In queste settimane, da una sponda all’altra del mantello atlantico che separa UK e US, la decisione di quattro direttori di musei e gallerie d’arte – National Gallery of Art (Washington), Tate Modern (Londra) Museum of Fine Arts (Boston e Houston) – di rimandare al 2024 una retrospettiva dell’artista Philip Guston (1913-1980) ha fatto molto discutere.
Di questa vicenda, ciò che risulta difficilmente comprensibile è la giustificazione fornita dai direttori delle quattro istituzioni, presentata in forma di statement sul sito della National Gallery di Washington. Centro della questione, seppur non esplicitamente dichiarato, pare sia il motivo figurativo del White Hood, ovvero le sagome dai cappucci bianchi chiaramente associabili al Ku Klux Klan- motivo che attraversa, in particolare, i dipinti degli ultimi anni Sessanta. Le immagini di Philip Guston – figlio di rifugiati ebrei e impegnato, sin da giovane, in un’attività di critica delle ideologie razziste alla base del Klan, tradottasi in linguaggio figurativo ma anche in impegno politico, come precisano molti commentatori – “oggi potrebbero essere oggetto di fraintendimento”, spiega un portavoce della National Gallery per ARTnews. Il sentimento di profondo malessere legato ad importanti questioni di (in)giustizia sociale e razziale che si è amplificato, come è noto, nelle voci del Black Lives Matter, mostra, secondo l’establishment museale in questione, che il mondo non è ancora pronto a recepire “il potente messaggio di giustizia sociale e razziale al centro dei lavori di Guston”. Constatazione che ha portato, dunque, alla decisione di attendere un “tempo” in cui queste immagini possano essere “più chiaramente interpretate”. Sempre la National Gallery (Washington) precisa che lo scopo è anche quello di risparmiare ai visitatori “esperienze dolorose” che “le immagini potrebbero suscitare”, come se il fine eroico di questo atto di carità verso lo spettatore fosse quello di un’anestesia a fin di bene, perché egli possa, una volta varcata la soglia del museo, disabituarsi alla capacità di sentire – strategia che ben s’intona alla logica dell’entertainment.
Molti hanno proclamato il loro dissenso verso la dichiarazione dei big four, dai conoscitori dell’opera di Guston ad artisti e curatori della scena internazionale che considerano il gesto un vero e proprio atto di censura, fomentato da una sfiducia nelle capacità sensibili e critiche del pubblico, da un lato, e dal timore verso la possibilità, insita nella polisemia dell’atto interpretativo, di veicolare un messaggio non-politically correct, dall’altro. Delle svariate reazioni alla controversa decisione che si sono diffuse in breve tempo, alcune parole mi hanno particolarmente colpita: “Welcome to Flatland”, scrive Kenan Malik per l’Observer. “Un dipinto, libro, rappresentazione teatrale, film, può avere molteplici livelli di lettura”, sottolinea lo scrittore, ma nel mondo in cui viviamo, dall’arte alla politica, vige il mantra del one-way-system, atteggiamento che riduce la complessità – e la semplicità – dell’esistenza al giusto o sbagliato, destra o sinistra, gioia o dolore, vita o morte. Sempre meno attenzione viene data alle sfumature del senso, alla porosità della vita, ai volti che non conosciamo, alle parole che non suonano già nostre, al diverso – non è un caso che il problema dell’Anthropocene coincida con la perdita della biodiversità. Ecco, dunque, la nostra Flatland, spiega Malik, ovvero una terra abitata da individui che osservano superfici e che vivono il mondo in superficie, abbandonando ogni senso di profondità. Così, giustificando il rinvio di Philip Guston Now nei termini di una possibile misinterpretazione, o di una più corretta interpretazione, il messaggio impoverito dei quattro musei è che questi dipinti possano e debbano essere letti secondo un’unica chiave di lettura, come se la questione centrale del rapportarsi all’arte fosse il garantito riconoscimento di un contenuto universalmente accettabile. Affermazione assurda, non occorre aggiungere altro. Il commento di Malik è, appunto, un commento, un’analisi della situazione. Non è tanto la questione di un giudizio negativo o positivo verso la scelta dei direttori ciò su cui mi vorrei soffermare e nemmeno il tentativo di difendere o meno determinate posizioni apertesi in questo recente dibattito. Leggendo il “benvenuto” di Malik, ciò che mi chiedo è come ci si possa spingere oltre il commento, oltre la constatazione di un’infelice situazione: oltre la superficie. Come si vive a Flatland?
