Il Jewish Museum è un luogo piuttosto fatiscente. Proprio lì, nel marzo 1957, viene inaugurata una mostra. Leo Castelli, che aveva aperto la sua “Leo Castelli Gallery” un mese prima, vi si reca, innescando quello che egli stesso definirà il grande evento della sua carriera. «Era una mostra che, se ricordo bene, si intitolava New Artists: The Younger Generation, o qualcosa del genere [The New York School: Second Generation]. Tutti gli artisti più famosi e giovani, come Mike Goldberg, Joan Mitchell, Al Leslie e Rauschenberg, partecipavano con lavori che già conoscevo. Mi imbattei in un dipinto che mi sorprese parecchio – ne rimasi piuttosto sbalordito – un dipinto verde. Guardai la targhetta e c’era scritto Jasper Johns. Non avevo mai sentito quel nome. Pensai che fosse inventato. Ma non capivo nemmeno di cosa trattasse il dipinto. Non avevo capito, come scoprii in seguito, che si trattava di un bersaglio [Green Target, 1955]».

Fin dall’inizio, qualcosa come una curiosa instabilità sembra aleggiare su Jasper Johns. Castelli si chiede se il nome sia inventato. Si chiede anche per quale motivo sia attratto da un dipinto che solo in seconda battuta scoprirà essere un bersaglio verde. Questo aspetto, questa specie di inafferrabilità costitutiva, di mobilità perpetua e gusto per il disorientamento, ha accompagnato Jasper Johns per tutta la sua vita d’artista.
Tre giorni dopo Leo Castelli si reca nello studio di Rauschenberg in Pearl Street per vedere i quadri di una mostra che aveva in programma. «C’erano alcuni dipinti di grandi dimensioni con cui Bob aveva qualche problema. Gli chiesi se potevo aiutarlo a tirarli fuori e lui mi rispose: “No, no, non preoccuparti. Jasper Johns verrà tra pochi minuti per aiutarmi. Dissi: “Jasper Johns? Il tizio che ha dipinto quel quadro verde?” E lui : “Sì, lui. Ha lo studio qui sotto.”»
(Quello che Rauschenberg evita di dire, e che Castelli ancora non sa, è che i due avevano una relazione. Sembra una sottigliezza oggi, ma all’epoca – in un ambiente artistico americano così macho, dominato dall’espressionismo astratto – non era facile gestire una relazione omosessuale all’interno del mondo artistico. Lo ricorda anche Victor Bockris nella sua splendida biografia dedicata a Andy Warhol. Warhol era molto attratto da Johns e Rauschenberg. Come loro, proveniva dall’arte commerciale. Tutti e tre realizzavano vetrine per negozi. Eppure, ricorda Bockris: «L’ultima cosa che Jasper Johns e Robert Rauschenberg volevano era che chiunque nel mondo dell’arte sapesse che erano gay. Negli anni Cinquanta una simile rivelazione avrebbe distrutto le loro carriere. Mettevano più distanza possibile tra loro e molti degli art director gay che li avevano assunti. Quando Andy si avvicinò a loro alle vernici, lo tagliarono fuori.»)
Così, Castelli parla con Rauschenberg e Johns fa il suo ingresso nello studio. Castelli lo ricorda timido, giovane, modesto. È così curioso di vedere i suoi lavori che interrompe Rauschenberg e gli chiede di accompagnarlo a vederli. «Così siamo scesi, mi sono misurato con quello spettacolo incredibile di bersagli – bersagli con calco in gesso, bersagli con facce – alfabeti, bandiere – rosso, bianco e blu, – numeri bianchi e grigi. Cos’altro? Cos’altro? Beh, tutte le cose a cui Jasper stava lavorando in quel momento. La maggior parte delle opere erano datate ’55 – le più importanti – e ’56.»

