È appena uscito Luca Vitone. Il Canone (All Around Art, pp. 84, € 20), pubblicato in occasione della residenza dell’artista in corso sino al 18 ottobre all’Abbazia di Valserena di Parma, sotto l’egida dall’Archivio-Museo CSAC (Centro Studi e Archivio della Comunicazione) dell’Università di Parma. È la seconda (dopo quella di Massimo Bartolini e prima di quella di Eva Marisaldi) della serie Through time: integrità e trasformazione dell’opera, realizzata in occasione di Parma Capitale Italiana della Cultura 2020. Vitone era già stato ospite dello CSAC nel 2017, nell’ambito del progetto #GrandTourists: «entrare nell’archivio del Csac è come immergersi in un mare tropicale, di quelli noti per lo snorkeling. Impossibile non rimanerne affascinati, anche se non si riconoscono i pesci si è frastornati dai colori, dalle forme e soprattutto dalla quantità di animali da osservare. […] Ma c’era una cosa che mi tornava sempre alla mente: un furgone bianco, parcheggiato nell’angolo più lontano del piazzale, come fosse abbandonato, stava lì con la sua scritta sulla portiera Università di Parma a testimoniare il suo ruolo passato». Il Canone è un omaggio al concetto stesso di archivio, a partire proprio dall’icona del furgone, utilizzato fino all’inizio degli anni Zero dallo CSAC per il trasporto di opere e archivi. L’automezzo è stato allestito nella navata centrale della Chiesa abbaziale, insieme a una serie di lavori e progetti selezionati dall’artista con un criterio del tutto personale. Nell’ottica concettuale di Vitone, il furgone rimanda infatti all’opera Das Rudel di Joseph Beuys (1969), nella quale 24 slitte in legno fuoriuscivano da un vecchio furgoncino Volkswagen. E sono infatti 24 le opere e gli oggetti da lui selezionati, in allusivi collegamenti con episodi della sua biografia e autori che hanno segnato la sua formazione. Dal volume, per la cortesia dello CSAC, dell’editore e degli autori, proponiamo il saggio di Stefania Zuliani (in calce al quale figura anche l’elenco delle opere e degli oggetti “canonizzati” da Luca Vitone). Informazioni e prenotazioni: info@csacparma.it.
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La felicità si basa sulla conoscenza delle meteore
Karl Marx
Louis-Auguste Blanqui nella pagina d’esordio de L’éternité par les astres (1872) sceglie di introdurre la sua teoria dell’universo e dell’infinito, una mirabolante denuncia contro ogni illusione di progresso – «l’universo si ripete senza fine, e scalpita senza avanzare»[1] – citando, ed è, forse, un ulteriore motivo di stupore, Blaise Pascal: «“L’universo è un cerchio, il cui centro è ovunque e la cui circonferenza in nessun luogo”. Quale immagine più impressionante dell’infinito?»[2]. Davvero, quale immagine può restituire meglio il senso di smarrimento che si prova nel considerare – e in questa parola si nascondono, lo sappiamo, stelle senza nome – la forma di uno spazio illimitato, la possibilità di un tempo senza misura? È una inebriante vertigine di senso (dei sensi), una fantasmagoria secondo Benjamin che, con Borges, è stato tra i pochi ed entusiasti lettori di questo testo persino inqualificabile, è un’irresistibile visione a cui il rivoluzionario, ormai vecchio ma per nulla rassegnato, ha voluto dare forma durante la prigionia a Fort de Taureau, nella convinzione che se non «v’è nulla di nuovo sotto i soli», è altrettanto vero che «l’universo non rimane mai immutabile né immobile. Al contrario, si modifica incessantemente»[3]. Un movimento perenne a cui non è possibile sottrarsi, una trasformazione che richiede ogni volta risposte, prese di posizione, definizioni e limiti che sappiano arginarne, senza per questo negarla, l’energia irrefrenabile, dandole di volta in volta un nome, un perimetro, un confine, ovviamente da violare e da riscrivere. Perché l’eternità è anche un compito e un progetto e l’infinito è la necessaria condizione del presente, del qui ed ora.
