Ancora una spinta dal trampolino. Giovanni Fontana in mostra

È intorno all’esplorazione del concetto di intermedialità e del testo come organo vivente che si articola il progetto di Giovanni Fontana Epigenetic Poetry allestito a Marsiglia (al CIPM, Centre International de Poésie Marseille) all’interno del programma Parallèles du Sud di Manifesta 13 e visibile fino al 20 dicembre. Nato dalla collaborazione tra la Fondazione Bonotto e Alphabetville col sostegno dell’Italian Council, e curato da Patrizio Peterlini col supporto iniziale di Julien Blaine, il progetto si traduce in una grande installazione dove si saldano gli esiti della scena storica e contemporanea della poesia sonora, di cui Fontana è da oltre trent’anni un protagonista. Da qui prende le mosse il dialogo con l’artista, avvenuto alla vigilia dell’inaugurazione.

Lei viene abitualmente definito come uno dei più importanti esponenti della poesia sonora a livello internazionale. Ci vuole spiegare innanzitutto cosa si intende per poesia sonora?

Il termine «poesia sonora» si riferisce a qualcosa di molto preciso. La definizione si applica a una forma poetica emersa più o meno alla metà degli anni Cinquanta, quando il magnetofono – la cui circolazione era stata fino ad allora ristretta – comincia a diffondersi. Grazie al nastro magnetico diventa possibile «scrivere la voce», ritrovare l’oralità in una modalità non tradizionale, disporre di strumenti nuovi di composizione poetica. In parallelo la poesia sonora si rivolge verso un’altra direzione, impegnando lo spazio-tempo in una dimensione performativa. Per questo Paul Zumthor, grande studioso di oralità e vocalità, a proposito della poesia sonora parla anche di poesia dello spazio.  In questo contesto non tutti i percorsi si somigliano: poeti come François Dufrêne o Henri Chopin si impadroniscono del magnetofono per creare composizioni direttamente su nastro e per ampliare le loro prestazioni in chiave performativa, mentre Bernard Heidsieck approda al nastro magnetico partendo dal testo – un «testo-trampolino», come lui stesso lo ha definito.

In che modo il progresso tecnologico e la rivoluzione mediatica hanno trasformato la poesia sonora?

Le nuove tecnologie, in particolare i software, hanno avuto un impatto enorme sulla poesia sonora. La manipolazione dei file di registrazione ha aperto possibilità immense e consente una rapidità e una complessità impensabile agli esordi. Allora si usavano apparecchi analogici e per una composizione della durata di un solo minuto ci volevano giorni di lavoro: bisognava applicare procedimenti complicatissimi, come, per esempio, il taglio e il montaggio di frammenti di nastro. Oggi una composizione di 15-20 minuti si realizza in un tempo molto minore, con risultati straordinari ed effetti sorprendenti. Pensiamo alla spazializzazione del suono: grazie ai software il suono può provenire da punti diversi, può simulare paesaggi sonori strisciando a terra, piombando dall’alto, penetrando dai lati. Di conseguenza il campo si è ampliato e continua a crescere, l’elettronica viene insegnata nei conservatori e i programmatori realizzano software sempre più sofisticati, che nelle mani dei creatori di suono diventano una grande tavolozza sonora. E ovviamente il salto tecnologico è accompagnato da un salto mediatico: il pubblico cambia, trasformando il rapporto tra artista e ambiente con un effetto di vortice che porterà altre evoluzioni.

Com’è composto oggi il pubblico della poesia sonora?

In realtà non è un pubblico definito: ci sono i collezionisti, gli appassionati, il pubblico legato alla didattica, dato che spesso le performance di poesia sonora si tengono nelle università e nelle accademie. E poi il pubblico che segue i festival di performance, dove oltre ai poeti si incontrano artisti che provengono dalla danza o dalle arti visive, e infine, naturalmente il pubblico dei festival di poesia propriamente detti. In ogni caso il poeta sente l’influsso dell’audience, collabora con chi ascolta, a volte gli chiede un intervento sonoro: come quando Arrigo Lora Totino ha domandato al pubblico di stropicciare della carta o io stesso in una mia performance ho sussurrato testi all’orecchio di ciascun membro del pubblico – una performance che adesso, in tempo di covid, non potrei riproporre.

La mostra che si tiene ora al Centre International de Poésie Marseille, Epigenetic poetry, adotta un termine scientifico che lei usa da tempo, appunto «epigenetica», cioè lo studio delle mutazioni ereditabili ma non connesse a mutazioni genetiche (iscritte nel Dna). Come si declina la mutazione in poesia?

Per la poesia sonora l’epigenetica è un riferimento fondamentale, che parte da un’osservazione immediata: il testo – anzi, come preferisco definirlo, il pre-testo – esce trasformato e arricchito dalla performance, e quindi, pur restando uguale nella scrittura, non sarà più lo stesso. Come nel jazz abbiamo una struttura armonica e una melodia di base, su cui si innesta l’improvvisazione, che è legata a quel preciso momento, ma si riverbererà nuovamente quando quel brano sarà rieseguito, così avviene nella poesia sonora. Ecco perché non possiamo non parlare di mutazione, una mutazione trasmissibile, “ereditabile”, proprio come nell’epigenetica.

In cosa consiste allora il processo di scrittura nella poesia sonora?

