Carla Accardi dal vivo

A sei anni dalla scomparsa dell’artista (1924-2014), nell’ambito del progetto «I talenti delle donne» promosso dal Comune di Milano, si è aperta il 9 ottobre al Museo del Novecento (e resterà visitabile sino al 27 giugno 2021) la mostra Carla Accardi. Contesti, a cura di Maria Grazia Messina e Anna Maria Montaldo con Giorgia Gastaldon. Questa, che è la prima antologica dedicata all’artista dopo la sua scomparsa, comprende circa settanta opere oltre a una ricca documentazione fotografica proveniente dall’Archivio Accardi Sanfilippo, che ricostruisce il contesto storico, sociale e politico del lungo percorso umano e artistico di Carla Accardi. Dal catalogo pubblicato da Electa, per la cortesia degli autori e dell’editore, proponiamo l’intervista di Maria Grazia Messina a Francesco Impellizzeri, dalla metà degli anni Ottanta assistente di Accardi: un racconto emotivo della donna Carla che allo stesso tempo fornisce dettagli precisi sulle tecniche e sui materiali utilizzati dall’Accardi artista, sulle sue pratiche espressive, e sulla meticolosità con cui seguiva l’allestimento delle proprie mostre.

A.C.

[Messina] Quando hai conosciuto Carla Accardi?

[Impellizzeri] Agli inizi degli anni ottanta: ero a Roma, studente di pittura all’Accademia di Belle Arti, ma tornavo di frequente in Sicilia. Nell’estate del 1983 mi recai all’inaugurazione della personale di Carla ad Erice, scoprendo che l’artista era proprio la persona che, tempo prima, mi era stata additata da un amico per via Borgognona: «vedi, Carla Accardi e una tipo quella lì!». Non era ancora il tempo di Internet e tali coincidenze rendevano magici gli incontri e le conseguenti amicizie. Ad Erice, Carla, con un gran sorriso, fece da parte ogni distanza generazionale fra noi, e, saputo che vivevo a Roma da quasi cinque anni, mi “rimproverò” per non averla mai contattata prima, e m’invito a farle visita in studio. Non appena rientrato, la timidezza mi fece tentennare meno del solito prima di alzare la cornetta del telefono e dare seguito all’invito ricevuto. Agii prima di pensarci troppo. Salii cosi per la prima volta le quattro rampe di scale che si inerpicavano all’attico pieno di luce in cui viveva e lavorava Carla Accardi, non immaginando che lo avrei fatto fino al giorno della sua scomparsa, per proseguire fino ad oggi, con frequenza assidua.

Sei anche tu originario di Trapani. Puoi confermarci la rilevanza di queste radici per il lavoro di Accardi?

Un paio d’anni dopo si è verificato un episodio che è rimasto indelebile nei miei ricordi. Poche volte ho visto Carla emozionarsi o abbandonare il suo tipico aplomb, retaggio culturale della sua borghese famiglia d’origine. Il padre era un collezionista di opere e antichi oggetti d’arte siciliani e la madre aveva frequentato i migliori istituti nella Roma dei primi anni del Novecento.

Alla mostra Quartetto alla Torre di Mezzo, nella torre saracena che dominava il mare e le saline vicino Trapani, insieme ad altri tre artisti, esponevo la mia prima grande tela astratta. Le nostre opere dialogavano con l’imponente spazio quadrangolare mentre la musica di un quartetto d’archi ne dilatava il tempo. Carla, allora in vacanza da amici nei dintorni, ci fece da madrina, andai a prenderla in auto. Il cielo stava iniziando a vestirsi con le tonalità del tramonto, mentre il paesaggio perdeva i suoi connotati definiti. La strada che dalla provinciale portava al mare era tutta curve e piena di cunette e dossi. Proprio dopo l’ultima cunetta, Carla ebbe un sussulto di stupore: era apparsa la torre, imponente in controluce, mentre i rettangoli d’acqua delle saline che la circondavano si erano colorati di variegate tonalità rosa.

Carla mi parlava sempre delle saline Galia di Trapani di cui sua madre era proprietaria e dove da bambina giocava e faceva i pic-nic con la famiglia e le governanti. Era affascinata dal contrasto tra le piramidi di bianco sale coperte dalle tegole e lo spazio minimale e silenzioso che le circondava. Ne parlava sempre durante le conversazioni sui nostri luoghi d’origine, e chissà se questi ricordi abbiano motivato le sue famose tele in bianconero. Altrettanto, i balconi della sua casa trapanese guardavano la villa comunale, con gli intrecci delle inferriate che ritmavano il verde delle magnolie e l’azzurro intenso del cielo che le ricordava tanto Matisse, artista che amava spesso citare. I suoi primi disegni sono nati da quella luce.