Di questo apparente paradosso si nutre – o almeno così mi sembra – tutta l’opera, tanto coerente quanto inafferrabile, di Luca Vitone. Perché nella sua inesorabile intelligenza e riconoscibilità, la ricerca di Vitone si sottrae per sua natura all’individuazione di una stabile identità che non sia quella, comunque plurale e inquieta (una maschera, ha detto Derrida), del nome proprio: Io, Luca Vitone. Questo il titolo della grande personale al PAC di Milano nel 2017, una mostra “di mostre” e un catalogo, fatto più che di immagini di pensieri e di sguardi, che insieme restituiscono un autoritratto di gruppo, e non solo perché sono tante e ben selezionate le voci, amiche ed autorevoli, che accompagnano con le loro parole le opere di Vitone. Opere comunque esigenti, poco disposte a esibirsi, che si espongono, piuttosto, al rischio della sparizione – Andrea Cortellessa ha scritto che «se c’è un vettore sotto il quale si può iscrivere la sua traiettoria, è quello di un’estetica della sparizione (per mutuare un titolo di Paul Virilio)»[4]– opere che rinunciano sovente alla permanenza, al peso della materia dilatandosi però (perciò) ben oltre le dimensioni dell’oggetto, diventando esperienza e memoria (addirittura Per l’eternità, 2013), suono e odore, temperatura emotiva e informazione. Perché Vitone, che nulla concede all’immediatezza dell’evidenza e che consapevolmente richiede a chi incontra le sue opere tempo, attenzione, partecipazione, è poi sempre generoso nel fornire al pubblico indicazioni e direzioni. Anche quando sembrano sfiorare la tautologia, i titoli che l’artista attribuisce alla sue opere sono, infatti, delle precise dichiarazioni, delle istruzioni che segnalano sempre una prospettiva, che suggeriscono un modo d’uso: Il centro comunica la perdita (1988), L’invisibile informa il visibile (1988-1991), Itinerari intimi (1998-1999), Souvenir d’Italie (2010), Imperium (2014), Homo faber (2016)… E, adesso, Il canone.
In movimento
Unità di misura, regola, tradizione, schema: il canone è parola densa, dalle implicazioni scivolose. Vitone, che in passato non si è sottratto all’esercizio insidioso della lista – Nel nome del padre (2001), opera firmata con Cesare Viel, elencava secondo un rigoroso disordine alfabetico, cronologico e istituzionale, i nomi dei padri spirituali, a cui nel 2014 si sono aggiunte, in rigorosa simmetria, le madri (Nel nome del Padre) – ora affronta la spinosa questione della formazione di un personale (?) canone a partire dalle collezioni dello CSAC, con cui l’artista si è a lungo intrattenuto, in un dialogo rispettoso e però incalzante, a partire da una breve residenza nel 2017 all’Abbazia di Valserena e poi ancora in più occasioni nel corso degli anni successivi. Le opere selezionate, molto diverse per tecniche, materiali, tipologie (ammesso che abbia ancora senso utilizzare consunte tassonomie merceologiche in un tempo in cui a dominare sembra essere, piuttosto, il format)[5], come la coda di una cometa si irradiano, attratte e respinte, dal pulmino bianco dell’Università di Parma che le aveva condotte, almeno fino ai primi anni di questo secolo, dai contesti di origine – gli studi e gli archivi degli artisti e delle aziende, le case dei collezionisti – allo CSAC, nelle cui stanze pubbliche hanno trovato diverso valore, altra collocazione e ragione.