La scrittura della poesia sonora ha una dimensione proiettiva, perché deve prevedere gli esiti performativi, deve considerare gli sviluppi sonori e tener conto del corpo stesso dell’autore, della sua gestualità e delle sue capacità tecniche. Anche nella scrittura teatrale abbiamo un’apertura verso lo spazio futuro, ma si tratta di un’apertura mirata alla auspicabile riproduzione di quel testo. Qui il poeta, mentre propone quel testo, propone il suo proprio corpo, qualcosa che esclude una replicazione. Faccio un esempio concreto: in Ionisation Adriano Spatola batteva su di sé il microfono – un gesto che tutti possiamo compiere. E tuttavia della performance di Spatola facevano parte, in modo inseparabile dal testo, il suo grosso ventre, il suo dire affannoso, il suo volto sudato.

Quindi, considerando che ogni corpo non è mai uguale a se stesso, potremmo dire che ogni performance di poesia sonora è irriproducibile e unica.

È proprio così: l’elemento del “qui e ora”, dell’assoluta unicità di ogni performance, è fortissimo. E quando il poeta viene a mancare, dobbiamo fare i conti con una perdita irreparabile. Certo, le riproduzioni tecnologiche ci consentiranno di rivedere quella performance, ma non sarà più la stessa cosa.

A proposito di visualità, come si è evoluta nel tempo la sua vasta produzione di poeta visivo?

Il mio lavoro poetico è stato alimentato da radici che affondavano nelle arti visive. Ho cominciato giovanissimo a praticare la pittura. Quasi immediatamente sono nati anche gli interessi per la scrittura, per il teatro, per la musica. Dopo in primi tentativi, del tutto isolati, di mettere insieme parola e immagine, ho scoperto la poesia visiva ed ho cominciato a muovermi in un ambiente particolarmente ricco di sollecitazioni teoriche e creative, sulle quali sono riuscito ben presto a costruire i miei percorsi di studio. Dopo le prime esperienze di poesia concreta, ho praticato la poesia visiva guardando al Gruppo 70, ma immediatamente dopo ho tirato in ballo nelle mie ricerche la dimensione teatrale e quella sonora attraverso l’uso di notazioni musicali. Ne è venuto fuori Radio/Dramma, a cavallo tra il ’68 e il ’70, pubblicato poi con l’etichetta Geiger nel 1977. Arrigo Lora Totino lo definì «un poema-partitura, con battute visuali». Successivamente, anche attraversando territori apparentemente diversi, sia sotto il profilo tecnico che mediatico, il denominatore comune del mio lavoro è sempre stato legato al ritmo, secondo un’ottica compositiva, ancorato all’organizzazione e alla scansione degli elementi in chiave musicale, sonora, anche approdando nell’asemantismo, facendo sì che il significante valesse di per sé, come nella musica. Musica per gli occhi, si potrebbe dire, ma non solo, come nelle tavole di La voix et l’absence [1989] o nella Suite elettrografica [1998], nei libri d’artista come Il Libro dei labirinti [1997] o i Manuali di fonetica tridimensionale [2009-2013] o come nelle numerose serie di lavori intitolate Sound poems, Partitions, Canti, Chansons, Voci, Musik, fino ai recenti Songs e alle grandi partiture realizzate per Epigenetic Poetry a Marsiglia.

Negli anni lei ha collaborato con molti poeti, artisti, musicisti, da Adriano Spatola a Nanni Balestrini a Ennio Morricone. Come si pongono fra loro in relazione autorialità individuale e dimensione collettiva? E in particolare per Spatola, quanto ha influito sul suo percorso la collaborazione con lui?

La collaborazione avviene quando esiste sintonia, riconoscimento reciproco, interessi comuni. Quanto a Spatola, in lui ho trovato un fratello, perché è stato il primo a conoscere e a valorizzare certe caratteristiche del mio lavoro, a introdurmi in un ambiente culturale grazie al quale ho avuto le intuizioni che hanno segnato quello che ho fatto in seguito. In una parola, senza di lui io non sarei quello che sono adesso. Ad Adriano ho voluto dedicare molto tempo negli ultimi anni, per sottolinearne la statura e il ruolo secondo me fondamentale nella cultura del secondo Novecento: ho curato l’edizione spagnola di Verso la poesia totale [Hacia la poesía total – Ed. L.U.P.I., Sestao, Bizkaia, 2018], la mostra Da zero ad infinito a Roma, con Piero Varroni, tra dicembre 2018 e il febbraio 2019, la pubblicazione del vinile Ionisation, per le edizioni Recital di Los Angeles [2019] ed infine il volume Opera, un progetto editoriale di dia•foria, in collaborazione con dreamBOOK Edizioni [2020], che offre per intero tutte le raccolte di Adriano Spatola, con l’aggiunta di testi extravagantes e di sezioni dedicate ai lavori di poesia fonetica, concreta e visiva, oltre ad una rassegna audio in CD, che documenta l’attività sonoro-performativa del poeta.

In un certo senso glielo dovevo.

Una versione più breve di questa intervista è uscita sul “manifesto” il 25 settembre 2020

Leggi anche: Poema Bonotto, trama delle corrispondenze, di Giovanni Fontana

In copertina: Giovanni Fontana in performance a Roma, ph. Marco Palladini

Maria Teresa Carbone

Giornalista, autrice e traduttrice, ha coordinato la redazione della rivista online «alfabeta2» dal 2014 fino alla sua chiusura, nel settembre 2019. In precedenza ha diretto la sezione Arti del settimanale «pagina99», ha lavorato alle pagine culturali del quotidiano «il manifesto» e ha curato alcune edizioni del festival romapoesia. Da diversi anni si occupa di promozione della lettura in Italia e all’estero. Il suo libro più recente, “111 cani e le loro strane storie”, è uscito nel 2017 per Emons e l'anno successivo è stato tradotto in tedesco.

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