È da poco uscito un numero della rivista annuale «Ermeneutica letteraria» (il XVI del 2020, Fabrizio Serra Editore), per le cure di Paolo Leoncini, Valter Leonardo Puccetti e Massimo Schilirò, dal titolo I limiti del “dire”: parola scrittura immagine nel ’900, che dedica diversi dei suoi contributi a Emilio Cecchi (ma anche a Virginia Woolf, Bernard Berenson, Massimo Bontempelli, Alberto Savinio, Italo Calvino, Goffredo Parise, Giorgio Manganelli, Antonio Tabucchi e Roberto Calasso). Proponiamo qui, per la cortesia dell’autore e dei curatori, il saggio di Luigi Weber.
A.C.
In limine al suo Viaggio nella Grecia antica, Cesare Brandi appone una paginetta intitolata Dedica a Emilio Cecchi che contiene, tra le altre giustificazioni del gesto, la seguente:
Tutti questi motivi sono veri, ma quello più vero di tutti, e che per mio castigo non lascerò nella penna, è il ricordo del tuo bellissimo libro sulla Grecia, che né prima né poi ho avuto il coraggio di rileggere, per il giusto timore o di non scrivere o di stracciare queste pagine[1].
Omaggio deferente e insieme strategia retorica d’alta e antica ascendenza, quella di negare, se non la conoscenza, almeno la rilettura di un classico nel cui solco la scrittura che si va ad offrire ai lettori inevitabilmente si pone. Poco importa appurare se davvero Brandi non abbia risfogliato il bellissimo libro di Cecchi, prima di partire o dopo il suo ritorno dall’Ellade; piuttosto merita osservare che, nella lettera-dedica, tale libro non viene nemmeno nominato, a testimonianza del suo essere – almeno per il critico senese – stabilmente assurto nel canone dei grandi scritti del tempo, e come a dire (al lettore, non a Cecchi, giacché la dedica è pubblica, e si trova in apertura di un testo a stampa, non in una missiva privata) che sia un’ovvietà o una ridondanza scriverne a chiare lettere il titolo: Et in Arcadia ego[2].
In quel momento storico si assiste a una curiosa congiuntura editoriale. Nel giro di pochi anni, alla metà dei Cinquanta, tre grandi maestri della prosa italiana del Novecento, tre eccellenti scrittori di reportage, donano ai loro lettori un viaggio in Grecia. Sono, in ordine cronologico, Giovanni Comisso con Approdo in Grecia (Bari, Edizioni Leonardo da Vinci, 1954), il già menzionato Cesare Brandi con Viaggio nella Grecia antica (Firenze, Vallecchi, 1954), e infine Emilio Cecchi, con Et in Arcadia ego (Milano, Mondadori, 1960), che pare l’ultimo della fila mentre, ovviamente, ne è l’apripista. Quelli di Comisso e di Brandi sono infatti i primi esiti di un viaggio; viceversa quello di Cecchi è un classico giunto alla quarta ristampa[3], accresciuto, rispetto alla princeps del 1936, delle impressioni di una successiva visita, compiuta nell’estate del 1957[4], così che il libro si presenta bipartito, con una metà nata nel 1934, e l’altra ben più recente («vent’anni dopo sono tornato in Grecia», scrive Cecchi, «e quali anni!», all’inizio della Postilla 1957)[5]. Accadrà lo stesso al volume di Brandi, che nella versione definitiva contiene una sezione del 1954 e un’appendice di altri scritti composti in seguito, fino agli anni Ottanta. Il dialogo tra le due opere sembra perciò riproporsi anche in termini di – ricercata? – affinità strutturale.