Proprio come le 24 slitte che seguivano in ordinata schiera il pulmino Volkswagen scelto nel 1969 da Joseph Beuys come elemento cardine di Das Rudel, un’opera di intatta energia cui Vitone fa ora esplicito riferimento e omaggio, i 24 prelievi effettuati dall’artista tra i tanti tesori dello CSAC – si tratta di singoli oggetti o di scandite serie: sei le foto di Mulas, sei quelle di Ghirri, sei quelle di Schifano – stabiliscono un corteo che è, non c’è dubbio, una parata dalle regole precise, una sequenza da decodificare non per svelarne un unico senso, per riconoscere, piuttosto, la rete di relazioni e di rimandi che Vitone ha voluto attivare nel suo inquieto canone. Lungi dall’offrirsi come una lineare genealogia, il Canone si offre come un tessuto di interferenze, è un gioco di transiti, di addii e partenze, conferme e negazioni, che implica a un tempo, e nei tempi, le opere selezionate, la collezione e la sua sede, l’opera (tutta) e lo sguardo precipuo e in costante mutamento di Vitone. Questo è il canone, un processo piuttosto che una costruzione, un’installazione, se per installazione si intende non un ormai abusato genere artistico e neppure una teatrale configurazione espositiva ma una modalità, site e time specific, di attivare esperienze, di determinare comportamenti, di sollecitare, ed è ancora e sempre Duchamp, «nuovi pensieri»[6].
Del resto, anche Harold Bloom, che del canone occidentale ha fatto il suo anacronistico vessillo e la sua ostinata officina, ha insistito in più occasioni sulla natura inevitabilmente aperta e multidirezionale del canone, non una rigida ostensione di Maestri e di Capolavori ma il campo di una battaglia irrinunciabile, di un conflitto doloroso fondato sul travisamento, sulla discontinuità e sulla negazione, che poi è un’altra, più crudele, forma di imitazione. A generare mutamento è sempre l’errore, il fraintendimento poetico, l’interpretazione scorretta, è il malinteso che consente di riscrive senza sosta il passato impedendo il perpetuarsi di una pietrificata tradizione, tradizione che, invece, va ogni volta inventata e rovesciata. Se, come suggerisce il tardivo Borges, che ha cercato e trovato Kafka prima di Kafka, «ogni scrittore crea i suoi precursori. La sua opera modifica la nostra concezione del passato come modificherà il futuro»[7], neppure l’impresa canonica che Luca Vitone ha intrapreso può di certo sfuggire a questo destino di invenzione e di continuo rovesciamento: un riconoscimento definitivo di debiti e crediti è impossibile ed è la contaminazione e non la purezza a testare l’efficacia del Canone. Del resto, quell’angoscia dell’influenza che secondo Bloom affligge e rende immortali i poeti non risparmia certamente gli artisti e di sicuro non è estranea a Vitone, che dell’interrogazione del passato e dell’esplorazione del presente ha fatto il movente della sua opera, frutto di una ricerca che è stabile e però dice il movimento, ha la natura imperfetta del viaggio e racconta di storie e di geografie che mutano, che cambiano d’epoca e di scala, che si avvicinano e si allontanano stravolgendo le prospettive e gli orientamenti, proprio come accade nei ritratti di città di Ghirri che l’artista ha voluto nel suo Canone. E non solo perché il miglior commento di un’opera è un’altra opera ma perché, come molti hanno già sottolineato, l’indagine dei luoghi (e il genitivo qui è tanto soggettivo quanto oggettivo) rappresenta per Luca Vitone una sfida e una possibilità irrinunciabili.

