Nell’arte, l’essenziale non è l’essenza

Luigi Bonfante ha dedicato un saggio per commentare, anche se in parte criticamente, un mio articolo sul testo forse più canonico dell’estetica novecentesca, L’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica di Walter Benjamin. Commento accurato di cui lo ringrazio. E dato che mi rivolge critiche puntuali, sono tenuto a commentare i suoi commenti al mio commento.

I.

Nel mio saggio riprendevo la differenza aristotelica tra ποίησις e πράξις, tra il produrre e l’agire, per dire che l’arte contemporanea, da oltre un secolo, punta sull’agire dell’artista più che sul suo prodotto. Bonfante considera però un’indebita generalizzazione la mia frase «gran parte dell’arte del Novecento modernista segna un ritorno alla dignità della práxis contro il feticismo “commerciale” della póiesis», e mi ricorda che gran parte dell’arte moderna produce oggetti non meno dell’arte classica. E, si sa, queste opere-oggetti hanno spesso un grande valore commerciale. Così oppone alla mia tesi quella, che gli sembra più perspicua, di Giorgio Agamben[1], per il quale il fare artistico come performance non è più né poiesispraxis ma «un ibrido terzo in cui l’azione stessa pretende di presentarsi come opera». Tra la mia formulazione (che fa riferimento alla distinzione aristotelica tra poiesis e praxis) e quella di Agamben (che fa riferimento alla distinzione non meno aristotelica tra δύναμις ed ενέργεια) Bonfante vede una differenza importante, che a me però, lo confesso, sfugge. Del resto, anche Agamben evoca esplicitamente la differenza tra praxis e poiesis. Francamente, mi pare che le mie tesi siano in gran parte sovrapponibili a quelle di Agamben[2]. Tranne su un punto, su cui tornerò dopo.

Avrei dovuto precisare che la frase che Bonfante contesta non è la mia personale opinione sull’arte moderna, ma è quello che l’arte moderna, anche esplicitamente, ha inteso fare. Il demone che l’ha motivata. Questo non ha impedito, certo, come segnala Bonfante, che questo rifiuto dell’oggetto produca comunque oggetti. Non ho difficoltà ad accettare il fatto che le opere d’arte contemporanea siano un ibrido, dato che sono comunque prodotti: il cui valore estetico però non è da cercare nel prodotto stesso, ma nella praxis di cui l’opera è… che cosa? Abbiamo un termine, quello di reliquia.

Le reliquie d’oggi possono avere un alto valore commerciale come lo avevano le reliquie dei santi nel Medio Evo. Dei fac-simili dell’orinatoio esposto da Duchamp – quattordici repliche autorizzate da Duchamp stesso[3] – sono esse stesse reliquie esposte in musei. Tempo fa le reliquie dei santi non erano affatto bazzecole. Ce ne voleva una per poter costruire la cattedrale di una città, esse avevano un grande valore anche politico. Per impossessarsi del prepuzio di Gesù si potevano fare guerre, e in effetti ci sono dodici prepuzi di Cristo in altrettante chiese (quasi quante le repliche dell’orinatoio di Duchamp)…

Non seguo invece Agamben quando egli – come la maggior parte del pensiero che alcuni chiamano frettolosamente post-modernista – getta l’anatema sui musei d’arte contemporanea e in genere sul sistema dell’arte (gallerie, esposizioni, mostre) come «macchina che gira a vuoto». In effetti – dice – come si può commercializzare l’atto, che dà valore estetico all’orinatoio di Duchamp? Secondo me, gran parte di questa macchina anche commerciale (e turistica) è di fatto un’opera pia, come erano appunto le reliquie di un tempo. I contemporanei hanno una certa pietas – pietà religiosa – di quella energheia (atto) di cui certi moderni sono stati capaci. È un po’ come per i francesi la celebrazione patriottica di Giovanna d’Arco o per gli inglesi la celebrazione della vittoria di Waterloo. Agamben è libero di aborrire questa pietas, non vi vedo però «un’interessata contraddizione» tra questo ideale di «attività senz’opera» e il mercato dell’arte. Tornerò su questo punto.

 Personalmente, non do per scontato il feticismo della merce, ma mi sembra evidente che in tutto il modernismo viva questa tensione tra l’opposizione all’oggetto in quanto tale, e il suo non poter evitare di produrre oggetti, i quali, nella misura in cui si conservano nel tempo, sono scambiabili in un mercato. Non oppongo alcun anatema moralista a questo scambio.

