola nel cui passato hanno avuto tanta parte fatica e sofferenza, di più.
Questo articolo è uscito in versione ridotta su «Alias» il 22 agosto 2020
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