Topologie
Ricondursi al luogo. Bussola (1989), Sonorizzare il luogo (1989), Il luogo dell’arte (1991-1994) Pratica del luogo (1992-1993): non è lo spazio, con quanto di astratto e astorico si nasconde in questa parola fin troppo elastica, a sollecitare il pensiero e l’azione di Luca Vitone ma la singolarità dei luoghi, individuati dalle geometrie, certo, ma anche, e direi di più, dai suoni, dagli odori, dai sapori e dalle luci, dai residui e dai racconti da cui, poco per volta e continuamente, i luoghi stessi, unici e sempre in relazione, vengono creati. Luoghi antropologici che sono del linguaggio e della storia oltre che della geografia, che hanno una verticalità profonda, archeologica persino (e l’archeologia è peraltro ossessione e metodo di molta arte d’inizio secolo)[8], tanto da richiedere un vero e proprio lavoro di scavo, una sorta di carotaggio che sappia farne emergere la voce sepolta ma non spenta, un suono che è parola narrante nel primo degli Scavi (1996-2001, ma la serie, ha detto l’artista, non è conclusa), dove ad essere liberata dalla terra era una fiaba in lingua d’oc. Sono davvero tante le cartografie che segnano l’opera di Vitone, il quale dichiaratamente riflette sulle differenti modalità di scrittura di un luogo (planimetrie, mappe catastali, carte topografiche) a volte sovrapponendole, spesso azzerandone o, ed è lo stesso, stressandone all’estremo la referenzialità (e come non pensare, a proposito di Galleria Pinta, ancora a Borges, e alla sua impossibile carta dell’Impero in scala 1:1). L’intenzione è, sempre, quella di dislocare lo sguardo, di provare a mettere in questione le visioni e gli usi abitudinari dei luoghi: è quanto accade, per esempio, con le cartine di una Milano reale ma invisibile, Wide City (1998) e poi Wider City (2006) dove il tessuto urbano si colora di luoghi che proteggono e alimentano culture e lingue diverse, luoghi la cui tradizione è in corso d’opera e che l’artista offre tempestivamente come possibili mete, suggerendo nella città più ampia scambi e itinerari.
Perché a interessare davvero Vitone è, ancora una volta, la trasformazione di cui il viaggio è metafora e occasione, come è evidente nell’opera L’ultimo viaggio (2005), dove storia personale e storia collettiva si embricano: il pretesto (il testo che precede l’opera) è un viaggio in auto in Iran intrapreso nel 1977 dai genitori dell’artista con il figlio bambino, documento di un passato che ci appare oggi lontanissimo ma che in realtà ha il tempo comunque breve dell’autobiografia. Viaggio e trasformazione, dei luoghi e delle relazioni che rendono luoghi gli spazi, innervano anche il recente progetto Romanistan, con il quale Vitone è ritornato a riflettere sui popoli rom e sinti, popoli senza luogo o, meglio, dagli infiniti luoghi possibili (Der Umbestimmte Ort, Il luogo imprecisato, era il titolo della mostra in cui nel 1994 alla galleria di Christian Nagel a Colonia l’artista aveva incontrato e coinvolto la comunità rom e sinti). L’artista ha ripercorso a ritroso il lungo viaggio che ha condotto dall’India in Italia rom e sinti, per i quali aveva nel 1994 ridisegnato la bandiera – un doppio orizzonte verde e azzurro al centro del quale sta una ruota da carro – immaginando ora una patria, Romanistan appunto, per i rom, fin dal XV secolo attestati a Bologna, città da cui è partito il viaggio di Vitone, eppure tutt’ora una presenza paradossalmente invisibile e silenziosa, una contraddizione insopportabile e un anticorpo tanto necessario quanto detestato per un Paese, il nostro, sempre meno accogliente e sempre più determinato nel riconoscersi, esclusivo, nel prestigio senza tempo delle antiche pietre, nei monumenti e nelle rovine.

Tutti i luoghi però, Vitone non smette di ricordarlo, mutano e si consumano, lasciano tracce di sé, e polveri e ceneri abitano e rendono reali anche quei luoghi che, per pigra consuetudine o per malafede, pensiamo immuni dai turbamenti della storia. Così, è attraverso la polvere, che è residuo e documento, ma anche unità minima e principio, che l’artista ci racconta non solo ciò che non si vede delle città (Io, Roma, 2005; Ich, Rosa Luxemburg Platz, 2008; Le ceneri di Milano, 2007 ) ma ci mostra anche l’invisibile dei musei, delle stabili istituzioni della conservazione e dell’esposizione: del museo Riso di Palermo, del PAC a Milano, e ora dello CSAC, ritratto attraverso le sue polveri in un monocromo (Stanze, 2017) collocato nell’abside della chiesa abbaziale. «Prodotto del luogo, fedele – ha scritto Riccardo Venturi – come l’uva al vitigno»[9], la polvere più che dirci lo stato di un luogo ne dichiara le modificazioni ineluttabili, l’opportuna impurezza, svelando la natura inquieta anche di quegli spazi a cui con sollievo deleghiamo la tradizione della memoria, la perpetuazione di un canone di cui sono a un tempo creatori e garanti. Eppure le biblioteche, gli archivi, i musei sono sì eterotopie, «una sorta di contro- luoghi» che, ha chiarito Foucault, hanno la natura illusoria e rivelatrice degli specchi[10], ma non per questo sfuggono al flusso degli eventi, al consumo e alla costruzione dei giorni, al divenire delle domande e delle lingue. Anzi. Luoghi della memoria, sono, più di ogni altro, sensibili al mutamento: la memoria, Vitone lo sa bene, è un lavoro quotidiano.