Non ho mai negato, insomma, che anche l’arte più “performativa” ed effimera produca qualcosa che può essere venduto. Questo anche nel caso di Tehching Hsieh, che Bonfante evoca come un caso “estremo” che, secondo lui, potrebbe darmi ragione. Tehching Hsieh nella performance Cage Piece passò esattamente un anno (settembre 1978-settembre 1979) chiuso in una gabbia di 3,5 metri per 2,7 che comprendeva solo un letto singolo, un lavabo, delle luci, un secchio. In questo anno non lesse, non scrisse, non ascoltò la radio né vide la TV. Possiamo dire che Tehching Hsieh non abbia prodotto nulla? Eppure la redazione di «Antinomie» ha oculatamente pubblicato una foto della clausura dell’artista: ecco un prodotto. Certamente l’orinatoio di Duchamp o la foto di Tehching Hsieh sono oggetti, ma sarebbe del tutto ridicolo ammirare l’orinatoio per le sue qualità scultoree o di design, oppure apprezzare la qualità fotografica dell’immagine dell’artista-prigioniero! Il valore di questi oggetti poietici è di essere tracce di un evento, reliquie di una energheia. Non basta dire quindi «l’arte comunque produce oggetti», bisogna capire cosa dia valore a questi oggetti.

Si prenda un autoritratto di Marc Quinn. Di solito si tratta di autoritratti alquanto tradizionali, realistici, che avrebbe potuto fare anche uno scultore settecentesco. Ma quel che ci impressiona è il sapere (appunto: sapere, più che vedere) che questa scultura è stata fatta con il sangue stesso dell’artista. È questa praxis – l’artista produce opera col proprio sangue – a dar valore al prodotto. E non mi pare che Agamben, nel fondo, dica qualcosa di diverso.

Marc Quinn, Self . L’opera, realizzata con 4 litri di sangue dello stesso Quinn, divenne una delle opere più riconoscibili tra quelle esposte alla Saatchi Gallery nella mostra Young British Artists negli anni Novanta)

Tehching Hsieh, Marc Quinn, Marina Abramovic… in tutti questi casi mi colpisce il valore liturgico di queste performances in cui l’artista usa e abusa del proprio corpo. Agamben, e Bonfante sulla sua scia, evoca il termine «liturgia» nel senso specifico che prende nel benedettino tedesco Odo Casel. La liturghia di cui parlo io invece è quella originaria della civiltà greca (senso ripreso da Lévinas): è la spesa a cui di volta in volta erano obbligati i cittadini ateniesi più ricchi per finanziare le feste tragiche[4]. Insomma, la liturgia era una tassa, un sacrificio alquanto “dissanguante”, per far divertire i concittadini. Onore e onere. L’evoluzione delle performances contemporanee è andata sempre più in un senso sacrificale, l’artista si esibisce come capace di affrontare sofferenze al limite della sopportazione umana. Il performer contemporaneo sembra rifarsi agli artisti del circo, ai fachiri che dormivano sui chiodi; come il funambolo, il trapezista, il domatore di leoni, l’artista dà in spettacolo il rischio della propria salute o vita, il suo eroico osare. Possiamo dire che il mercato dell’arte fa commercio di questi “atti di sangue”.

Ci dovremmo chiedere il perché di questo bisogno di mettere in gioco il proprio corpo e la propria vita, e del bisogno del pubblico di assistervi. A mio avviso proprio perché sempre più si è affermato il valore “pratico” (da praxis) ed “energetico” (da energheia) del lavoro artistico. Per i Greci, la prassi riuscita portava al piacere e alla gloria. La gloria era data soprattutto dal morire in battaglia per difendere la polis.  E l’artista liturgico aspira alla gloria, certo, non attraverso un prodotto lasciato agli altri, ma attraverso il dolore della propria performance. La gloria non si unisce più al piacere, come per gli Antichi, ma, sembrerebbe, al dolore dell’artista, e talvolta anche del pubblico. Eppure, come nota Bonfante citando l’euforia di cui parlano Duchamp e John Cage, attraverso questa prova di dolore è in sostanza un piacere di ordine superiore che l’artista persegue. L’artista non fa godere gli altri dando loro a vedere oggetti belli o sublimi, ma esibisce il proprio godimento nel sacrificio, come una francescana «perfetta letizia» che si realizza nella frustrazione e nell’umiliazione. L’artista si pone insomma come campione del godimento, godimento significato attraverso la sofferenza.

II.

