Le parole hanno o non hanno potere d’illusione.
Hanno valore in se stesse
Antonin Artaud
Gli artisti visivi, soprattutto di recente generazione, hanno sempre maggiore familiarità con la scrittura, vuoi per l’incidenza continua di bandi di qualsiasi tipo ai quali concorrere vuoi perché l’abilità nell’argomentare testualmente la propria ricerca sembra ormai indispensabile alla tenuta della ricerca stessa. Molto più raro è che questa scrittura si trasformi in una lingua letteraria con uno stile personale, una maturità della composizione e una specificità del lessico che rendano la scrittura riconoscibile come parte dello stesso orizzonte estetico in cui si muove l’artista. È questo il caso di Flavio Favelli, un artista che potrebbe essere anche uno scrittore. Oppure un artista che nella sua complessità include la parola scritta e la narrazione verbale come forma propria e non ausiliaria, una forma parallela alle opere e strettamente legata a esse ma anche autonoma, godibile senza il bisogno di trovarla descrittiva né funzionale.
In questo breve glossario rizomatico Favelli sceglie alcune parole associate alle opere realizzate per la mostra ma l’oro, il mobile, il cartone e l’insegna luminosa sono solo il punto di spicco per una riflessione che corre parallela alla parte visibile del lavoro. La scrittura rivela l’artista al centro dell’architettura di riferimenti e nostalgie, di condizionamenti, ossessioni e predilezioni che percorrono tutta la sua opera. Leggere quello che Flavio scrive a proposito della lucentezza dei materiali o della bellezza «composta e gentile» dei cartoni non porta a una spiegazione delle sue scelte poetiche; apre semmai un ulteriore spazio di riflessione, più accessibile nel suo essere discorsivo ma non didascalico. Le parole di Favelli sono come gli oggetti, le carte e le parti di mobili assemblate nelle sue opere: ognuna può essere connessa al lettore (o all’osservatore) e può illuminarlo improvvisamente in quella condizione d’eccezione che è l’esperienza dell’arte, quando la realtà che si ritiene solida e impassibile viene deragliata da un’accelerazione dei sensi, dell’immaginazione e dell’intelletto. Ma sappiamo già che la comprensione derivata da questo incontro non somiglia a un prontuario di istruzioni.
Ecco perché a leggere i lemmi che seguono invano ci si potrebbe aspettare una mappa del labirinto, una legenda per decodificarlo e uscirne intatti. Non è all’artista che bisogna chiedere il capo del filo di Arianna. Antonin Artaud lo scriveva a proposito del teatro, dichiarando che l’importante, in definitiva, è questo: «la formazione di una realtà, l’irruzione inedita di un mondo»; il teatro, e ogni espressione artistica non finzionale, non propagandistica, non tesa all’intrattenimento, «deve darci questo mondo effimero ma vero, questo mondo tangente al reale»[1].
In questo mondo, che non imita il vero e non intende giustificarlo, la mappa possiamo comporla solo noi che leggiamo, noi che guardiamo.
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In copertina: Flavio Favelli, Grande Guardaroba, 2020 (dettaglio) ph. Serge Domingie©
[1] Antonin Artaud, Il teatro Alfred Jarry, 1926.