La memoria all’opera
Ars e vis, conservazione del dato e produzione del ricordo, la memoria non smette di essere protagonista del contemporaneo dibattito culturale. In particolare, la riflessione sugli archivi, e nello specifico sulla natura e la funzione degli archivi dell’arte, appare una costante e un sintomo degli studi a cavallo tra i due secoli (Nora, autore del monumentale Les lieux de mémoire, non aveva dubbi: «Si parla della memoria solo perché non esiste più»), producendo contributi critici e interventi teorici che alle promesse, a mio avviso non poco insidiose, della tag universale (de Kerckhove), all’euforia per la digitalizzazione globale, ultima frontiera di un’ormai inarrestabile processo di musealizzazione (di perdita di valore d’uso) del mondo, provano nei casi migliori ad opporre o, almeno, ad affiancare la consapevolezza che non c’è archivio senza scarto e rinuncia, fallimento e perdita, che il processo di archiviazione implica fin dal nome – arché, ha segnalato Derrida in Mal d’archive, è cominciamento e comando – un definitivo esercizio di potere. La selezione che è alla radice di ogni archivio – sia essa frutto di un’intenzione innovativa, come ha suggerito Borys Groys, o di un consapevole occultamento – genera in ogni caso oblio, crea vuoti di informazione da risarcire o comunque da segnalare attraverso pazienti indagini, ricostruzioni, ipotesi.
È, questo, il compito che secondo Aleida Assmann oggi l’arte si è assunta: «sembra quasi che la memoria, privata ormai della sua plasticità culturale e della sua funzione sociale, sia emigrata nell’arte»[11]. Un’impresa in fondo impossibile, spesso condotta in forme elegiache o compensative – la studiosa a proposito delle installazioni di Kiefer, Boltanski,Kabakov e di altri protagonisti dell’arte di fine ’900 scrive di «simulazioni della memoria nei pascoli dell’oblio» – a cui corrisponde, sul versante curatoriale, il recente trionfo del modello espositivo della Wunderkammer, analogico teatrum mundi per lo più svuotato dei suoi aspetti conoscitivi e dalle sue ragioni epistemologiche, utilizzato soprattutto per la forza performativa dell’eterogeneo che viene messo in mostra, una collezione di mirabilia del tutto affrancata dalla cronologia e, più radicalmente, dalla storia, non solo dell’arte. Non è questa la direzione scelta da Luca Vitone, che se riconosce nella memoria un nodo critico ineludibile e un’esigenza cui dare risposta non lavora però sulla rappresentazione ma sulla produzione della memoria e del ricordo. Inestricabilmente legata alla mappatura dei luoghi, alla loro singolare e provvisoria individuazione nella pratica personale e collettiva, la ricerca condotta da Vitone sul ricordo individuale (esemplare il caso delle Effemeridi Prini, 2008, minuzioso diario di un’attesa irrisolta) e sul dato, mai veramente condiviso, di memoria sociale non si limita a registrare e a mettere in scena lo scarto e l’oblio, il rimosso, ma ne fa, piuttosto, monumento.