Altre simili peregrinazioni, compiute all’epoca, confluiscono nel Diario di Grecia di Lalla Romano (viaggio nel 1957; edito a Padova da Rebellato nel 1960), e in Dall’Ellade a Bisanzio di Arbasino (viaggio nell’estate del 1960; stampato in rivista ma approdato in volume solo in tempi recenti), che chiude il cerchio, in molti sensi. La voga filellenica e neo-neoclassica degli anni Venti e Trenta è lontana, ormai. L’Europa ne ha consumato i residui ardori nell’entre-deux-guerres, e da noi il povero Savinio è già sottoterra[6]; proprio l’operetta di Arbasino ci offre di ciò la più chiara coscienza, maneggiando tale voga come archeologia del costume e della cultura, e mostrando la linea sottile che distingue chic e volgarità. Sta, piuttosto, iniziando l’epoca del turismo globale, che farà tutt’uno con il boom economico.
Ad apparentare alcune tra queste diverse scritture non è solo un’evidente omologia tematica, né il dialogo citazionale, in parte implicito, in parte esplicito, che si istituisce tra esse – Brandi che dedica a Cecchi; Cecchi che menziona Brandi nella Postilla 1957[7]; Arbasino che evoca tutti e due, ovviamente, e anche Comisso, ma Brandi e Cecchi in particolare, nella stessa pagina[8] – bensì un aspetto apparentemente marginale, che costituisce l’oggetto del presente articolo: il ruolo giocato dalla fotografia[9]. Non si tratta davvero di qualcosa di marginale, come una distratta sfogliatura dei testi potrebbe far pensare. E nemmeno di ovvio, sebbene la letteratura odeporica e la saggistica di argomento artistico siano due dei generi del discorso che più si offrono – anzi quasi la richiedono, come per necessità congenita – a un’integrazione visuale.
Cominciamo da alcune osservazioni materiali: la prima stampa di Et in Arcadia ego contiene 48 tavole fuori testo. La seconda e la terza edizione, invece, ne sono del tutto prive (su esplicita richiesta di Cecchi)[10]; la quarta le reintroduce, ma sono ventiquattro, metà esatta dell’originale. L’autore non si è limitato a dimezzare il supporto iconografico: qualche rotazione, all’interno del materiale, è avvenuta. Delle quarantotto inserite nella princeps ne restano solo ventuno, poiché in EAE60 vi sono anche tre scatti[11] che mancavano in EAE36. Che cosa rappresentino, tutte queste foto, lo diremo poco più avanti.

Nell’Approdo in Grecia di Comisso, che è un volume in ottavo[12], figurano ben 77 fotografie (più una fuori numerazione, nel controfrontespizio), scattate da quattro autori diversi: Fosco Maraini, Pier Maria Bianchin, Rudolf Pestalozzi, e dallo stesso Giovanni Comisso. Fotografie in bianco e nero, ritratti o paesaggi di eccezionale suggestione, alcuni a tutta pagina o addirittura a doppia pagina, a metà tra Walker Evans e Ernesto De Martino, che si conquistano una centralità innegabile, a discapito del breve testo scritto da Comisso. Il quale pure, paradossalmente, in copertina figura come autore unico, e varrebbe la pena riflettere sulla sottovalutazione che le immagini hanno patito per molto tempo nell’editoria italiana; tanto più che l’opera faceva parte di una collana intitolata proprio “Immagini del mondo”. Evans e De Martino non sono stati evocati qui a caso. Gli scabri primi o primissimi piani di vecchi, donne o bambini, così come i paesaggi pietrosi, dove colonne cadute o misere case sembrano (e forse sono) della stessa sostanza, una materia aspra che fonde e confonde rughe d’espressione ai solchi dei secoli e delle intemperie, potrebbero benissimo appartenere a luoghi del nostro Meridione. E solo un anno prima, nel 1953, era apparsa la bellissima nuova versione di Conversazione in Sicilia, reinventata da Vittorini con gli scatti di Luigi Crocenzi: in quell’opera l’eredità del maggior fotografo dell’America della Grande Depressione, del maestro di Let Us Now Praise Famous Men, strizzava l’occhio, in anticipo, alle future documentazioni visive che avrebbero arricchito, tra il 1959 e il 1961, Sud e Magia o La terra del rimorso.
