Questo breve reportage dall’isola nell’isola di Santo Stefano, sede del carcere borbonico di Ventotene, è un estratto – per la cui riproposta in questa sede si ringrazia l’autore – dalla serie intitolata Supplementi a Nel condominio di carne, raccolta insieme ad altri materiali “per e sulla musica” nel volume Il violino di Frankenstein, uscito nel 2010 nella collana fuoriformato, che allora curavo per Le Lettere. Gli organi senza corpo che si affollano nel titolo d’esordio del Magrelli prosatore (pubblicato nel 2003 da Einaudi Stile Libero) trovano qui addendi ulteriori e non marginali: se solo si pensa alla portata del tema della vista, e anzi proprio dell’occhio, nella sua opera – sin dall’esordio, 1980, di Ora serrata retinæ. Retrospettivamente – è il caso di dire – il “monte dell’Occhio” di Santo Stefano getta, su quegli albori lontani e in apparenza felici, una cupa luce concentrazionaria.
A.C.
Mentre la famiglia era in viaggio sull’aliscafo per Ventotene, il figlio di sette anni iniziò di colpo a manifestare il tic. Il tic è un gorgo, meglio starne alla larga. Fa mulinello in un attimo e ti porta via, trascinandoti giù nell’isteria di un gesto che chiede sempre un ritorno, un altro almeno.
Tic significa “ancora”, e dunque quella volta era venuto il turno delle palpebre, un battito improvviso ed ossessivo, mentre lo scafo scivolava veloce. Ignaro della forza che sfidava, il bambino era finito preda dell’Invisibile Animale Percussionista, che batte e ribatte fino alla possessione, senza tregua.
Tutto quel giorno ne restò avvelenato. I genitori, spaesati, soffrivano per quel brivido inarrestabile, mentre lui non poteva, non voleva più sottrarvisi. Poi, scesi al porto, affittarono un barchino, dirigendosi verso l’isola di Santo Stefano. Si erano ripromessi di visitare l’Ergastolo, l’elegante prigione settecentesca fiorita dallo spirito dei Lumi. Non c’erano attracchi, e approdarono a fatica, cominciando l’ascensione in mezzo a rovi e sassi, sotto un sole a picco.
Entrare fu più difficile del previsto. Riuscirono a trovare una finestra sfondata, e di lì, fra calcinacci e fuochi spenti, raggiunsero le cucine. Vetri, vecchi vestiti, bivacchi abbandonati, mura imbrattate di scritte: avevano paura, avanzavano cauti, armati di bastoni, e in tutto questo, leggero e palpitante come un battito d’ali, lo sfarfallio del tic continuava a pulsare sul volto di quel giovane iniziato ai Misteri della Ripetizione.
Ci volle tempo perché, dopo tanti stanzoni, sbucassero sulla spianata del cortile, lasciando l’ombra maleodorante e chiusa per l’infinita vampa pomeridiana. Solo allora gli apparve il cerchio magico di quel teatro fatto penitenziario, con le celle disposte tutte intorno, su più ordini, proprio come palchetti. Ma ecco la mostruosa inversione e perversione scopica: invece di guardare, gli spettatori, ridotte a vittime sacrificali, venivano guardati, fissati dall’unico occhio, centrale e impassibile, del loro carceriere. Non voyeurs, ma voyous, misere canaglie; non guardoni, bensì guardati a vista. Era il panopticon in una delle sue più riuscite variazioni, con il mare alle spalle ma invisibile. Un Club Méditerranée della detenzione.
Non si fermarono a lungo. Quel relitto deserto aveva accumulato troppo dolore. Lo stoccaggio di tanta sofferenza emanava radiazioni intollerabili. Le povere camerette, la calca dei prigionieri, avevano funzionato come allevamenti per produrre ferocia o qualche altra secrezione letale, un distillato, una vera ambra del Male. Scesero che era sera, da quel monte dell’Occhio, mentre l’occhio del piccolo ancora lampeggiava. Durò per qualche giorno, il suo tremore, poi, inesplicato ospite, sparì come era giunto.
In copertina: l’ex-carcere borbonico di Santo Stefano
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