Lavorare sull’archivio dello CSAC e costruire un canone presente è, appunto, un gesto monumentale, ovvero un modo di creare memoria in uno spazio pubblico. Vitone, che non ha mai rinunciato al discorso politico e alla elaborazione di una necessaria memoria civile (e basterà pensare almeno a Souvenir d’Italie del 2010 o a Souvenir d’Italie (Lumiére) del 2014, lavori che in forme diverse testimoniano e ricordano le trame oscure che hanno segnato dolorosamente la vita del nostro Paese), nella selezione che compie all’interno della collezione dello CSAC si muove spinto da un’esigenza assolutamente personale, compie un itinerario intimo che proprio per questo riesce a restituire in opera (all’opera) una memoria collettiva, e non soltanto generazionale. Proprio come accadeva nella biblioteca di Warburg, mitica fucina di sapere in cui i libri non trovavano, è Saxl a ricordarlo, mai definitiva collocazione perché ogni nuovo pensiero determinava un nuovo ordine con cui governare, provvisoriamente, l’incognito[12], il carattere così marcatamente soggettivo delle scelte ogni volta operate dall’artista non è un impedimento ma la condizione stessa perché sia fatta memoria. Memoria profonda che è fatta di odori (l’odore dell’eternit nella scultura olfattiva presentata nel 2013 al Padiglione Italia in occasione della 55a Biennale di Venezia, l’odore del potere creato per la mostra Imperium nel 2014) e che è fatta di voci e di racconti, come nel progetto Futuro ritorno proposto nel 2008 alla GAMEC.

Di nuovo il museo, che per Vitone rappresenta, come si è detto, territorio privilegiato d’indagine per la sua ambigua natura di luogo pubblico eppure idiosincratico dell’arte e della memoria, non è cornice ma attore dell’opera, facendosi in questo caso teatro di incontro e di soggettiva mediazione, di desiderio e di ricordo grazie alle voci dei 22 mediatori – uno per ogni nazionalità presente nel territorio bergamasco – chiamati non soltanto a guidare i propri compatrioti nelle stanze della mostra Ovunque a casa propria ma invitati anche a raccontare in che modo immaginavano il proprio ritorno a casa. Si tratta di un lavoro sottile di traduzione, traduzione che, ha chiarito Antoine Berman, è in ogni modo «transito, attraversamento e travalicamento, […] la cifra stessa della condizione precaria e fluida di qualunque processo di comunicazione, mediazione, interazione»[13]. È, di nuovo, un movimento, un percorso di avvicinamento e di distanziamento che s’inscrive nella cartografia sempre da rinominare e da ricordare di Luca Vitone, una mappa dell’umano in cui insieme alle immagini vengono registrati i suoni perché, ha chiarito l’artista, «il suono come il cibo è uno degli elementi che ci permettono una conoscenza diretta di una cultura diversa dalla nostra, indipendentemente dai nostri pregiudizi». Una mappa tracciata sempre in prima persona, ben sapendo che «l’oggettività della terza persona è, nei casi migliori, un’utile approssimazione»[14], è una comoda finzione operativa, uno stratagemma per provare ad eludere la responsabilità della scelta, la parzialità del gesto canonico con cui l’artista ogni volta riscrive il proprio palinsesto e lo espone all’incertezza del giudizio.