Non vi sono foto, viceversa, nel libro di Brandi, né nel piccolo Diario della Romano, nonostante quello del senese sia un viaggio dedicato al patrimonio archeologico-artistico della Grecia, e niente vi sarebbe stato meno fuori luogo di un’appendice iconografica. Quanto alla Romano, la scrittrice/pittrice fu una pioniera, almeno entro i confini della letteratura nazionale, nel campo dell’iconotestualità, e insieme di quel che è stato definito landscape writing, cosa che rende la sua opera tra le più considerate nel recente filone dei Visual Studies[13]. Tuttavia entrambi, in questa occasione, decisero di limitarsi alla parola.
Abbiamo infine l’edizione Adelphi del reportage di Arbasino, remotissima cronologicamente dai fatti narrati e dalle altre pubblicazioni suddette, ma tutt’altro che svincolata dal côté. È accompagnata da istantanee di quel lontano viaggio: dodici scatti, di grande valore estetico e insieme documentario (due ritraggono Maria Callas durante le prove della Norma al teatro di Epidauro, un attesissimo evento cultural-mondano che si risolse in un disastro a causa del maltempo; evento cui naturalmente Arbasino partecipò), firmati da un nome importante della fotografia italiana, Giacomo Pozzi Bellini. Questo nome suggerisce una sorta di apparentamento, di consanguineità ideale, con gli antecedenti dell’opera. Fatto che, peraltro, non manca di essere sottolineato, nel testo di Dall’Ellade a Bisanzio:
«Mettiamoci in posa casual – scrive Arbasino – per l’obiettivo illustre di Pozzi-Bellini (lo si incontra la domenica da Emilio Cecchi. Negli anni Trenta girarono insieme Il pianto delle zitelle su un caratteristico pellegrinaggio oltre Fiuggi. Nelle Corse al trotto ci sono un paio di foto…)».[14]
Come sempre, Arbasino gioca con le allusioni, e il suo posare per l’obiettivo illustre serve soltanto, in filigrana, a istituire un rimando a Cecchi e agli anni Trenta, così da creare un ponte tra il suo libro, il suo viaggio in Grecia, e l’illustre precedente. Peraltro, con la finezza di farlo attraverso uno spostamento. Altrove, il futuro autore di Fratelli d’Italia cita a chiare lettere Et in Arcadia ego. Qui invece indica le Corse al trotto vecchie e nuove, libro quasi parallelo, di certo nato in contemporanea[15]. Nella seconda edizione accresciuta[16] figuravano 12 tavole, ed effettivamente le prime due («ci sono un paio di foto…») sono fotogrammi del documentario Il pianto delle zitelle, diretto da Pozzi-Bellini nel 1939, proprio su sceneggiatura di Cecchi. Accompagnavano l’articolo intitolato Un pellegrinaggio[17](parola, dunque, non estratta a caso dall’inossidabile memoria arbasiniana).
Un pellegrinaggio descrive la visita dello scrittore-giornalista a Vallepietra, piccolo borgo nei monti Simbruini, tra Lazio e Abruzzo, celebre per una frequentatissima cerimonia religiosa che si svolgeva per metà in paese e per metà presso le grotte nei boschi circostanti. Il resoconto somiglia non poco al viaggio di D.H. Lawrence narrato in Mornings in Mexico – e marginalmente dallo stesso Cecchi in Messico – nei luoghi dove gli indiani Hopi celebravano il rituale del serpente: è un momento cruciale di trapasso tra la trivializzazione turistica del rito e una sua permanente vitalità per la comunità che lo esprime. In questo, Un pellegrinaggio è rubricabile come un altro caso di proto-De Martino, ma a noi interessa, al momento, soprattutto perché tale visita avvenne il 27 maggio del 1934, poco prima che Cecchi partisse per la Grecia (dal 27 giugno al 16 luglio di quello stesso anno). Nel Fondo Cecchi al Gabinetto Vieusseux le foto del passaggio a Vallepietra[18] sono immediatamente adiacenti all’impressionante corpus, a tutt’oggi inedito, di immagini scattate dallo scrittore fiorentino durante i giorni passati tra Creta, Peloponneso, Attica, Argolide, e naturalmente Arcadia. Nel Fondo ne risultano conservate centonovantotto, divise in quattro rullini[19], tutte ancora da studiare e decifrare[20] perché di notevole interesse, esattamente come quelle realizzate tra Nord America e Messico durante il viaggio del 1931[21]. Alcuni negativi sono danneggiati, ma la maggioranza di essi è in perfette condizioni di leggibilità, e vi sono ragioni per supporre che gli scatti fossero anche di più (cfr. infra, nota 27).
