Glossario

10/10/2020

Insegna luminosa

Kaloderma, Splugen, Riello, Pura Lana Vergine, Cora, Cinzano. Si distinguono queste insegne al neon sui palazzi, lo sfondo di una foto a Wrapped Monument a Vittorio Emanuele di Christo, in Piazza del Duomo a Milano nel 1975. Le insegne neon sono come delle iscrizioni, delle epigrafi, come le tavole della legge, coi suoi ordini – Bevete Coca Cola!. Mi sono immaginato spesso di stare ai piedi di una grande insegna col rumore moderno dei trasformatori e sotto il cono di luce artificiale e sguaiata dei neon, in una città vuota.

Superfici dorate, lucide, riflettenti, specchianti

Il mondo si divide in lucido e opaco, per anni sono stato per l’opaco, ma un giorno, non ricordo quando, il lucido mi si è presentato in modo differente. L’opaco di norma starebbe in un ambito più riflessivo, lunare, avveduto contrariamente al lucido, più sfacciato e frivolo. Anche se la nuova moda delle auto sembra ribaltare la cosa, da sempre lucide ed oggi nei modelli più audaci, opache, che prima era esclusività delle auto di servizio dei militari, delle Uno verde oliva dell’EI, l’Esercito Italiano. Ma le superfici del retro, i loro interni, non sono superfici anonime, hanno uno status di supporto, di specchi o scatole di dolciumi o cartelli di latta metallici che inscenano una serie di immagini proprio perché sono oggetti non anonimi, proprio perché hanno un rapporto eterno con la loro parte “nobile”, quella “giusta”, che appartiene a territori ambigui, di vanità e di cose rese pubbliche, da rendere pubbliche per acquistare notorietà. Questa loro doratura, lucentezza, il loro riflettere e specchiare ha una intensità e una composizione che trovo in sintonia con la mia psicologia, ha un “significato estetico” importante.

Muro dipinto

Il muro della strada dipinto è forse l’operazione più difficile da affrontare oggi in arte. L’opera resta e raccoglie lo sguardo dei cittadini nel quotidiano, senza preamboli e cornici. L’immagine nuova è generalmente accettata se si inserisce in una serie, in una linea creativa che la Street Art ha fatto sua. Un po’ come quando c’è la Biennale di Venezia, i locali la tollerano, ci può essere qualsiasi cosa che si rassicurano: «è una cosa della Biennale», cioè è inquadrata in una precisa situazione a scadenza, ricorrente, come viene se ne andrà. Più difficile invece se sui muri c’è qualcosa di diverso, di non codificabile e inquadrabile sia perché la società legge sempre in modo letterale (un po’ come gli integralisti leggono il Corano), sia perché è abituata a vedere la pubblicità sui muri, sia perché cerca sempre un significato chiaro, e in fondo perché non sa che «l’arte è arte». Ma è fuori dubbio il potere di queste immagini che escono dal museo, ma che per sopravvivere devono anche sempre scendere a compromessi, perché generalmente vengono calmierate, sono sofisticate nel senso di alterazione. I murali (sono chiamati sempre murales con la s finale per via di quella idea che si portano dietro di sociale, a tinte socialista da America Latina e anche un po’ Sardegna), che preferisco chiamare muri dipinti, hanno varie caratteristiche, perfette per misurare la temperatura attuale. Poco adatte alla commercializzazione, con una natura pubblica, con l’anima della pittura, l’Arte/Lavoro per eccellenza, sembrerebbe che incarnino proprio una definizione del ruolo delle opere d’arte che ha dato Arthur Danto: «hanno esteriorizzato un modo di vedere il mondo, esprimere l’interiorità di un periodo culturale e offrire se stesse come uno specchio per cogliere la coscienza dei nostri re».