L’immagine del mondo come Flatland suona familiare, basta osservare la nostra quotidianità e subito ci rendiamo conto di come tutto ciò che abbia una qualche consistenza, un rilievo, uno spessore, venga continuamente appiattito, filtrato e risucchiato nella moltitudine di schermi che sostengono la nostra postura verso la realtà. A mio avviso, la questione centrale che si apre a partire da tale constatazione è, letteralmente, un problema di vita e di morte. Sembrano più che mai attuali, a questo proposito, le parole di Jacques Derrida, tratte dalla celebre ed ultima intervista condotta da Jean Birnbaum e rilasciata a Le Monde nel 2004:
Rinunciare, per esempio, a una formulazione difficile, a una piega, a un paradosso, a una contraddizione supplementare, perché non si capisce bene, piuttosto perché un giornalista che non sa leggerla, e non sa leggere nemmeno il titolo di un libro, pensa che il lettore o l’uditore non capirà e che l’Auditel o il suo datore di lavoro ne soffriranno, è per me un’oscenità inaccettabile. È come se mi chiedesse di inchinarmi, di asservirmi – o di morire di stupidità.[1]
“Welcome to Flatland”, dove l’oscenità inaccettabile diviene codice di comportamento etico, politically correct, doveil paradosso è ripudiato, la sensibilità è narcotizzata e la contraddizione è fastidiosa. Cercare di non morire di stupidità, questa la battaglia che ogni giorno gli abitanti della superficie sono chiamati ad affrontare. Non rinunciare alla piega e al paradosso, alla contraddizione, al diverso, questa la missione salvifica dell’eroe Flatlandiano. Eppure, occorre chiarire, la “salvezza” non arriva andando semplicemente oltre la superficie ma sprofondandoci fino al collo. Come si vive a Flatland? Si sopravvive. Come spiegava Derrida, sempre nella stessa intervista, “la sopravvivenza è la vita al di là della vita, la vita più della vita”. La proposizione comparativa sostenuta dal più non indica però uno spostamento oltre-struttura, non è un cavillo escogitato per aggirare il problema della fine – la fine resta, ci appartiene da sempre – ma segnala una complicanza nella linearità del binomio vita-morte, percepibile come variazione di intensità, più che di direzione – “la sopravvivenza non è semplicemente ciò che resta, ma la vita più intensa possibile”. Non resta che vivere la vita più intensa possibile, nella nostra Flatland, il che significherebbe allora non combattere contro la finema contro la polverizzazione della vita prima della fine, contro il livellamento sistemico delle variazioni di intensità e di sensibilità che si riscontra in ogni ambito culturale, sociale, politico.
Il gesto rivoluzionario, se così lo si può definire, di una vita vissuta all’apice dell’intensità sarebbe allora un problema di sguardo: verso la fine e verso la Flatland, verso la fine come Flatland. “Caro Lucilio, sbagliamo, pensando che la morte deve ancora venire, mentre ci ha preceduto e dovrà necessariamente seguire. Tutto ciò che esisteva prima di noi è morte. Difatti, che importa non cominciare affatto o finire, dal momento che il risultato dell’uno e dell’altro stato è il non essere?”[2], scriveva Seneca. Impossibile ribaltare il risultato, non esistevamo e non esisteremo, ma esistiamo. Impossibile non constatare, come scriveva Marianne Moore in una bellissima poesia intitolata What are years (Che cosa sono gli anni) che “tutti sono nudi, nessuno è salvo”[3].Verità inconfutabile. Ma di fronte a questa resa si presenta la domanda – la “domanda senza riposta, | l’intrepido dubbio, – | che chiama senza voce, ascolta senza udire”. Che cos’è una chiamata senza voce se non l’eco distinto dell’impossibile, dimora d’ogni naufrago?
Che cos’è la nostra innocenza,
che cosa la nostra colpa? Tutti
sono nudi, nessuno è salvo. E donde
viene il coraggio: la domanda senza risposta,
l’intrepido dubbio, –
che chiama senza voce, ascolta senza udire –
che nell’avversità, perfino nella morte,
ad altri dà coraggio
e nella sua sconfitta sprona
l’anima a farsi forte? Vede
profondo ed è contento chi
accede alla mortalità
e nella sua prigionia ti leva
sopra se stesso, come
fa il mare dentro una voragine,
che combatte per essere libero
e benché respinto
trova nella sua resa
la sua sopravvivenza.
Si può dunque sopravvivere, a Flatland, in superficie, con un vedere profondo, che possa, come una leva, intensificare – sollevare, senza prolungare – la vita sopra se stessa? – “come | fa il mare dentro una voragine, | che combatte per essere libero | e benché respinto | trova nella sua resa | la sua sopravvivenza”. Chi osserva il mare agitato dalla linea fissa della superficie, ancorato alla terraferma, al riparo dal vero sentire, lontano dalle correnti e dalla risacca, vorrebbe gridare all’esuberante onda, sciagurato fallimento di fronte all’inamovibile scoglio: così perdi solo tempo, che senso ha la tua testarda insistenza? Se il mare della Moore potesse distrarsi, per un solo attimo, dalla sua spericolata missione, consegnerebbe il suo messaggio in bottiglia: è mai stato il tempo prigioniero delle mie piccole mani? No, nessuno è salvo. Il tempo vince, da sempre. È perso, per sempre. Scivola tra le nostre fragili dita e il nostro tentativo di impugnatura non è che un difetto di saldatura: facciamo acqua da tutte le parti.