Quando è iniziata la vostra collaborazione?

Alla prima visita allo studio seguirono numerosi incontri, specialmente in occasione delle sue e delle mie prime mostre. Fu proprio nel corso di una cena nella mia casa studio che Carla mi chiese se avevo voglia di mettere in ordine il suo archivio, perché proprio il mio ordine e precisione l’avevano colpita.

Sfogliare, datare e mettere in ordine cronologico la sua storia d’artista è stata una vera e propria palestra: fisica visto che non si trattava solo di piccoli volumi, e soprattutto mentale. Ne usciva fuori un’artista grande, come le tele che realizzava. Passavo a rassegna queste immagini di opere sorprendenti che bucavano i fogli su cui erano stampate e che ancora oggi mi emozionano.

Un giorno, mentre mi trovavo sommerso dai suoi cataloghi, mi chiese un parere su una tela che stava dipingendo. Si trattava di un grande dittico viola in cui i suoi tipici segni si avvolgevano e intrecciavano, ma in un angolo leggevo una sorta di minore fluidità. Non avevo voglia di elogiare banalmente la sua opera, come avevo sentito fare in quei giorni da compiacenti visitatori, e quindi segnalai la mia impressione. Con un carboncino nero Carla cominciò a correggere quella parte fino a trovarne insieme il giusto equilibrio.

Da quel giorno di fine ottobre del 1987 iniziò la nostra collaborazione. Era una sensazione curiosa, piacevole quanto di enorme responsabilità. Progettare lavori e mostre, tenere aggiornato il suo archivio e poi seguirla nei viaggi per le sedi espositive dove venivano installate le sue opere. Ci sono tantissimi frammenti colorati che compongono il caleidoscopico puzzle del nostro rapporto e appartengono a questi viaggi, cosi come ai dialoghi al tavolo da lavoro o mentre mangiavamo un boccone, come diceva spesso.

Accardi stava allora lavorando alle grandi tele per la Biennale di Venezia del 1988. Cosa puoi dirmi di quel ciclo, la cui stesura hai potuto seguire direttamente? Ad esempio, Pieno giorno (Veduta) appare sottendere un racconto.

La prima grande esposizione a cui Carla stava lavorando, nel periodo in cui cominciò la nostra collaborazione, e stata la Biennale di Venezia del 1988. Giovanni Carandente aveva scelto di dedicarle un’intera sala. Progetti e bozzetti erano pronti e Carla li sviluppava su grandi superfici di tela grezza. Diede cosi vita a un monumentale gruppo di tele che chiamava «monografie»: otto opere di cui un trittico e sette dittici. Aveva difatti frammentato le tele perché, essendo il suo studio al quarto piano, realizzava le opere nella dimensione massima di 220 x 160 cm, per fare in modo che riuscissero a passare attraverso il vano scala.

Sala di Carla Accardi alla Biennale di Venezia del 1988

Tra queste opere il trittico Veduta è un particolare omaggio a Roma, dato che il disegno rappresenta l’isola Tiberina mentre Animale immaginario riprende una gouache degli anni cinquanta realizzata dopo uno dei suoi primi viaggi a Parigi, quando aveva visitato il Musee de l’Homme.

Come lavorava Accardi sulle grandi dimensioni introdotte nella sua pittura dagli anni ottanta?

Sviluppava i progetti facendo al centro delle tele una crocetta col carboncino e sezionando poi in quadrati l’area della tela con piccoli segni che ne determinavano il perimetro. Eseguiva così il disegno con un leggero tratto, tenendo conto delle proporzioni del segno/forma da realizzare. Quando tutta la struttura disegnata era terminata, metteva le tele in verticale per verifica, faceva le correzioni cancellando con un pennello di setola dura e con lo stesso rendeva la traccia del disegno meno evidente, per poter cosi iniziare la prima mano di colore. La seconda e ultima mano serviva anche a correggere piccole imperfezioni, anche se la stesura dei colori era sempre pulita e sicura nel gesto. Vederla dipingere era un piacere per la danza che i pennelli eseguivano attraverso quella “musica”, che Carla diceva di fare e non ascoltare.

