Siamo abituati a guardare le fotografie come assoluti statici. Le osserviamo a partire dalla loro immobilità, dal frammento spazio-temporale che hanno saputo racchiudere sulla superficie della stampa o, oggi, sempre più spesso, dello schermo. Ma un’immagine vive, sempre, all’interno di un doppio ritmo. Il primo, il più immediato, è il ritmo che ogni immagine instaura con le altre. Le immagini, ancor più delle cose, vivono secondo ritmi profondi, cadenze visive. Si inseguono, si chiamano, fanno da eco le une alle altre. Nel caso delle immagini, non è l’orecchio ma l’occhio a percepire il ritmo. Un bravo fotografo, come certamente è Pino Musi, è quello che percepisce il giusto ritmo; è colui che scatta a ritmo e mette in sequenza le immagini, istituendo una sorta di ritmologia fondamentale. Un libro di fotografia come Border Soundscapes è un manuale di ritmologia: mostra all’opera il ritmo della visione. Non si tratta solo di un libro di paesaggi urbani, ma di una jam session dello sguardo. Si può ben immaginare Musi che, camminando tra le periferie urbane d’Europa, ascolta l’architettura, ne individua sapientemente i ritmi e li ferma, in una sorta di partitura visiva. Ne risulta uno spartito musical-visivo in cui ogni immagine è movimento ritmico che rinvia dalla pagina precedente a quella successiva. Questo è il ritmo delle immagini, il ritmo che le immagini istituiscono tra di loro e per mezzo del quale si rendono visibili in un grande affresco o, per usare una metafora non del tutto adeguata, in una narrazione, forse, in un poema.

Ma ogni immagine ha anche un secondo ritmo. Potremmo chiamarlo un ritmo interno, una sorta di vibrazione, di oscillazione che la muove da dentro, indipendentemente da tutto. Un’immagine riuscita è sempre in movimento, si muove al fondo della sua essenza, impedendo allo sguardo di pacificarsi. Attira lo sguardo per rinviarlo in continuazione da un punto all’altro, da un dettaglio all’altro. Saper afferrare questo ritmo interno all’immagine e saperlo fissare, cioè mostrare in uno scatto, è quanto di più difficile possa esistere. E ancor più complesso è coglierlo in quella che, per convenzione, si chiama fotografia di architettura, apparentemente così statica. In questo esercizio, la maestria di Musi è davvero impressionante. Basti, qui, guardare la prima immagine di Border Soundscapes, quella che apre il libro. Un blocco monolitico al centro. Immobile, tagliente, imponente. Sembra occupare tutto lo sguardo, ma immediatamente i piani si moltiplicano e lo sfondo, con la sua sequenza di finestre-rettangolo amplifica gli spigoli in primo piano. Il monolite diviene così una lama che squarcia la visione, spossessandoci di ogni soggettività e liberandoci di ogni soggettivismo, di ogni interpretazione psicologizzante. A Musi basta una sola immagine – e le successive non fanno che amplificare questa percezione immediata – per mostrare come lo sguardo, la visione non è nel soggetto ma è là, fuori di noi, nel geometrico e vertiginoso ritmo di una serie di forme che danzano tra loro. Noi siamo in quelle forme, non quelle forme in noi.

Guardare è liberarsi della propria soggettività per entrare in risonanza con un ritmo visivo che ci penetra e ci muove. Guardare è portarsi ai limiti dello sguardo, laddove le nostre certezze visive iniziano a vacillare, lasciando apparire e manifestarsi la pulsazione originaria delle forme, il loro ritmo primigenio. In quel punto, in quel breve istante, in quello scatto, la fotografia non è più fenomenica ma ontologica, mostra l’essenza stessa del reale. Pino Musi, l’ultimo grande metafisico.

Pino Musi
Border Soundscapes
con un testo di Marie Rebecchi
Artphilein Editions, 2019, pp. 72, 50 CHF