Il mio commentatore afferma che nel XX secolo non c’è «un’estetica prevalente» (come sosterrei io), ma ce ne sono due fondamentali. Io non avrei visto la prima delle due (prima in senso cronologico), che risale almeno agli impressionisti: «sono loro a introdurre il paradigma “moderno”, che […] punta a esprimere l’interiorità unica dell’artista, ponendo la sua originalità al di sopra delle regole accademiche, per cui la singolarità diventa un valore privilegiato rispetto alla bellezza» [corsivi dell’autore]. L’altro filone sarebbe quello originatosi con Duchamp, e che oggi ha preso il sopravvento: «in esso ciò che conta non sono più la bellezza classica né l’espressione dell’interiorità moderna, ma la produzione di singolarità». Mi pare allora che questi due filoni, che l’Autore tiene a distinguere, alla fin fine puntino alla stessa cosa: alla singolarità, divenuta il nuovo valore di contro alla bellezza. Parrebbe che, nel fondo, mirino alla stessa cosa.

Certamente gli storici dell’arte possono ritagliare diversamente quel che genericamente si chiama modernismo secondo le linee che preferiscono. Le estetiche del Novecento sono state tantissime, e spesso tra loro contrapposte. Ma la mia domanda era filosofica in senso lato: possiamo descrivere in termini strutturali un tratto specifico per cui possiamo dire «quest’opera è modernista» e «questa no»?[5]

Le persone comuni, non proprio colte, distinguono subito l’arte tradizionale da quella modernista, nel senso che di solito aborriscono la seconda[6]. Le riproduzioni d’arte che mettono nelle loro case non sono mai opere che vanno oltre l’impressionismo. La gente comune percepisce subito una differenza del modernismo, che accomuna autori così diversi come Picasso, Mondrian, Pollock e Warhol, dalla “vera arte”. Le avanguardie artistiche sono «cose per i professori, per gli snob». Che cosa percepiscono come estraneo quando sono esposti a un’opera moderna di qualsiasi tipo? È questa la domanda a cui cercavo di rispondere. Dov’è lo scarto differenziale tra ciò che possiamo chiamare arte rappresentativa classica (quella che, grosso modo, va dal XIII secolo fino ad Ottocento avanzato) e il modernism, come lo chiamano gli anglo-americani?

Ora, vedere una fase della modernità come «esprimente l’interiorità unica dell’artista» è un abbaglio agli occhi di quelli della mia generazione, che sono passati attraverso il setaccio delle riflessioni di Eco, di Barthes, della semiotica, di Derrida, di Blanchot, ecc. Questo setaccio non lascia passare, perché sassolini troppo grossiers, concetti psicologisti come l’“interiorità unica dell’artista”, perché ciò che invece sembra caratterizzare non solo l’arte, anche la filosofia, del XX secolo è quella che Richard Rorty chiamò svolta linguistica, ovvero, in altri termini, la scoperta della forza del significante. Barthes, nei suoi seminari, derideva il luogo comune secondo cui l’opera di Proust sarebbe un’opera squisitamente psicologica… (e termini come l’«interiorità unica» sono una forma più sofisticata di “psicologia dell’artista”). Noto che la gente comune, quando va a vedere un film d’avanguardia, spesso dice «strani questi film psicologici!». Il richiamo all’interiorità, alla psiche, all’artista perturbato e commosso, sono modi di connotare quel che non si capisce. L’“interiorità” è dire qualcosa che non dice nulla. L’appello a una soggettività unica e singolare dell’artista è un concetto romantico che vede la modernità dal punto di vista dell’arte tradizionale, che opponeva la soggettività dell’artista al compito di rappresentare il mondo.

Ricordo una volta, visitando un’esposizione, che di fronte al ritratto della figlia da parte di Picasso (Maya à la poupée) una signora spiegava al suo bambino che Picasso non aveva ritratto la bimba così come è ma «come la vedeva lui»… 

Pablo Picasso, Maya à la poupée, 1938

Insomma, la madre faceva credere al bambino che Picasso soffrisse di allucinazioni visive deformanti. In realtà Picasso vedeva la figlia più o meno come la vediamo noi. Quella che Bonfante prende per «interiorità unica» è in realtà una decisione semiotica: affermare che la sua arte non riproduce una bambina ma è solo… arte. Da notare che la bambolina di Maya è ritratta realisticamente, perché è essa stessa arte(fatto): è la bambina viva, reale, a diventare una sorta di bambola. L’ironia picassiana rovescia le parti tra artefatto e vivente. Quella che l’estetica tradizionale vede come “libertà dell’artista” è piuttosto sfruttare quel che Saussure chiamò arbitraire du signe, diremmo arbitrarietà del significante. È come se Picasso ci dicesse: «Queste sono le nuove regole di rappresentazione che impongo! Prendere o lasciare». Tutta l’arte moderna sposta il proprio focus dal mondo rappresentato alle tecniche per rappresentare, ovvero all’arte stessa (i suoi materiali, le sue grammatiche, il lavoro stesso dell’artista). La svolta modernista consiste nel mettere a nudo l’arbitrarietà significante, perciò il modernismo si vuole arte per artisti. Si gusta l’arte moderna solo se ci si mette dal punto di vista dell’artista non come «interiorità unica» ma come τεχνίτης, artigiano, professionista della poiesis. (Igor Stravinsky diceva di sé che era un artigiano dei suoni.)

