«In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque». Così inizia il racconto biblico della Genesi. Più avanti leggiamo che Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. Poi disse: «Sia il firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque». Così il firmamento fu e le acque si separarono. E poi Dio raccolse anche le acque che erano sotto il cielo e fece apparire l’asciutto e poi via via creò tutto il resto.
È un racconto bellissimo. Che mostra con un’efficacia ineguagliabile il rapporto tra spazio e linguaggio. Dio crea il mondo attraverso il linguaggio. Crea la luce, il cielo, il mare e la terra attraverso la parola che li nomina. «Il linguaggio è la casa dell’essere», recita una celebre frase di Martin Heidegger. E in questa casa costruita dal linguaggio abita l’uomo, dice ancora il filosofo. Questo non significa che il mondo è una creazione del linguaggio, ma significa che il mondo che si può abitare è definito dal linguaggio. Lo spazio non esiste già, a priori, ma si produce. E il medium più originario per produrlo è, appunto, il linguaggio, che ci permette di nominare e così rendere esistenti le cose. Ma ovviamente il linguaggio non crea le cose, bensì le rivela. Ovvero «l’uomo “crea” il suo territorio dando un nome alle “cose” che ci sono».
Così scrive Bruce Chatwin in un affascinante libro del 1987, che è insieme un romanzo, un diario di viaggio e un saggio. Si intitola The Songlines ossia – in italiano – Le Vie dei Canti. E parla, tra le altre cose, del mito della creazione nella cultura aborigena dell’Australia. Questo mito narra di leggendari antenati che in un lontanissimo Tempo del Sogno «avevano percorso in lungo e in largo il continente cantando il nome di ogni cosa in cui si imbattevano – uccelli, animali, piante, rocce, pozzi –, e col loro canto avevano fatto esistere il mondo». È così che nascono Le Vie dei canti, un labirinto di strade invisibili, note soltanto a chi ne conserva la tradizione.

Anche qui il canto che genera il mondo non si trova di fronte al nulla. Quando la creazione ha inizio ci sono già il cielo e i suoi abitanti, lontani, indifferenti, al di fuori del tempo; ci sono già il mare salato e la Terra, che però non era ancora il mondo, bensì una distesa senza confini, una massa di materia dotata di estensione ma non ancora di forma. Poi gli Antenati si risvegliarono dal loro sonno, e iniziarono a camminare e a chiamare le cose alla vita nominandole e componendo versi con i loro nomi: «percorsero tutto il mondo cantando; cantarono i fiumi e le catene di montagne, le saline e le dune di sabbia», lasciando dietro di sé orme di musica e di parole. E tracciando così un «dedalo di sentieri invisibili che coprono tutta l’Australia» e fungono «da “vie” di comunicazione fra le tribù più lontane». Per gli aborigeni solo conservando la memoria di quei canti si conservano queste possibilità di percorrere il mondo. Quei canti sono anche descrizioni di strade che bisogna percorrere continuamente perché non spariscano, come può sparire un sentiero nel bosco se non viene percorso per molto tempo.
La bellezza e saggezza di questo mito stanno nel dirci che lo spazio non esiste di per sé, ma viene creato attraverso l’attività dell’essere umano, attraverso un movimento e un canto che lo definisce, lo delimita, lo determina. In altre parole, la bellezza e saggezza di questo mito stanno nel dirci che lo spazio non può essere che spazio vissuto, e che può continuare a persistere soltanto se continua a essere praticato.

Così gli aborigeni australiani immaginano che a creare il territorio del loro vivere sia stato il movimento degli antenati, il movimento del loro corpo e del loro canto, il ritmo delle loro gambe e della loro voce. Lo spazio è immaginato come lo spazio di un passaggio, non come spazio delimitato da confini. Chatwin ricorda che gli aborigeni «non potevano immaginare il territorio come un pezzo di terra circondato da frontiere, ma piuttosto come un reticolato di “vie” o “percorsi”». E ricorda anche che gli aborigeni con le stesse parole dicono «paese» e dicono «via». Il «paese» appare ogni volta soltanto lungo la «via». Esiste soltanto quando viene percepito nel cammino reso possibile dal canto che lo ha creato. Perciò il canto è una pratica memoriale collettiva, da cui dipende la persistenza del territorio. «Gli aborigeni credono che una terra non cantata sia una terra morta», scrive ancora Chatwin. Sono i canti che fanno la terra. Anzi «il canto e la terra sono tutt’uno».
La terra è tutt’uno con una performance poetica che permette di percorrerla e di attualizzare il movimento che l’ha prodotta. Si dischiude in primo luogo attraverso il movimento del corpo, ma acquista permanenza soltanto attraverso il canto che la nomina. Perché si generi uno spazio, ci deve essere un movimento, certo, ma sempre seguito da un atto di nominazione che identifica le cose e i luoghi percepiti nel passaggio.
Ma c’è di più, c’è che, affinché questo spazio possa essere uno spazio comune al di là delle barriere linguistiche, questa nominazione non può affidarsi propriamente ai nomi. È uno dei punti più belli di questo mito: per il quale, in fondo, non sono i nomi a istituire i luoghi e a organizzare lo spazio, altrimenti non si spiegherebbe perché un aborigeno possa riconoscere la regione descritta da canti di cui non comprende le parole. A descrivere il tipo di terreno su cui passa il canto è infatti l’andamento melodico, indipendentemente dalle parole: «Si crede che certe frasi musicali, certe combinazioni di note, descrivano che cosa fanno i piedi dell’antenato. Una frase dirà: “Salina”, un’altra: “Letto di Torrente”, “Spinifex”, “Duna”, “Boscaglia di Mulga”, “Parete di Roccia” e così via. Dall’ordine in cui si succedono, un esperto uomo-del-canto saprà dire quante volte il suo eroe ha attraversato un fiume o valicato una catena di montagne, e sarà anche in grado di calcolare in che punto di una Via del Canto si trovasse e quanta ne avesse percorsa».

