L’articolo che segue è nato su invito della rivista Repères – cahier de danse (edita da La Briqueterie – Centre de Développement National de Danse du Val-de-Marne) che ha dedicato un numero al tema della sospensione e, in particolare, alla cosiddetta “danza verticale”, ovvero a quelle esperienze di danza in cui i performer si muovono danzando sul piano verticale di strutture, edifici, oppure ancorati a speciali imbragature che permettono loro di volteggiare sospesi nell’aria. La commissione di questo testo ha rappresentato l’occasione per un ragionamento sul corpo, sullo sguardo e sull’immagine osservati a partire da una prospettiva interna.
Nel cominciare a scrivere questo testo, che desidera prendere in esame il tema della sospensione in relazione allo sguardo, cerco di reperire dove questa ci appaia quando si situa il più vicino possibile a noi. Scelgo di posizionare il pensiero il più possibile vicino al corpo, è qui che cerco di rintracciare un segno della sospensione che si sviluppa, in seguito, fino al volo e alle sue mitologie, come quella incarnata dalla figura di Icaro.
Prima di tutto, osservo dunque la sospensione nei nostri corpi, nei quali le vertebre — dolcemente impilate le une sulle altre — disegnano e marcano una sinuosa linea verticale che, idealmente, congiunge lo spazio che si trova sotto le nostre volte plantari allo spazio infinito al di sopra delle nostre teste. Tra questi due punti, situati oltre i limiti estremi della linea tracciata dalla colonna portante del nostro scheletro, il corpo è un oggetto sospeso dotato di un movimento dal potenziale inesauribile. Soggetti alla gravità, in piedi in una posizione neutra, i nostri corpi disegnano una verticalità che, come quella delle piante e quella degli alberi, è segno di presenza e segno di vita. L’orizzontalità può allora essere vista, all’opposto, come l’orientamento simbolo di una dimensione complementare; quella del riposo, del sonno, della malattia, della morte. Nello yoga, questa posizione si chiama Shavasana, la posizione del cadavere.
Per sua conformazione naturale, il corpo umano offre almeno due movimenti legati alla sospensione: una danza primordiale – intima e già molto complessa – fatta della pulsazione ritmica del battito del cuore; e uno slancio verticale potenzialmente infinito al quale il sistema muscolo-scheletrico aderisce organicamente. A partire da questo slancio, ogni spostamento nello spazio viene organizzato in negoziazione con l’attrazione terrestre. Proiettato verso l’esterno, lo sguardo — osservato attraverso la prospettiva della sua messa in opera e del suo movimento — interrompe la verticalità attraverso la continuità persistente della sua azione e attraverso la sua traiettoria, che dalle orbite oculari si proietta in senso orizzontale.

Lo sguardo è al contempo strumento di percezione e d’azione. La capacità di visione degli occhi, attraverso cui le immagini del mondo penetrano nel corpo, determina un orientamento corporeo e spirituale fondamentale dell’umano, legato alla frontalità. Lo sguardo si proietta dunque verso l’avanti: è questa la dimensione che associamo metaforicamente al futuro, allo spazio che possiamo considerare, misurare e comprendere nel nostro campo visivo. Si tratta, inoltre, dello spazio d’azione privilegiato del corpo (lo spazio in cui l’atto del camminare indirizza naturalmente la propria direzione). Molti movimenti sono già presenti, allora, quando rivolgiamo il nostro sguardo alla danza, ma anche quando vi assistiamo. In quanto primo destinatario della danza, il senso della vista determina una serie di conseguenze nel corpo, visibili e invisibili. Il rapporto tra il presente e l’assente dell’azione, che si declina tra l’azione agita e l’azione osservata, segnala la presenza di uno stato delle cose — nel corpo — in cui il reale e i suoi segni sono equivalenti, dal punto di vista neurologico, grazie all’azione dei neuroni specchio: essa attiva quelle zone del cervello che rispondono mimeticamente all’azione che accade davanti agli occhi. Sono loro che aprono le porte alla rappresentazione, e dunque al teatro: non solo un modo di rappresentare la realtà, ma anche luogo sociale e simbolico che fa parte della nostra vita corporea e culturale.

In tutte le epoche i teatri, luoghi destinati agli eventi, sono stati pensati in funzione dello sguardo; essi coniugano una dimensione percettiva individuale con una dimensione relazionale collettiva: sono architetture che permettono una vista chiara dello spazio dell’azione, della scena, a quante più persone possibile. Gli spazi aperti, urbani e naturali, così come i musei, quando sono attraversati da corpi danzanti chiedono ai nostri sguardi di attraversarli diversamente: non si tratta più unicamente di vedere o di assistere a un’azione che vi si produce, ma di riequilibrare un rapporto con il mondo e con lo spazio che dipende, principalmente, dal nostro rapporto con lo sguardo. In ogni caso, lo sguardo è diretto verso qualcosa che si trova alla propria portata e in una direzione che, nella maggior parte dei casi, è frontale e orizzontale, ovvero l’area dove la visione umana è migliore. Quando parliamo di arti dal vivo, allora, è proprio a “una cultura dello sguardo” che facciamo riferimento. È soprattutto grazie allo sguardo che le arti performative sono percepite, capaci di suscitare emozioni che colgono, in seguito, gli altri sensi.