Di fronte al fatto che Picasso ci imponga distorsioni delle figure, o che Pollock esponga delle scolature di pittura, presumiamo un’interiorità speciale, idiosincratica, abissale, giusto perché osano proporci delle “regole” nuove. È la singolarità delle forme da loro scelte che proietta nelle nostre menti credule la parvenza fumosa di una loro singolarità soggettiva.

A parte (forse) certe forme di espressionismo, direi anzi che l’arte del XX secolo è la meno “soggettiva” delle forme d’arte. In una mostra guardavo due quadri cubisti che apparivano prodotti della stessa mano, lo stile era identico: eppure uno era di Braque, e l’altro di Picasso. La loro interiorità, anziché unica, era di gemelli omozigoti? Che c’è di «interiorità unica» nel fatto che Pollock facesse sgocciolare del colore su una tela posta per terra? Che c’è di interiorità unica in un’opera astratta di Mondrian? O Mondrian e Pollock apparterrebbero alla seconda estetica, quella post-duchampiana?…

La Composizione n. 1 con grigio e rosso 1938 / Composizione con rosso 1939, realizzata tra il 1938 e il 1939 da Piet Mondrian, è conservata attualmente presso la Peggy Guggenheim Collection di Venezia.

Ma questo avvenne già un po’ con l’impressionismo. In teoria l’impressionismo si voleva sensista, volere opporre alla percezione della realtà le sensazioni visive pure; da qui quel flou caratteristico di tante opere impressioniste. Ma le nostre sensazioni sono sempre realiste – come insegna la fenomenologia filosofica vediamo cose, non macchie colorate. Il mondo che l’impressionismo ci restituisce non è quindi un mondo percepito, è un mondo “dipinto” fatto passare per sensazioni dell’artista. L’impressionismo apre cioè una fessura tra la realtà percepita e il modo di rappresentarla, il tremolio delle forme è traccia del fatto che la sensazione vuole divincolarsi dal referente (diremmo in filosofia del linguaggio), e la sensazione sfalda la realtà, fino quasi a dissolversi nella quasi-informalità dell’ultimo Monet. Ma questa fissure tra sensazione e percezione è il primo passo di quello scollamento tra significante e rappresentazione che si allargherà sempre più, a dismisura, nel modernismo artistico.

Per questa ragione non vedo una coupure tra un primo modernismo e uno post-duchampiano, come lo chiama Bonfante. Anche il ready-made prosegue questo slittamento dell’arte verso il significante (verso l’arte che tematizza il proprio linguaggio), solo con una strategia diversa: non è più il significante a staccarsi da ciò che dovrebbe rappresentare, ma è l’oggetto funzionale, industriale – orinatoio, ruota – a porsi come opera, ovvero è promosso a significante. È l’inverso della strategia della pittura modernista: in quella il significante (materiale o formale che sia) si emancipa dalla funzione rappresentativa e si impone come vero oggetto di interesse, nel ready-made l’oggetto esterno si trasmuta in significante. Ma il risultato è lo stesso: è il significante comunque a venire in primo piano. Con Duchamp ci viene sbattuta in faccia, direi, l’arbitrarietà del significante, il fatto cioè che tutto può essere significante.

Riconosco però che da un po’ di tempo a questa parte questa svolta linguistica – l’arte-per-artisti, l’arte che riflette su sé stessa e non riflette più il mondo – si è esaurita, e che forse l’arte contemporanea (e forse la nostra cultura in toto) è entrata in un’altra fase.

Una cosa è certa dell’orinatoio di Duchamp: che un uomo non può farvi pipì. Insomma, l’oggetto manufatto è completamente de-funzionalizzato, ovvero si pone pur sempre come oggetto di contemplazione, come “opera” proprio perché non può essere usato per ciò per cui era stato costruito. Ma oggi non è più così, “il pubblico viene coinvolto”.