Adesso, il canone
1. Ugo Mulas, Eugenio Montale, 1970; Marcel Duchamp, 1965; Piero Manzoni al Bar Giamaica, 1953-54, Roy Lichtenstein, 1964, Robert Rauschenberg, 1964, Lucio Fontana, 1965. 2. Alighiero Boetti, Piccolo medio grande, 1974. 3. Gianni Colombo, Strutturazione pulsante, 1959. 4. Lucio Fontana, Concetto spaziale, 1960. 5. Mario Schifano, Los Alamos Centro Atomico, 1970; Los Alamos Centro Atomico, 1970; senza titolo, 1970; NASA – Houston – progettazione e simulazione voli, 1970; C. Kennedy, 1970; senza titolo, 1970. 6. Mario Nigro, Spazio totale, 1953-54; 7. Pietro Consagra, Monumento al partigiano, 1947/68. 8. Alberto Rosselli, poltrona Jumbo, 1969. 9. Afro Basaldella, Giornale 63/1, 1963. 10. Luigi Ghirri, Salisburgo, 1976; Kassel 1975, Modena, 1975; Lido di Spina, 1978, Modena, 1970; Atlante, 1973. 11. Erberto Carboni cartello pubblicitario per Lambrusco Maranini, 1922. 12. Archizoom Associati, Dressing design. Vestirsi è facile, 1972; 13. Walter Albini, Abito da sera, I Clown, Collezione Autunno-Inverno 1972/73 per Misterfox. 14. Giosetta Fioroni, Da Botticelli, 1965. 15. Michelangelo Pistoletto, Autostoppista viola, 1970. 16. Maddalena Dimt, Torre Velasca, 1955. 17. Franco Albini, TV Orion, 1961-62. 18. Farani Sartoria Teatrale, costumista: Danilo Donati, Edipo Re, regista: Pier Paolo Pasolini, 1967. 19. Farani Sartoria Teatrale, costumista: Danilo Donati, Casanova, regista: Federico Fellini, 1976. 20. Farani Sartoria Teatrale, costumista: Danilo Donati, Edipo Re, regista: Pier Paolo Pasolini, 1967. 21 Sottsass Associati, Casa Bischofberger, Puglia (Secondo Progetto), 1988-1989. 22. Lampada da comodino, s.d. 23. Andrea Branzi / Archizoom Associati, Individuazione di Quanti di Attrezzature per il Tempo Libero nel comune di Prato, 1966-2007. 24. «Il Male».

Queste sono le opere della collezione dello CSAC con cui Luca Vitone ha costruito il suo canone. Adesso tocca a noi cercare significati e direzioni, senza però illuderci di trovare finalmente una soluzione: per fortuna, «chi incontra un’opera canonica si imbatte in un estraneo, in una misteriosa sorpresa anziché nella realizzazione di un’aspettativa»[15]. L’archivio non smette di darci pensiero.
[1] L.-A. Blanqui, L’eternità attraverso gli astri, trad. it. di G. Alfieri, a c. di F. Desideri, SE, Milano 2005, p. 77.
[2] Ivi, p. 13.
[3] Ivi, p. 73.
[4] A. Cortellessa, Filo d’orizzonte (1988), in Io, Luca Vitone, cat. della mostra a cura di L. Lo Pinto e D. Sileo, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2017, p. 95.
[5] D. Joselit, After Art, Dopo l’arte, trad. it. postmedia books, Milano 2015, pp. 55 sgg.
[6] Ho discusso della natura dell’installazione in Senza cornice. Spazi e tempi dell’installazione, Arshake, Roma 2015, a cui mi permetto di rinviare.
[7] J. Borges, Kakfa e i suoi precursori, in Altre inquisizioni (1952), trad. it in Id. Tutte le opere, a c. di D. Porzio, vol. I, Mondadori, Milano 1984, p. 1009.
[8] Cfr. M. Maiorino, L’artista come archeologo. Uno scavo nell’arte italiana del XXI secolo, Arshake, Roma 2020.
[9] R. Venturi, Homo faber, in Io, Luca Vitone, cit., p. 280.
[10] M. Foucault, Eterotopia, trad. it., Mimesis, Milano-Udine 2010, pp. 12-13.
[11] A. Assmann, Ricordare. Forme e mutamenti della memoria culturale (1999), trad. it., il Mulino, Bologna 2002.
[12] R. Calasso, Come ordinare una biblioteca, Adelphi, Milano 2020, pp. 58-59.
[13] A. Berman, La traduzione e la lettera o l’albergo nella lontananza, trad. it. Quodlibet, Macerata 2003, pp. 15-16.
[14] S. Hurstvedt, Vivere, pensare, guardare (2012), trad. it., Einaudi, Torino 2014, p. VIII.
[15] H. Bloom, Il canone occidentale. I libri e le scuole delle Età (1994), trad. it., introd. di A. Cortellessa, Rizzoli, Milano 2008, p. 9.
In copertina: Luigi Ghirri, Salisburgo, 1976, CPrint. C110070S©Eredi di Luigi Ghirri