Con un simile tesoro di documenti fotografici di prima mano a disposizione, sarebbe del tutto logico immaginare che le 48 tavole fuori testo della prima edizione di Et in Arcadia ego siano state scelte attingendo da esso, come peraltro era accaduto con la prima stampa di Messico: in quella sede soltanto sei su trentatré non erano state scattate da Cecchi. Invece qui il fiorentino opera in tutt’altro modo: costruisce il suo nuovo libro di viaggio in maniera sottilmente innovativa rispetto al precedente, generando una continuità e insieme una contraddizione tra i due pannelli, quello verbale e quello visuale, di cui l’opera è composta. Il confronto con Messico risulta necessario e illuminante: là il viaggio di Cecchi era scandito da istantanee (più, in qualche caso, da cartoline paesaggistiche o da riproduzioni artistiche) che sostanzialmente rispettavano e riproducevano il moto nello spazio e nel tempo dell’autore; doppiavano le parole e fungevano da illustrazione, intervallando la scrittura come tappe, nella miglior tradizione della narrativa odeporica. In EAE36, invece, le tavole sono confinate tutte in fondo al volume. Se Messico sperimentava l’inserzione e la mescolanza delle foto nel flusso del discorso, Et in Arcadia ego opta per l’estrazione e la separazione[22]. In più si tratta, nella quasi totalità dei casi, di foto di repertorio (archivio Alinari, in massima parte). Soltanto due sono di mano di Cecchi: la n. 30 e la n. 48, e ne diremo a breve. Le altre sono riproduzioni di opere d’arte o di loro dettagli. Statue o figurine fittili, in qualche caso pitture parietali e vascolari, e poi anfore, sigilli, tazze, steli funerarie. Nient’altro. L’architettura è assente e, data la perdita dell’alzato di quasi ogni costruzione ellenica antica, la presenza di essa sembra essere surrogata dai residui della sua ricca ornamentazione scultorea (metope, fregi, frontoni).

A chi non avesse letto il libro, la scelta potrebbe apparire ragionevole, specie per un viaggio compiuto in Grecia nei primi anni Trenta. Una scelta da classicista, da amante e da storico dell’arte, da conoscitore attento e descrittore appassionato, quale senz’altro Cecchi era. Ma è una scelta, per intenderci, che avrebbe potuto fare Cesare Brandi; meglio, che ci saremmo attesi da Brandi. Invece Brandi chiude la porta alla fotografia, e lavora soltanto – magistralmente – per forza di prosa, di concetto, di metafora, di lessico. Cecchi usa immagini fotografiche da manuale, del tutto didascaliche, e lascia in un cassetto le sue.
Abbiamo accennato, in precedenza, a una tensione – continuità e contraddizione insieme – tra le due parti dell’opera. Infatti, la questione nodale è la seguente: c’è coerenza o incoerenza tra il testo di Et in Arcadia ego e le sue foto?