Il canto è la mappa di un cammino. Il camminare diventa un atto di enunciazione musicale: nel senso che produce frasi musicali le quali descrivono «ciò che fanno i piedi», cioè disegnano figure podistiche che corrispondono alla conformazione del territorio. Così lo spazio geografico prende forma nell’ascolto, può essere letto «come uno spartito». È la melodia a disegnarlo, perciò tribù che parlano lingue diverse possono condividere un’unica topografia culturale. Che è una topografia poetica, perché si affida a un linguaggio che è fatto di parole, ma ancora di più del ritmo che le accende. È un altro momento affascinante del racconto di Chatwin: l’idea che gli antenati che danno vita al mondo percorrendolo e cantandolo siano «stati poeti nel significato originario di poiesis, e cioè “creazione”».
E se alla base di ogni cartografia del mondo ci fosse un atto poetico? Forse, dice Chatwin, Le Vie dei Canti non sono «necessariamente un fenomeno australiano», ma piuttosto un «modello originario» di cui tutti gli altri sistemi topografici elaborati nel corso della storia costituiscono varianti – o perversioni. Forse davvero all’origine c’è la poesia, che istituisce l’essere e lo spazio. Forse ogni rappresentazione geografica della terra continua a essere sottesa da una mappa invisibile fatta dei segni, delle tracce, delle voci che gli esseri umani del passato hanno lasciato lungo i loro percorsi. Sarebbe come una memoria silente, ma non inoperosa che copre ogni luogo.
Così Chatwin vede Le Vie dei Canti spaziare «per i continenti e i secoli; uomini che hanno lasciato una scia di canto (di cui ogni tanto cogliamo un’eco) ovunque sono andati». È una visione molto suggestiva: un reticolo di canti che si dipana su tutto lo spazio e il tempo del mondo, e non cessa di tracciare itinerari e territori, di creare e comporre spazi, variando orientamenti e riferimenti, prospettive e localizzazioni e orizzonti. Sotto e dentro lo spazio della geografia politica, economica, sociale, che è strutturato da confini e ripartizioni, non smetterebbe di dispiegarsi un’altro spazio, esistenziale, poetico, prodotto dai movimenti e dai canti degli esseri, dalla musica di azioni e di emozioni che essi diffondono nel mondo. È questo lo spazio parlato dall’arte, dal canto, dal teatro, lo spazio da cui l’arte, il canto, il teatro, la letteratura si lasciano parlare, declinando le infinite possibilità di attraversare e abitare il mondo.
(L’articolo riproduce, con lievi modifiche, il testo di un intervento letto nella sesta puntata del programma Specie di spazi condotto da Fabio Condemi e trasmesso da Radio India dal 7 aprile al 10 luglio 2020)
In copertina: Bruce Chatwin
Fig. 1: Narrkalpa (Hunting Ground), 2013, by Kumpaya Girgirba, Yikartu Bumba, Kanu Nancy Taylor, Ngamaru Bidu, Janice Yuwali Nixon, Reena Rogers, Thelma Judson and Nola Ngalangka Taylor, from Martu country in the Western desert. Ph: National Museum of Australia
Fig. 2: Kungkarrangkalpa Tjukurrpa, 2015, by Anawari Inpiti Mitchell, Angilyiya Tjapiti, Mitchell, Lalla West, Jennifer Nginyaka Mitchell, Eileen Tjayanka Woods, Lesley Laidlaw and Robert Muntantji Woods, from the NPY region. Ph: National Museum of Australia
Fig. 3: Kungkarrangkalpa Tjukurrpa, 2015, by Anawari Inpiti Mitchell, Angilyiya Tjapiti, Mitchell, Lalla West, Jennifer Nginyaka Mitchell, Eileen Tjayanka Woods, Lesley Laidlaw and Robert Muntantji Woods, from the NPY region. Ph: National Museum of Australia