Non resta che che tuffarsi in quella macchia blu di sconfitta e coraggio e farsi onda, minuscolo frangente nel mare del tempo. Dal punto di vista della roccia che si erge da milioni di anni, l’agitarsi del mare non ha alcun senso. Oltre qui tu non vai, sembra sbeffeggiare lo scoglio alla schiuma. Eppure, questa convulsione d’acqua e sale che schiaffeggia la pietra, il suo continuo sprofondare, millimetro dopo millimetro, nell’evidenza della fine, scava gallerie atlantiche dentro la scorza dura di un destino comune. Non per fuggirne il corso ma per intensificarlo, per farsi largo, per dare una forma e un senso a questa Terra di mezzo, tra l’inizio e la fine, gli anni di un miracoloso “esistiamo”. Dare forma, farsi largo, trovare una strada come l’embrione che, testardo al pari dell’onda, si fa spazio nell’utero. Così abbiamo iniziato la vita, modellando i limiti della forma per lasciar spazio ad una “venuta”. Così inizia anche l’arte: modellare una forma, lasciare un segno per mostrare, ad altri piccoli frangenti che seguiranno, spinti da dolce ammirazione verso il coraggio di quel primo solco nella roccia, che vedere profondosignifica scavare, era dopo era, sentieri senza meta nel cuore pietrificato della miseria.
Vivere la vita più intensa per sentire che, dunque? Per arrivare dove? Chiede soddisfatto chi non è mai naufragato. Per inseguire l’eco impossibile di una “chiamata senza voce”, la vibrazione dell’eterno che scuote le pareti della roccia, che squarcia la superficie della Flatland. Qualcosa è andato perduto, qualcosa è perso da sempre, come il tempo, come la voce assente nella chiamata. Non si tratta di opporre la gioia di un presunto ritrovamento alla sofferenza della perdita, ma di opporre la gioia alla misera soddisfazionedi chi non vive la perdita, di chi non sente ma è solamente entertained. Ci si può stancare di vivere, ma non ci si stancherebbe mai di gioire. Vivere la vita più intensa possibile significa allora anche, e soprattutto, vivere la perdita, vivere naufragando, lontano dalla terraferma, sentire la mancanza che sta alla base del desiderio e della gioia. Sentire fortemente:
Così colui che sente fortemente
si comporta. L’uccello stesso,
che è cresciuto cantando, tempra
la sua forma e la innalza. È prigioniero,
ma il suo cantare vigoroso dice:
misera cosa è la soddisfazione,
e come pura e nobile è la gioia.
Questo è mortalità,
questo è eternità.
Per alcuni anni ho pensato che si potesse, in qualche modo, afferrare il pasticcio amorfo della vita e che lo si potesse ammirare dall’esterno, con lucidità, come un botanico ispeziona una manciata di tuberi. Mi sembrava che la questione centrale della profondità fosse legata all’intento di vederci chiaro. Ultimamente, mi convinco sempre più che il problema di noi Flatlandiani non sia quello di accumulare conoscenze più o meno verificabili, o di esplicare e interpretare contenuti più o meno digeribili, come suggerito dai quattro direttivi museali. Il nostro problema, semmai, è quello di recuperare la capacità sempre più compromessa di un profondo vedere e di un forte sentire, al limite della superficie. Vedere profondo, credere nella verità. Nessuno è salvo, non esistevamo e non esisteremo, Seneca e la Moore hanno ragione. Ma, come aveva intuito Derrida, si deve forse credere a questa verità senza “obbedire a essa”[4], come il mare agitato della Moore. Si deve sentire fortemente per continuare a cercare, nella “prigionia” della superficie, una modalità di sopravvivenza. Vedere e sentire la piega, il paradosso, la contraddizione: “Questo è mortalità, questo è eternità”.
[1] J. Derrida “Sono in guerra contro me stesso”, Aut Aut 324/2004. Si segnala al lettore anche la ripubblicazione dell’intervista ne In guerra con me stesso. Due conversazioni con Jacques Derrida a cura di R. De Benedetti, Medusa Edizioni, 2018
[2] L. A. Seneca “Intrepidezza di fronte alla morte”, Libro VI n. 54,in Lettere morali a Lucilio, Milano, Mondadori, 2004
[3] M. Moore, “Che cosa sono gli anni” in Le poesie, a cura di L. Angioletti e G. Forti, Milano, Adelphi, 1991
[4] “Da Platone in poi, ecco l’antica ingiunzione della filosofia: filosofare è imparare a morire. Io credo a questa verità senza obbedire a essa. Sempre meno. Non ho imparato ad accettarla, la morte. Siamo tutti dei sopravviventi in rinvio” J. Derrida, Op. cit. (2004)
In copertina: Philip Guston, Riding Around, 1969