Come sarebbe oggi possibile modernizzare l’orinatoio di Duchamp? Non certo permettendo ai visitatori di orinarvi dentro, ad esempio, perché allora la distanza tra arte e realtà sarebbe annullata. Magari un artista potrebbe chiamare Fountain un orinatoio scolpito come la fontana di Trevi, mettiamo, e invitare il pubblico maschile a servirsene come, appunto, orinatoio. Un’installazione “interattiva” del genere potrebbe entrare in una mostra d’arte contemporanea, credo. Perché? Perché oggi sempre più si tende a insistere sulla crescente indiscernibilità tra oggetto reale e oggetto artistico. Nella nostra terminologia: l’oggetto esterno diventa significante, ma anche il significante diventa oggetto esterno, cosa. Il significante straripa nel reale, lo invade (è questo che, nel fondo, voleva dire Guy Debord?). È l’inquietudine del virtuale, la difficoltà crescente che abbiamo nel separare l’artificio dal naturale. Perciò i filosofi oggi sono talmente interessati alla questione dell’A.I. e dei robot: ovvero, una macchina può funzionare come un essere vivente e pensante, e l’essere vivente e pensante può essere studiato e rappresentato come una macchina. Nel mondo iper-industrializzato la discontinuità sempre esistita tra prodotto della poiesis e φύσις si stempera, e l’arte di oggi mi pare girare attorno a questa quasi-indiscernibilità. Da qui l’importanza strategica delle biotecnologie, della biopolitica… Per usare i termini greci che ci piacciono tanto, diremo che oggi si afferma sempre più un corto-circuito tra φύσις e μηχανή, tra natura e meccanismo.

Così, il film che in assoluto ha impressionato di più i filosofi, in questi ultimi decenni, è Matrix[7], dove questa confusione tra virtuale e reale è drammatizzata in modo ormai gnomico[8].

Matrix

III.  

Forse è solo una questione di differenze di generazioni. Bonfante, che è giovane, fa appello a concetti che quelli della mia generazione (baby boomers ci chiamano in America) pensavano di aver definitivamente superato negli anni 1960 e 1970. Corsi e ricorsi storici: forse i più giovani tornano a ciò che avevamo “superato”. Ogni anziano di ogni generazione è convinto che la propria abbia messo “un punto fermo”, una colonna d’Ercole non più valicabile, ma l’inerzia biologica del ricambio generazionale mostra che si tratta di un’illusione. Ogni generazione vuole godere a sua volta dell’energheia, e questa può risolversi in un Ritorno restaurativo. Anche restaurare è atto, è energia.

Uno della mia generazione intellettuale non potrebbe mai accettare quella che Arthur Danto propone come definizione dell’essenza dell’opera d’arte, l’essere «un significato incarnato» (the art must embody a meaning in some appropriate manner)[9], definizione che Bonfante fa propria. Un’idea del genere, per noi, era impensabile dopo il linguistic turn. L’opera non incarna alcun significato, perché il significato è un concetto, o ciò che chiamiamo banalmente il “contenuto”, semplice alone semantico dell’opera. Certo ogni opera spande sensi, aureole che variano a seconda delle epoche e delle culture – oggi in Shakespeare o in Rembrandt leggiamo sensi altri rispetto a quelli che vi leggevano nel XVII secolo.

Andando oltre: quel che conta in ogni arte è la sua musica, che non ha senso (tranne nel canto, se vogliamo). Anche i significati contano quando sono bene orchestrati tra loro, quando funzionano come significanti. La musica ci dà una sensazione di senso, ma solo una sensazione. Ogni arte ci dà un affetto di senso.

Un atto artistico è un evento che apre a una disseminazione di significati, quindi è l’inverso di quel che dice Danto.

Si prendano tutte le innumerevoli Madonne con bambino dipinte nel Medio Evo e dopo. A parte variazioni particolari, il significato è sempre lo stesso: la maternità come legame madre-figlio piccolo. Ma questo significato si “incarna” nelle opere più diverse, alcune dozzinali, altre invece commoventi. Vi leggiamo in tutte una rappresentazione paradigmatica, ma a chi gode dell’arte interessano i significanti. Talvolta i significati nell’arte sono terribilmente ripetitivi e monotoni.

Qual è il significato che si incarnerebbe nell’orinatoio di Duchamp? Bonfante prova a dircelo, ma francamente non mi convince. Di fatto, vi possiamo leggere i significati più diversi. La lettura dei significati è virtualmente infinita, per cui dovremmo dire che in ogni opera si incarnano significati infiniti. L’importanza dell’atto di Duchamp è piuttosto nel fatto che non ha alcun significato, innanzi tutto annulla il significato funzionale di un orinatoio. È il suo fare qualcosa senza senso che ci fa riflettere sul senso in arte. Si dirà: un atto ha sempre un significato. Non è detto. L’omicidio che commette Merseault nello Straniero di Camus, per esempio, che senso ha? L’assassino riesce a trovarvi un solo significato: che c’era troppo sole… L’atto ci affascina proprio perché il suo senso resta sospeso. È un atto puro. Come l’atto di sparare sulla folla che Breton raccomandava nel Manifesto del surrealismo.