Molti titoli delle opere che dagli anni ottanta segnano il ritorno alla pittura di Accardi, portano dei titoli suggeriti da poeti a lei vicini. La scelta del titolo aveva un ruolo nell’ideazione o messa in atto dell’opera?

I titoli venivano suggeriti dall’opera stessa, a esecuzione terminata. A volte, mentre dipingeva mi chiedeva di leggere alcune poesie di Zanzotto, Daniele Pieroni o Francesco Serrao. Alcuni passaggi o coppie di aggettivi, nomi o definizioni che ci piacevano li copiavamo su di un taccuino rosso per poi utilizzarli nel momento opportuno. Era un altro dei momenti piacevoli del “lavorare” insieme: verificare come dei versi poetici si sposassero perfettamente con coppie di forme colorate.

Dalla fine degli anni ottanta hai sempre seguito gli allestimenti delle mostre di Accardi. Hai dei ricordi salienti?

Il primo viaggio internazionale per allestire una mostra di Carla Accardi è stato quello per la mostra personale alla galleria Salvatore Ala di New York del 1989. Alla partenza da Fiumicino incontrammo Alberto Burri che accompagnava la moglie Minza, anche lei diretta a New York, che indossava un curioso cappello da mondina cinese. Era palese l’ammirazione e stima che avevano l’uno per l’altra. Durante l’allestimento in galleria, dopo aver posizionato un gruppo numeroso di rotoli in sicofoil, ci rendemmo conto che ricordava lo skyline di Manhattan.

Carla Accardi, Rotoli in sicofoil dipinto, 1965-69 (Galleria Salvatore Ala, N.Y 1989)

Nel 1990 inaugura la retrospettiva di Carla Accardi con opere dal 1965 al 1990, nel Museo Case Di Stefano di Gibellina. Un progetto espositivo di grande impegno per cui abbiamo utilizzato un modellino in scala per adattare le opere e verificarne l’effetto, realizzato dall’architetto Zanmatti. Ricordo come fu interessante posizionare le piccole riproduzioni delle opere, proprio come fa Bruno Vespa quando descrive i plastici dei delitti a Porta a Porta.

Gestire questo ruolo di grande responsabilità di cui Carla mi investiva, a volte mi portava ad affrontare da solo la difficoltà di far rispettare le sue decisioni, come avvenne in occasione della Quadriennale del 1992 al Palazzo delle Esposizioni di Roma. Un polittico e due dittici di grandi dimensioni erano stati già istallati sullo scalone che porta al primo piano del palazzo, ma non erano completamente visibili dal basso. Gli operai con battute trucide romanesche non intendevano spostarli. Con un’azione rocambolesca sono riuscito a domare gli sguardi inferociti e ottenere la corretta fruizione delle opere.

In quegli anni vivevo con la valigia sempre aperta ai piedi del letto per le mie mostre in Italia e Spagna, ma anche per i progetti espositivi di Carla, come quello nella luminosa Galleria Meert-Rihoux a Bruxelles, o al Macro di Roma nel 2004, dove abbiamo progettato quattro grandi sale in modo fresco e frizzante, come era il suo stile, soprattutto per le due che mostravano le ultime opere e per cui furono realizzati coni in ceramica, un coloratissimo polittico e una lunga sequenza di disegni a china su carta, che si leggeva come una poesia.

MACRO Roma, 2004 (foto di Claudio Abate)

Negli ultimi anni Carla preferiva spostarsi il meno possibile. L’ultima retrospettiva al Palazzo Valle di Catania, del 2011, è stata imponente, al pari del settecentesco palazzo che la ospitava. Molte delle sue più importanti opere ne arricchivano le numerose sale. Purtroppo quella volta Carla mi lasciò partire da solo, ma con la sua costante presenza telefonica nei giorni di allestimento.

Nel 2013 Carla ha il desiderio di realizzare un nuovo grande Cilindrocono in plexiglass e vernice, ispirato a un lavoro più piccolo del 1972. Questa è l’ultima opera, per cui ho lavorato dalla progettazione all’esecuzione, eseguita per una mostra alla galleria di Massimo De Carlo di Londra. In fase di realizzazione chiesi a Carla se il colore originale del Cilindrocono fosse grigio o nero. Mi rispose prontamente: «Antracite!», confermando ancora una volta la sua lucida precisione fino alla fine.