La prima personale di Jasper Johns si tiene un anno dopo, il 20 gennaio 1958, nella galleria di Leo Castelli. Un successo strabiliante. Il Museum of Modern Art acquista tre dipinti. Diversi collezionisti di valore (tra questi lo sconosciuto Robert Scull che avrebbe voluto comprare in blocco i pezzi esposti) comprano il resto, fatta eccezione per due lavori.
Ancora Bockris ricorda: «Johns aveva fatto esattamente ciò che Andy sognava. Apparve, apparentemente dal nulla, con una mostra così potente, così controversa e così bella (e che conteneva il soggetto preferito di Andy, un cazzo) che il meglio che i suoi critici potevano inventarsi era considerarlo non patriottico perché aveva dipinto la bandiera americana. Ogni dipinto conteneva un saggio storico sull’arte nella scelta del suo soggetto, nell’applicazione della pittura e delle singole pennellate, così come le audaci domande che Johns si poneva su come le persone guardavano l’arte, cosa pensavano che l’arte fosse essenzialmente. L’impatto travolgente di questi classici istantanei annunciò un nuovo movimento.»
Qualche mese dopo, all’interno della Biennale ’58, il pubblico italiano ha la possibilità di vedere con i propri occhi alcuni lavori di Johns. Tre per la precisione. Lo ricorda Flavio Fergonzi nel suo prezioso libro intitolato Una nuova superficie. Jasper Johns e gli artisti italiani. 1958-1966 (Electa, 2019). I tre quadri esposti sono: Flag, Green Target e Grey Alphabeths. «Giungono per la prima volta in Italia del tutto inaspettati e di fronte a un pubblico impreparato». Sono esposti nella sezione Giovani artisti italiani e stranieri del padiglione centrale, il numero XXXIV, insieme ai lavori di Joan Mitchell, Richard Stankiewicz, il francese François Arnal e i britannici Alan Davie e Anthony Caro. Per lo studioso, non è possibile studiare la posizione delle opere in quella sala, dato che l’archivio storico della Biennale risulta sprovvisto di foto che ne documentino l’allestimento. Questo per sottolineare il suo scrupolo, l’acribia. Il suo lavoro si immerge filologicamente in una moltitudine di note in grado di chiarire e documentare, quando possibile, ogni evento, ogni affermazione. Lo studio sulle fonti è sbalorditivo. Scopriamo per esempio che l’unico a scrivere dei tre lavori di Johns fu Renato Guttuso sul “Contemporaneo”. In Pagine di diario: Dada, con tono piuttosto polemico, egli definisce Flag una «Bandiera americana riprodotta con colori a cera su di un supporto di giornali masticati».
Come accade spesso, le recensioni negative sanno meglio cogliere gli elementi decisivi di un’opera. Guttuso intercetta un gesto duchampiano: «Una metafisica: ma a livello delle elementari». Il libro di Fergonzi tratta mirabilmente la cangiante ricezione della sua opera da parte degli artisti italiani, dando molto spazio alle esperienze di Schifano, Manzoni e Paolini (ma anche di Pino Pascali, Pistoletto, Parmiggiani; e che dire di Gino Marotta, che, nel 1960, con Finestra per Aldebaran, trasforma il bersaglio in un centrino da tavolo fatto all’uncinetto?). Una nuova superficie risulta per questo un saggio di cruciale importanza.
(Coda italica: nel 1962 Ileana Sonnabend lascia Leo Castelli e decide di aprire spazi espositivi in Europa. C’è l’idea di allestire una galleria a Roma con Plinio De Martiis. Affascinata dall’uomo e dall’artista, mette sotto contratto Schifano a cui chiede di lavorare soprattutto a “monocromi”. Il rapporto tra loro non è semplice. Si guasta definitivamente l’anno dopo. Maurizio Calvesi ricorda: «Mario cominciò a seccarsi con Ileana. Poi lei aprì la galleria a Parigi e fece un programma che prevedeva una prima mostra di Rauschenberg, la seconda di Jasper Johns e la terza di Schifano. Quando Mario lo venne a sapere mi disse: “Ma guarda questa, mi mette davanti ‘sti du’ stronzi”. I due stronzi erano Rauschenberg e Jasper Johns!»)