Osservare che Duchamp eleva un oggetto industriale funzionale alla dignità di opera è dirne il significato? No, la cosa importante è che Duchamp abbia creato un evento, il quale, nella misura in cui è entrato nella storia dell’arte canonica, ha cambiato lo stesso senso di “fare arte”. Il punto è: bisogna chiedersi se gli atti di Duchamp rientrano nella nostra definizione dell’arte? Oppure, come credo io, bisogna chiedersi: siamo disposti o meno ad accettare gli atti di Duchamp come eventi che modifichino la nostra idea di arte?

Per Bonfante è importante che Duchamp intitoli l’orinatoio Fountain, e difatti lo è. Titolo azzeccato, perché la fontana tradizionale porta in sé già un’ambiguità a cui Duchamp si appoggia. Da una parte la fontana è un oggetto funzionale – ci si può abbeverare, d’estate alcuni ci fanno anche il bagno. Dall’altra è un oggetto scultoreo, come la fontana di Trevi, che ho proposto di miniaturizzare in orinatoio. Una fontana è un centauro semiotico, mezzo-strumento e mezzo-significante. Ma è proprio quel che vuol essere la Fountain di Duchamp: mezzo-utensile, mezzo scultura. Solo che qui l’utensile è del tutto annullato nella sua transustanziazione significante. E se la avesse invece intitolata Pygmalion reversed?

In effetti Danto propone la sua formula dell’«incarnazione di un significato» come l’essenza stessa dell’arte diciamo eterna, dai dipinti di Lascaux fino alle installazioni di Ai Weiwei. Ora, chi come me si è lasciato tritare dalla filosofia di Wittgenstein non crede affatto che si possa dire l’essenza dell’arte. Siamo noi oggi ad aver deciso di mettere l’etichetta «arte» a una serie di cose disparate che vanno appunto dall’arte rupestre paleolitica alle performance più recenti. Abbiamo invece radiato dall’estetica le forme naturali: chi fa l’estetica delle Dolomiti, dei fiordi norvegesi, del deserto del Sahara?…

Possiamo chiamare arte dei dipinti egizi che nessuno avrebbe mai visto perché sarebbero rimasti chiusi per sempre nelle tombe con i morti? O sculture e pinnacoli in cima alle cattedrali gotiche che solo Dio avrebbe visto? E che dire delle icone russe, che furono dipinte come oggetti di culto? Possiamo chiamare arte tante opere performative, che mirano cioè a produrre effetti concreti precisi, ad esempio le opere di propaganda? Giustamente Vittorio Sermonti ha letto la Divina Comedia come atto performativo: una predicazione profetica[10]. Il discorso di un rivoluzionario o di un demagogo che infiamma le masse è arte? È arte il volteggiare di astronauti nell’astronave priva di forza di gravità? Tutto dipende da quel che noi, in una certa fase della storia, decidiamo di chiamare arte, distinguendola da ciò che non lo è. Per i Greci, per esempio, non esisteva nemmeno il concetto di arte, ma quello di τέχνη, produzione tecnica.

Nella realtà, tra le “arti” delle varie epoche possiamo trovare solo una «rassomiglianza di famiglia» (Familienähnlichkeit, la chiamava Wittgenstein)[11]: ovvero, non un’essenza comune, ma tratti comuni tra varie forme. A ha tratti comuni con B, B con C, C con D…, e magari D non ha alcun tratto comune con A. Eppure A e D sono “imparentati”. L’atto senza significato di Duchamp è stato “imparentato” dalla nostra cultura al resto dell’arte, ma non perché esso “incarnerebbe un significato”: è perché abbiamo allargato di molto l’area della “famiglia artistica”. Oggi vi includiamo anche tutti i bastardi. La nostra semantica moderna di “arte” largheggia. Viviamo in epoca di ideologia della tolleranza universale, quindi tolleriamo come arte anche il fatto che Pistoletto esponga come opera uno specchio rettangolare steso sul pavimento[12]. Ma la familiarità, che può prolungarsi anche con forme che nulla hanno in comune, non implica affatto che possiamo determinare un’essenza comune tra tutte le forme.

Qui, credo, risiede la differenza fondamentale tra l’impostazione di Bonfante e la mia. Anche se poi ci troviamo d’accordo su tante altre cose, forse più di quanto lui stesso non ammetta.