Prima di tutto, sappiamo che la cronologia è totalmente alterata: il viaggio reale di Cecchi si svolge via nave da Brindisi a Corfù (dove arriva il 29 giugno); poi lo scrittore si stabilisce ad Atene, e da lì fa base fino al 10 luglio, muovendosi per visitare Delfi il 4-5 e Creta il 6-8; dall’11 al 14 luglio si sposta nel Peloponneso, toccando in successione Eleusi, Corinto, Micene, Nauplia, Epidauro, Olimpia; riparte da Patrasso verso l’Italia il 15. Il libro, invece, inizia a Creta. Si muove in lungo e in largo prima nella grande isola, culla della civiltà minoica, poi per la Grecia continentale, e termina ad Atene, secondo «un disegno unitario – chiosa Margherita Ghilardi – che privilegia il succedersi non tanto dei luoghi nello spazio quanto l’avvicendarsi delle diverse civiltà dentro la storia»[23]. In effetti, che il disegno dell’opera sia questo, lo si riscontra già in Mercato a Candia, dove si legge: «Muover da Creta a visitare la Grecia, è un po’ come entrare in Italia dall’Etruria o dal Lazio; facendo coincidere quanto si può i due itinerari: topografico e storico»[24], ma se ne trova conferma anche dalla disposizione delle 48 tavole a fine libro. Le quali sono a loro volta organizzate in ordine rigorosamente cronologico, a partire dagli affreschi dei palazzi di Cnosso, discendendo fino alle terracotte ellenistiche di Tanagra e Mirina. Tale pianificazione spiega anche la presenza delle due foto d’autore – uniche vedute di paesaggio nel volume, uniche due foto en plein air – e in particolare dell’ultima, la più bizzarra a prima vista. Nell’elenco delle tavole in appendice a EAE36, reca l’asciutta didascalia Ceramico, Atene, e nessun credito. Insieme alla foto n. 30, che raffigura le Rovine del tempio di Zeus a Olimpia[25], epitomando in un solo scatto il collasso di tutte le strutture antiche, la n. 48 viene ammessa nel libro perché emblematica. Qui lo scorcio coglie una statua femminile acefala su piedestallo (con ogni probabilità una divinità in trono), stagliata dinanzi a uno sfondo di brutte costruzioni in cemento dal profilo inequivocabilmente modernista.
[…] Si giunse, in questi ultimi anni, alle novità tedesco-olandesi di certi casermoni scolastici e del blocco di magazzini in cima a via dello Stadio: masse cubiche, muri senza una cimasa, finestroni da studio di pittore: la musica solita.
Fra questa roba, le antichità non stanno circoscritte e premurosamente imbandite. La necropoli del Ceramico, sulla strada del Pireo, si trova accosto ai deposti tranviari, in pieno mercato d’erbaggi, nel regno degli spedizionieri e dei bagarini […][26]
Dopo l’età ellenistica delle terrecotte, con un salto vertiginoso, il comparto di fotografie si conclude così approdando al presente (le novità tedesco-olandesi, ovviamente, stanno per il linguaggio del Bauhaus), e documentando un contrasto stridulo tra forme incompatibili[27].
L’uno e l’altro scatto – 30 e 48 – scompaiono nella selezione operata per EAE60, dove le immagini tornano a disporsi in modo cadenzato, intervallando le pagine scritte e riassumendo la connotazione di un canonico corredo di illustrazioni.
La convergenza strutturale in EAE36 dimostra dunque una volontà dell’autore di allontanarsi dall’impianto del reportage – conservato evidentemente ancora in Messico – e insieme di istituire un preciso dialogo tra un viaggio di parole e un viaggio di immagini. Volontà che le successive stampe dilavano e cancellano.
Ma le cose, già nel 1936, non si esauriscono così.
L’impressione di chi scrive è che vi sia una anche netta antitesi tra le due sezioni, quella verbale e quella iconografica, rinforzata dalla disposizione editoriale. Perché il libro di Cecchi contiene ben altro che il racconto di una peregrinazione attraverso il patrimonio artistico-archeologico ellenico.