Come indicava Guttuso, un gesto elementare, banale, spicca nei lavori di Johns (bersagli, bandiere…), ma appare deviato, sviato, reso complesso dalle molteplici versioni che egli realizza di uno stesso soggetto, in grado di esplodere in una miriade di varianti. Alcuni sgranano gli occhi, come Alberto Boatto. Nel 1964, a New York, ospite nell’appartamento di Castelli, si ritrova davanti a uno dei Bersagli con calchi di gesso del ’55. Accomunandolo a Las Meñinas di Velasquez, Boatto considera l’opera di Johns una trappola visiva modernissima:
«Quel che appare dominante è l’interna, profonda ambiguità di ciò che chiamiamo mondo reale, assieme alla presa problematica dei nostri sensi su di essa. La cosa che guardavo poteva risultare sia un magistrale pezzo di pittura sia un tiro a segno, un attrezzo abbastanza banale. L’una e l’altra soluzione si dimostravano egualmente convincenti. Ogni cosa era se stessa, ma anche una cosa diversa dalla sua esperienza. Mi ripetevo un’affermazione spesso citata di Johns: “Mi piace il lavoro che sembra emerso da una messa a fuoco sempre mutevole. Non un unico rapporto ma una serie di rapporti, la cui messa a fuoco sia soggetta ai continui mutamenti e trasformazioni.”»
Una delle più note dichiarazioni di Johns certifica un aspetto decisivo del suo lavoro. Riguardo al modo in cui egli usava bersagli, bandiere come soggetto dei suoi dipinti, egli chiarisce di considerarli cose che la mente conosce già. «Questo mi ha dato spazio per lavorare su altri livelli.»
Questa riflessione non riguarda solo i soggetti che egli ha scelto, ma si può estendere a ogni tecnica pittorica che ha utilizzato e costantemente perturbato, contraddetto, trasfigurato, lavorando ancora una volta su diverse messe a fuoco (spingendo gli oggetti tecnici ad altri livelli). Si tratta di un aspetto davvero cruciale, che verrà portato alle sue estreme conseguenze quando Johns lavorerà, in particolar modo negli anni ’70, su telai serigrafici, perturbando, depistando, estremizzando il loro uso. Un buon documento al riguardo sono i due film che l’artista Katy Martin ha realizzato in super 8, registrando il suo lavoro negli spazi della SIMCA. I film sono stati ora restaurati e trasferiti digitalmente. Il primo è intitolato Hanafuda / Jasper Johns (1978-81) e riguarda il lavoro dell’artista su due diverse serie: Usuyuki e Cicada. Il secondo, intitolato Silkscreens (1978), segue la realizzazione della serie intitolata The Dutch Wives. Vedendo e rivedendo i film risulta molto complesso comprendere in pieno il suo metodo di lavoro. Nei due film è un continuo stendere liquidi gelatinosi, staccare pellicole trasparenti, incidere, correggere, alzare e abbassare telai, fare pressione sulle superfici con la spatola. Un lavoro meccanico, una specie di balletto, che però viene costantemente deviato, assoggettato alle scelte, agli scarti, le variabili e le varianti che Johns impone, esegue o fa eseguire. Hanafuda comprende una famosa conversazione con Katy Martin, finita poi all’interno del catalogo MoMA curato da Riva Casterman, Jasper Johns. A Print Retrospective (1986).

Martin gli domanda qualcosa riguardo al processo che entra in gioco nella stampa serigrafica:
«Beh, inizi e lavori finché il tuo interesse regge e se ti interessa cambiare qualcosa puoi cambiarlo… Puoi cambiare il disegno, puoi cambiare l’ordine dei tessuti, puoi cambiare gli inchiostri, puoi cambiare la lucentezza, la qualità fisica, cose del genere.» E quando considera un lavoro finito? «Beh, a volte quando sembra impossibile fare qualcosa di più, a volte hai finito. Quando la tua mente smette di lavorare in relazione alla stampa fondamentalmente … Quando la tua mente smette di lavorare in relazione a ciò che stai facendo o lo hai finito o lo butti via. Questa mi sembra l’unica scelta.»