IV.

Voglio infine dire qualcosa sulla «dialettica tra arte e mercato», come scrive Bonfante, e sulla pessima opinione che sembra avere del mercato dell’arte («L’opera d’arte, fagocitata nel sistema onnicomprensivo del mercato…»). Rigetto comune a molti, a cominciare da Agamben.

Dico che io, al contrario, non sono affatto contro il prospero mercato dell’arte, e non solo perché, molto semplicemente, esso permette agli artisti di vivere[13]. Diciamo che nei confronti del sistema dell’arte contemporaneo ho lo sguardo benevolo di Aristotele nei confronti della tragedia ateniese, non quello severo di Platone nei confronti della stessa. E la storia ha dato ragione ad Aristotele: ancora leggiamo e rappresentiamo le tragedie greche.

In ogni epoca gli artisti hanno avuto i loro “padroni”, ovvero chi li pagava per lavorare. Nel Medio Evo era il clero che commissionava le opere per le chiese, a cui si aggiunsero come committenti signori, re e imperatori. Vennero quindi i ricchi borghesi come i coniugi Arnolfini che volevano farsi ritrarre, le corti europee, e infine, a partire dall’Ottocento, il mercato dell’arte, che oggi si impernia su critici, musei e galleristi; ma soprattutto sui collezionisti che comprano le opere. Siamo sicuri che il mercato collezionistico è tanto peggio del clero, dei principi, e dei mercanti che volevano far ritrarre la loro figlia, la cuoca e il cane?

Chi crede nel socialismo potrà dire che gli artisti dovrebbero vivere a spese dello stato per le opere che producono, ma sappiamo bene i pericoli micidiali di uno stato, cioè della politica, che controlla e determina l’arte! Il disastro del “realismo socialista” e dello zdanovismo dovrebbe averci insegnato qualcosa. Insomma, la “dialettica”, ovvero la tensione continua ma fertile tra l’artista e il pubblico (che gli dà da vivere, andando alle mostre e comprando le “reliquie”), è la matrice stessa dell’arte, in qualsiasi epoca, anche se il datore di lavoro dell’artista cambia di epoca in epoca, e gli chiede cose diverse. L’artista ci incanta perché riesce a superare una doppia resistenza fondamentale al suo lavoro: quella del materiale, e quella del volere del datore di lavoro.

Sugamo Shinkin Bank (Giappone)

Possiamo veramente dire che una quasi-mercante come Gertrude Stein abbia “fagocitato” Picasso e Matisse?… Credo che qui operi in Bonfante, come del resto in Benjamin e in molta critica d’arte “socialista”, una concezione sorprendentemente romantica del genio dell’artista sciolto da ogni laccio e lacciuolo con i sistemi di potere della propria epoca. Una pretesa che farebbe sorridere Foucault. L’arte ha sempre espresso i desiderata dei poteri politici, economici, religiosi, accademici di ogni epoca, credere che l’artista possa affrancarsene è un sogno anti-storico. Anche gli artisti “maledetti” – da Utamaro a Rimbaud, da François Villon ai primi graffitisti urbani, dai surrealisti a Banksy – esprimevano ed esprimono bene le tensioni della loro epoca, prova ne sia che sono famosi e gustiamo le loro opere. Oggi piace l’arte dei “maledetti”, e la si compra a caro prezzo, perché c’è in fondo qualcosa di “maledetto” nella società di mercato stessa[14]. Sia la pittura tahitiana di Gauguin che la torre Eiffel esprimevano, anche se in modi diversi, il capitalismo coloniale francese della Belle Epoque. Così come non credo che le banche nipponiche costruite oggi da Emmanuelle Moureaux siano più rappresentative del capitalismo rispetto alla trash art o junk art, per esempio. Il nostro mondo, in effetti, moltiplica sia banche che spazzatura. Ciò che vuol sottrarsi al “sistema” della propria epoca è sempre anche parte di questo sistema, non può essere altrimenti. Ogni epoca non è solo sé stessa, ma anche lotta contro sé stessa, odio per sé stessa, così così come l’edonismo di Lorenzo de’ Medici non è meno rappresentativo della Firenze del XV secolo della predicazione di Savonarola.

Tim Noble e Sue Webster, Shadow art

Il vero artista fuori da ogni logica di potere, quello veramente moderno, è l’artista sconosciuto, quello che nessuno compra o guarda. Anzi, che non espone mai. È l’artista che chiamerei tipo Frenhofer (da Il capolavoro sconosciuto di Balzac), l’artista narcisista puro che non mostra le sue opere a nessuno o le distrugge. Il mercato dell’arte non è che una parte della cultura oggi dominante, e chiunque si ribelli alla cultura dominante è per divenire esso stesso cultura dominante.