Come si rapportava Accardi rispetto alle molteplici vie di ricerca intraprese nel suo percorso di lavoro? Insomma, qual era il rapporto con le opere del proprio passato?

Buonissima parte delle chine degli anni cinquanta, dipinte di getto su un piccolo album, sono state per anni matrice infinita di opere. Tranne che per i sicofoil Trasparenti o per i lavori con i telai dipinti della seconda metà degli anni settanta, che sono invece nati da progetti autonomi.

Tutto il resto era una rielaborazione di un vocabolario accardiano, come dimostrano chiaramente i segni messi in fila nelle opere degli anni sessanta. In quel periodo la professoressa Accardi metteva in riga non soltanto i suoi alunni ….

Qual era il rapporto di Accardi con la committenza o le gallerie?

Carla lavorava volentieri con galleristi con cui aveva instaurato un rapporto d’amicizia, rispetto e fiducia. Questo le permetteva di realizzare le opere in modo sereno, senza una pressione meccanica e fredda. Le poche volte in cui questo non si verificava, la relazione di lavoro aveva una durata limitata.

Nei decenni della vostra amicizia, quali artisti frequentava, quale era la sua cerchia di riferimento?

Erano diversi gli artisti che frequentavano lo studio Accardi o quelli che Carla incontrava anche la sera quando andava fuori, a cena. Alighiero Boetti aveva un rapporto affettuoso e incontrava spesso Carla, come pure Emilio Prini. Con Claudio Abate spesso cenava da Pommidoro nel quartiere di San Lorenzo ma con Luigi Ontani c’era un rapporto costante, anche perché abita vicino al suo studio, e soprattutto per l’amicizia tra i due artisti. Valentino Zeichen era invece spesso presente agli aperitivi che Carla offriva quotidianamente ai suoi amici. Il poeta di Fiume le ha dedicato diversi versi in prosa.

Come reagiva l’artista all’incessante cambio generazionale che ha vieppiù segnato negli ultimi decenni il sistema dell’arte?

Carla ha sempre guardato con il massimo interesse all’opera degli artisti giovani. Nel mio caso, nel 2004, la Galleria AAM Architettura di Roma ci propose di esporre insieme. Avevamo forti dubbi e Carla mi disse che, se avevo un’idea originale, avremmo accettato. Per questa mostra a due, ho progettato un dialogo tra Carla e me, utilizzando i miei Pensierini per commentare la sua opera attraverso frasi in rima. Ho scelto così otto dipinti su carta di Carla, che delineavano una sorta di percorso sintetico, e realizzato otto miei lavori per l’occasione. Occasione resa ancor più speciale da quattro opere su carta realizzate a quattro mani.

Chiudo questa carrellata di parole e immagini con una delle ultime foto di Carla Accardi al suo tavolo da lavoro, dove teneva tutti i giorni una tela o un foglio di disegno che aspettava di essere dipinto. Mi ha permesso di scattarla, anche se da qualche anno non amava più farsi ritrarre. Quel po’ di vanità femminile, che in fondo non guasta mai e che non le ha fatto perdere il sorriso fino alla fine di febbraio del 2014, prima di salutarmi per l’ultima volta, con una carezza sulle mani.

Carla Accardi nel suo studio, 2009 (foto di Francesco Impellizzeri)

In copertina: Carla Accardi, Per gli stretti spazi 1, 1988 vinilico su tela, ph.Luca Borrelli

FRANCESCO IMPELLIZZERI è nato a Trapani nel 1958. Artista e performer, è stato per quasi tre decenni assistente e diretto collaboratore di Carla Accardi, instaurando con l’artista un rapporto di profonda amicizia e solidarietà. Dal 2014 è membro del Comitato Scientifico dell’Archivio Accardi Sanfilippo.
MARIA GRAZIA MESSINA è stata professore ordinario di Storia dell’Arte Contemporanea nelle Università di Venezia e Firenze. È membro del comitato scientifico del Museo del Novecento di Milano. Si è soprattutto occupata di nessi fra arti, critica e letteratura nel periodo fra il postimpressionismo e le avanguardie storiche. Si è inoltre interessata al fenomeno del primitivismo e al rapporto delle avanguardie con le arti arcaiche e le arti etniche di Africa e Oceania. Curatrice di diverse mostre, ha dedicato a quest’ultimo tema nel 2018 la mostra “Je suis l’autre, il Primitivismo nella scultura del Novecento”.

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