In questo quadro, se esiste una storia dello sguardo essa è intrecciata a quella della sospensione e a tutto ciò che prova di poter contraddire le leggi della natura. Nelle arti e nell’architettura un legame tra sospensione e acrobatica appare già in Vitruvio che, nel De Architectura, chiama “acrobatiche” le macchine atte a sollevare; queste godono, secondo l’autore, di una considerazione migliore (di natura morale) rispetto alle macchine che trasportano oggetti e corpi sul piano orizzontale. Se il piano orizzontale è dunque quello in cui la macchina agisce per moltiplicare la forza dell’uomo, il piano verticale è quello che è capace di produrre ammirazione e stupore. È il segno dell’essere umano che vince sulla natura, che ne diventa il maestro (maître) invertendo i ruoli. In connessione con il soprannaturale e lo spirituale e in opposizione al mondo materiale e alla sua finitezza, il volo — di cui la sospensione è la scintilla— appartiene a una dimensione sconosciuta che, storicamente, non è conoscibile se non attraverso una professione di fede o un credo, come la religione, la magia, la stregoneria, ecc. Nell’epoca moderna la vita umana regolata dal suono delle campane, oggetti sospesi, è l’emblema dell’incontro e dell’esercizio della storica coesistenza tra vita quotidiana e vita spirituale.
L’incontro tra danza e sospensione permette ai corpi di rivelare questioni e proporzioni inattese; queste ci mostrano la postura interiore degli artisti che danzano sospesi. La tecnica che li sostiene permette loro di abbandonare il suolo ed è come se donasse le ali alla danza che, diversamente, appartiene solo alla terra. La danza sulle punte, così come la danza verticale, agisce tra la meraviglia del sospeso e la sfida all’imprevisto della caduta. Se, da una parte, la danza sulle punte non ha quasi avuto evoluzione al di fuori delle sale teatrali, la danza verticale, dall’altra, è nata in spettacoli più antichi e dà luogo a eventi che possono prendere corpo in qualsiasi momento, quasi in ogni spazio, urbano e naturale. In questo modo, la danza verticale contemporanea ci ricorda che ogni danza è, innanzitutto, un luogo dello sguardo che determina un vero cambiamento fisico negli spazi e nelle nostre posture. Grazie ai movimenti di alta ingegneria delle nostre vertebre cervicali, che sanno sostenere il peso della nostra testa anche al di fuori del suo punto d’equilibrio, la scatola cranica si reclina posteriormente di qualche grado in modo che lo sguardo possa sollevarsi in altezza, verso il cielo, laddove altri corpi non sono soliti trovarsi, là dove si verifica qualcosa che ha a che fare col sogno e col superamento delle leggi fisiche. Gli occhi si posano allora sui danzatori, corpi mobili, stelle viventi che tracciano nel campo visivo delle forme in dinamica. Vengono tracciate delle traiettorie, delle linee, delle rotazioni, dei salti, delle cadute e, certamente, delle sospensioni. L’orientazione del corpo stesso, che traduce la propria verticalità su una moltitudine di altri piani grazie ai dispositivi di sostegno, è l’espressione delle modalità attraverso le quali la nostra percezione connette il corpo danzante a una perdita della centralità fisica e mentale (“Bisogna avere un caos dentro per generare una stella danzante”, diceva Friedrich Nietzsche). Che sia considerato dal punto di vista dello spettatore o da quello dei danzatori stessi, lo sguardo è senza dubbio una questione fondamentale relativa agli effetti che la sospensione può generare nella nostra percezione. La danza è un oggetto mobile per definizione, che si offre alla visione — “visione” in quanto proiezione creativa del nostro spirito — e allo sguardo. Gaston Bachelard sostiene che sognare e guardare sono due azioni che non vanno d’accordo, poiché colui che sogna troppo perde lo sguardo, e colui che descrive troppo bene le cose perde la profondità dei sogni. Così noi ci ritroviamo di nuovo emozionati dalla prodigiosa meccanica dello sguardo sospeso: assistiamo a una danza che, con la propria capacità di volo, ci solleva al di là di noi stessi.
Questo testo è stato pubblicato nel numero 44 (novembre 2019) della rivista Repères, cahier de danse. Traduzione a cura di Gaia Clotilde Chernetich e Sergio Lo Gatto
In copertina: una performance della compagnia Il posto danza verticale