La sola speranza che resta all’artista ambizioso è quella non di assecondare il gusto delle masse, ma di cambiare, con gli eventi che crea, il gusto delle masse. Comunque alla fine sono sempre le masse (oggi il mercato) a decidere.

Pablo Picasso, Tavola delle illustrazioni con baccanti (da Il Capolavoro sconosciuto di Balzac)


[1] G. Agamben, Archeologia dell’opera d’arte, in Creazione e anarchia, Vicenza, Neri Pozza, 2017. Il libro non è dunque Arte e anarchia, come scrive Bonfante (un lapsus che un freudiano non si lascerebbe sfuggire).

[2] Fino al punto che qualche lettore di entrambi potrebbe pensare che io abbia in parte copiato le tesi di Agamben. A mia discolpa posso portare come prova il fatto che il saggio uscito su «Antinomie» è la versione italiana di un saggio uscito in francese nel 2010 (Le réel à l’époque de la reproductibilité technique. Notes en marge de Walter Benjamin, «Ligeia», 101-104, juillet-décembre 2010, pp. 35-44) mentre il saggio di Agamben fu pubblicato nel 2017 (da una conferenza tenuta nel 2012).

[3] Fatte costruire nel 1964 da Arturo Schwarz, che ottenne da Duchamp l’esclusiva per la riedizione dei suoi ready-made.

[4] Agamben ci ricorda che il termine viene da laos, popolo, ed ergon, opera. Esso anticipa quello che sarà poi chiamato (nel XX secolo) evergetismo, da εὐεργετέω, «compio buone azioni».

[5] Problema che ho affrontato in La modernité et le réel, in «Ligeia», XXIV, 105-108, janvier-juin 2011, pp. 5-13.

[6] Pierre Bourdieu ha approfondito i modi e il senso di questa divergenza tra gusto colto e gusto popolare in La distinzione. Critica sociale del gusto, il Mulino, Bologna 1983.

[7] Vedi The Matrix and Philosophy: Welcome to the Desert of the Real, a cura di W. Irwin, Chicago, Open Court Publishing, 2002.

[8] È questo il caso di altri film di confusione tra artificio e realtà, come Blade Runner di Ridley Scott, The Truman Show di Peter Weir, Her di Spike Jonze. Un altro bel film, meno popolare, su questa indiscernibilità è EXistenZ di David Cronenberg (1999).

[9] A. Danto, Remarks on Art and Philosophy, New York, Acadia Summer, 2014.

[10] V. Sermonti, L’ombra di Dante, nota introduttiva di L. Ripa di Meana, Milano, Garzanti, 2017.

[11] In Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1967.

[12] Installazione che ho commentato in La modernità e il reale, 2004.

[13] Ho sempre pensato (perché penso anche da psicoanalista) che la denuncia catoniana contro gli orrori del mercato dell’arte esprima un odio inconfessato per l’arte moderna, in particolare per gli artisti, che si vorrebbero vedere morire di fame o restare poveri. Li si vorrebbe morire giovani e poveri come Amedeo Modigliani.

[14] Mi sembra che anche Agamben colga qualcosa di simile nel saggio Il capitalismo come religione, parte del libro già citato. Cita Pasolini: «La sola vera anarchia è l’anarchia del potere» (p. 129), quindi, la vocazione anarchica dell’arte moderna è qualcosa di perfettamente consonante all’assetto di potere contemporaneo, capitalista.

già ricercatore del CNR a Roma, esercita come psicoanalista e scrive da filosofo. È stato Visiting Researcher alla New School for Social Sciences di New York, insegna psicoanalisi in vari istituti in Russia, Ucraina e Italia. È presidente dell'Istituto psicoanalitico Elvio Fachinelli. Ha fondato nel 1995 l’”European Journal of Psychoanalysis”. È redattore delle riviste di psicoanalisi “American Imago”, “Psychoanalytic Discourse” e della rivista filosofica franco-indiana “Philosophy World Democracy”. Ha collaborato e collabora a varie riviste culturali sparse per il mondo, di varie lingue. Ha pubblicato vari libri in italiano e in molte altre lingue. Tra i più recenti: “Perversioni” (Bollati-Boringhieri), “Accidia” (il Mulino), “La gelosia” (il Mulino), “Godere senza limiti” (Mimesis), “Conversations with Lacan” (Routledge), "La ballata del mangiatore di cervella" (Orthotes 2020), “Il teatro di Oklahoma. Miti e limiti della filosofia politica di oggi” (Castelvecchi).

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