Mobile impiallacciato e torri

La questione dell’arredo è sempre stata una cosa seria in famiglia, ma non perché fosse un vezzo, una passione, ma perché nella casa borghese era un compito, un incarico increato, una responsabilità sociale. Del mio passato ricordo sempre i mobili delle stanze, vere e proprie bussole capaci di dare misure, proporzioni agli ambienti, mettere a fuoco i momenti, dare veridicità alle situazioni. Più dei pavimenti e dei lampadari, i mobili sono le anime scure che mi parlavano, sono dei riferimenti sentimentali. C’è sempre stato un avvicendamento di mobili nella mia vita che hanno seguito più i turbamenti spirituali che le idee. Gli ultimi che ho a casa non funzionano tanto, le porte non chiudono completamente, tanto sono stati rimaneggiati, riadattati e con qualche tentativo di forzato arrangiamento a soddisfare certe idee e immagini trascurando il loro compito. Sono sempre mobili trovati come quelli che tento di presentare come opere d’arte (perché solo l’arte può includere questo tentativo di rappresentazione). Mostro parti smembrate, pezzi che ne presuppongono altri, accostamenti, nuovi intarsi spontanei, che incarnano un’idea di spirito, cercano di esprimere una lingua visiva che tenta di stare in equilibrio fra lo sbrogliarsi dalla matassa psicologica della famiglia e da quello che rappresenta e un rigetto composto. Una matassa, un corpus fatto di forme, ombre, abitudini e oggetti, idee e sguardi, orazioni e posture, cartoline e documenti fiscali. Questi mobili/contenitori devono essere prima “trattati”, aperti e scassati, disossati nelle ferramenta e mondati, quasi scuoiati così che ci si possa addentrare anche nel retroscena del lavoro artigianale, una gran organismo, per poi procedere alla loro investitura.

Cartoni

Le scatole di cartone che contengono prodotti diventano subito scarti nonostante ci sia uno studio e un gran lavoro attorno a questi progetti. Sono involucri seriali marroni con la marca-logo-scritta monoclore, raramente a due colori. Si trovano nella spazzatura che oggi è sempre più interdetta, le discariche sono off-limits, i bidoni della carta sigillati; bisogna chiedere in anticipo al Responsabille del Gran Supermercato di potere scegliere le carcasse di cartone e meglio dire che servono per il trasloco, anche i Responsabili potrebbero avre certi sospetti. La scatole “smontate”, appiattite diventano superfici lisce coi segni delle pieghe, delle scritte, delle abrasioni regolari del nastro adesivo scollato. Sono segni lineari, regolari, ritmici e formalmente rassicuranti. In alcuni, oltre al nome-logo, c’è anche lo slogan, una sentenza che non vuole mai dire nulla, ma per questo misterica, profetica. Nonostante siano marchiati, danno un senso di quasi anonimato; è l’unico prodotto di qualità che si può possedere senza spendere soldi. Trovo composti e gentili questi disegni sequenziali, che su fondo “marron” diventano scarichi, sommessi, emarginati. Agenti dell’abbondanza, i cartoni, nonostante l’apparenza, sono eterni.

Settembre 2020

Leggi anche: Flavio Favelli, brividi d’aura, di Andrea Cortellessa e Alcune parole di Flavio Favelli, di Pietro Gaglianò

Flavio Favelli

(Firenze, 1967), dopo la Laurea in Storia Orientale all’Università di Bologna, prende parte al Link Project (1995-2001). Ha esposto con progetti personali al MAXXI di Roma, al Centro per l’Arte Pecci di Prato, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, alla Maison Rouge di Parigi e al 176 Projectspace di Londra. Partecipa alla mostra “Italics” a Palazzo Grassi nel 2008 e a due Biennali di Venezia: la 50a (“Clandestini”, a cura di Francesco Bonami) e la 55a (Padiglione Italia a cura di Bartolomeo Pietromarchi). Nel 2008 realizza “Sala d’Attesa”, ambiente permanente nel Cimitero Monumentale della Certosa di Bologna che accoglie la celebrazione di funerali laici. Nel 2015 l’opera “Gli Angeli degli Eroi” viene scelta dal Quirinale per commemorare i militari caduti nella ricorrenza del 4 Novembre. Tra i suoi ultimi progetti “Senso 80” (Albergo Diurno Venezia di Milano, 2017); “UNIVERS. Un negozio metafisico” (Venezia, 2017); “Serie Imperiale” (Casa del Popolo ed ex miniCoop di Bazzano, 2018), vincitore della seconda edizione di Italian Council; “Il bello inverso” (Ca’ Rezzonico, Venezia, 2019). Il suo ultimo libro è “Bologna la Rossa” (Corraini 2019).

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