Un processo fisico dialoga con una situazione mentale. L’opera si dibatte tra questi due stadi. Ma non si tratta di trasferire un’idea su tela o stampa. «L’idea è spesso semplicemente un modo per focalizzare il tuo interesse nella realizzazione di un’opera … La funzione del lavoro non è esprimere l’idea», afferma beffardo a Katy Martin. Anche perché il punto di arrivo sembra sconosciuto. Giunge quando la mente smette di lavorare in relazione a ciò che si sta facendo. Il risultato è spesso enigmatico.

È possibile che il lavoro di Jasper Johns sia prossimo al concetto di anamorfosi. In un saggio rimarchevole intitolato Anamorphosis: Jasper Johns, Richard Shiff distingue tre modelli. Il primo è classico. Il secondo è modernista. Il terzo è postmoderno. L’anamorfosi classica privilegia un punto di vista unico (quello del Re ad esempio, quello della classe nobiliare, dell’aristocrazia); per questo «diventa un prodotto di fattori esterni; la sua devianza deriva dalle abili manipolazioni tecniche eseguite da chi ha il controllo del proprio sistema di rappresentazione, da chi può facilmente tornare a una visione normale.» A differenza di quella classica, la devianza modernista è tutta interna, e deriva dall’espressione di sé. «Poiché tutti gli individui esprimono se stessi quando fanno rappresentazioni (almeno in una certa misura) l’anamorfosi può diventare la regola piuttosto che l’irregolarità. (…) Il grado di devianza stilistica individuale (o mera particolarità) diventa l’indice indicativo dell’espressione di sé.» Si pensi ad esempio al “genio” romantico in grado di riorientare la tradizione classica: «Un individuo dotato di genialità crea uno stile forte e un nuovo centro da cui tutto deve apparire diverso eppure “giusto”. (…) La modalità modernista dell’anamorfosi converte ogni devianza individuale in uno standard o un punto di vista che deve essere riconosciuto. Ogni vista è privilegiata. Ognuno è signore. E da una prospettiva modernista, ogni caso di distorsione equivale a un’anamorfosi di grado zero, poiché ognuno apparirà assolutamente corretto rispetto alla propria origine, un individuo che esprime se stesso.»
Il terzo modello, quello postmoderno, sembra prossimo a Jasper Johns. «Possiamo ora sperimentare e identificare un’anamorfosi postmoderna frequentando l’operato di Jasper Johns? Johns agisce in senso negativo. Non riesce a indicare un’unica posizione dalla quale osservare i cambiamenti che subiscono le sue rappresentazioni; così, abbandona il sistema classico di anamorfosi. Inoltre non riesce a esprimersi, a “segnare” la posizione della sua persona; con questa evasione, prende le distanze dalla pratica modernista».
Johns lavora su oggetti preesistenti, prediligendo quelli riconducibili ad aree chiaramente definite (banali, elementari, li chiamava Guttuso), che possano essere misurati e trasferiti su tela, giocando su uno sbilanciamento tra il segno e il significato che questi oggetti hanno nella realtà. Uno sbilanciamento di messa a fuoco, di nuovo. Non è tutto. Per Shiff, Johns non afferma «né il controllo e la maestria che trasformano la realtà, né indulge (con un significato) nella scoperta della propria persona, del proprio punto di vista individuale. Nessuna autorità centrale sembra guidare la sua pratica, né l’autorità esterna del classicismo (la legge di Dio, la legge della natura), né l’autorità interna del modernismo (il proprio sé).» Insomma, l’arte di Johns è decentrata. Qualcosa che lo stesso Shiff si affretta ad avvicinare al post-strutturalismo anni ’70, alla sua concezione di “gioco”. Questo scivolamento, questa continua danza serigrafica, questa specie di depistaggio del senso, non è forse una sorta di “gioco” tra i livelli delle immagini, la loro indecidibilità, il loro interminabile processo di interpretazione ?
La pratica di Johns opera attraverso continui cambi di posizione, distorsioni: cioè un’anamorfosi. Siamo di fronte a un sistema aperto dove alcune polarità sembrano saltare. Dentro/fuori, causa/effetto si alterano e si spostano, scambiandosi di posto. Saltano le posizioni. Johns sembra optare per una (non)posizione. E Shiff può riassumere: «La (non)posizione johnsiana non ha bisogno di succedere cronologicamente alle pratiche classiche e moderniste, ma si pone sempre come loro pronta alternativa, fuori dal tempo. Se il classicismo privilegia un punto di vista e il modernismo privilegia ogni punto di vista, il postmodernismo non privilegia alcun punto di vista. L’anamorfosi classica posiziona i suoi spettatori per vedere correttamente un oggetto esterno distorto. L’anamorfosi modernista mostra invece la posizione deviante dell’altro, il caratteristico punto di vista interiorizzato dell’altro. L’anamorfosi postmodernista mette in gioco il fattore della posizione; costringe lo spettatore a interpretare senza fine e ad assumere voci, gesti e discorsi diversi. Mentre il classicista padroneggia gli oggetti e il modernista padroneggia il sé, il postmodernista si sforza solo di padroneggiare il medium.»
Questo gioco anamorfico (a cui il critico partecipa) è forse il centro dell’opera di Jasper Johns? Come inquadrare l’opera? E l’artista? Operando quale messa a fuoco? Figura instabile, enigmatica. L’ha compreso anche Matt Groening che, in una puntata dei Simpsons, lo mostra a una vernice, intento a rubare una fetta di torta e alcune lampadine. Ma l’aveva già capito Leo Castelli, davanti a quel bersaglio verde: sbalordito, incapace di comprendere, a prima vista, cosa fosse. Il titolo di un suo lavoro del 1972 sembra quasi prendere questa lettura alla lettera. Si intitola According to What.*

* Nota: Le citazioni di Leo Castelli si trovano in E. de Antonio e M. Tuchman, Painters Painting. A Candid History of the Modern Art Scene (1940-1970), Abbeville Press, New York, 1984; i ricordi di Victor Bockris sono contenuti in V. Bockris, Warhol, Penguin Books, 1989; sulla ricezione di Johns in Italia, vedi l’importante saggio di Flavio Fergonzi, Una nuova superficie. Jasper Johns e gli artisti italiani. 1958-1966, Electa, Milano, 2019; per i ricordi di Alberto Boatto vedi A. Boatto, New York 1964 New York, Italo Svevo, Roma, 2019; riguardo a Schifano, Johns e Ileana Sonnabend, vedi L. Ronchi, Mario Schifano. Una biografia, Johan & Levi, Monza, 2012; le citazioni di Jasper Johns sono tratte da L. Alloway, American Pop Art, Collier Books, New York/London, 1974 e R. Casterman, Jasper Johns. A print retrospective, MoMA, 1986; il saggio di Richard Shiff, “Anamorphosis: Jasper Johns”, appare in J. Cuno (a cura di), Foirades/Fizzles: Echo and Illusion in the Art of Jasper Johns, University of California, 1987; resta da segnalare il saggio rimarchevole di Leo Steinberg, “Jasper Johns: The First Seven Years of His Art”, in Other Criteria. Confrontations with Twentieth-Century Art, University of Chicago Press, 1972.
** Grazie a Enrico Camporesi per avermi ricordato la puntata dei Simpsons.
In copertina: Jasper Johns, Flag, 1954-55, encaustic, oil and collage on fabric mounted on wood (3 panels), The Museum of Modern Art, New York, © The Museum of Modern Art