Il corpus principale degli articoli apparve sul «Corriere della Sera» tra luglio e dicembre del 1934, accrescendosi alla spicciolata di altre aggiunte fino a maggio del 1936 (il volume Hoepli arrivò in libreria a ridosso delle ultime uscite, nel mese di luglio). «La serie – ci informa la Ghilardi – sarà interamente composta dopo il rientro in Italia con l’ausilio di appunti non conservati»[28]. Ecco, questa informazione, per EAE36, è cruciale. Perché l’uomo dei Taccuini[29], l’uomo delle fittissime annotazioni giornaliere che diventano saggi, articoli, recensioni, racconti, questa volta ha lasciato cadere i suoi appunti, certo, tuttavia ha depositato, nel Fondo che porta il suo nome, una straordinaria raccolta di diverse annotazioni, vergate usando la scrittura della luce, ossia la fotografia. E così esse vanno lette, anche e soprattutto tenendo conto che non sono mai state rese pubbliche, rimanendo quindi allo stadio di materiale preparatorio, di autentico avantesto. Dove si vede concretamente all’opera quell’«etica del visivo» di cui così bene ha parlato Paolo Leoncini nella sua monografia cecchiana[30].
Consideriamo un passo dell’articolo S. Tito, Gortina:
Gortina, agganciata nel ricordo con le cento cose che sono nel suo territorio: il santuario delle divinità egizie; il tempio d’Apollo, con la statua del nume, decapitata e appoggiata al muro come una bambola; e mezzo chilometro più in là, l’odeon romano, e la parete di macigno che reca incise leggi della Grecia antichissima. Mi perdonino gli eruditi se, per tanti e tali monumenti, non cederei quanto vidi, proprio accosto alle tavole delle leggi, nell’abside squarciata del Pythion ormai invaso di sterpi e alberi che scalzano le pietre superstiti.
Nell’angolo più riparato, su un mozzicone di colonna, era disteso e fermato con un sasso uno scialletto dei più comuni, di lana bianca a maglie rade, e faceva da tovaglia d’altare. Sopra v’eran alzate due immaginette a colori, della Vergine e di Santi; poco più grandi d’una cartolina, rozzamente incorniciate e già stinte. Fra quelle macerie, in quella solitudine, emanava da tale divozione di pastori e contadini un’aura di catacomba, di santuario primordiale e, un poco anche, d’un altaruccio pagano in fondo a un bosco[31].
Il pezzo eponimo del libro, Et in Arcadia ego, è ancora molte pagine di là da venire. Posto al centro di una terna di articoli di eccezionale caratura stilistica, scritti a documentare il passaggio a Olimpia (quattro, se si considera anche quello dedicato al museo), si trova solo alle pp. 92-94 del volume. Ma la prima vera epifania di qualcosa che sembra partecipare del motivo pittorico inventato da Guercino e ripreso da Poussin è già qui, nella tappa cretese, in questo santuario primordiale. È interessante riscontrare come l’inquietudine, che sempre abita l’occhio di Cecchi, e che lo spinge a notare/annotare ciò che più lo turba, che più gli è remoto o enigmatico o spiacevole, sia il meccanismo generativo principe della sua scrittura. È di fronte a questa minima immagine, colta al margine, quasi casualmente, di tanti e tali monumenti, peraltro tutti in frantumi, che si impenna l’emozione del viaggiatore-critico. Ciò che lo fa fermare, e lo induce alla meditazione, parrebbe un luogo di ingenua devozione popolare, una scrittura oggettuale quasi strapaesana (La Vergine, i Santi) che si sovrappone alla pletora dei segni – caduti – dedicati per millenni agli dei falsi e bugiardi. Sembrerebbe la ricerca, da parte del cattolico Cecchi, di un simbolo confortante e vivo in mezzo a tutta quella morte. E invece ne risulta l’opposto: l’altarino improvvisato con lo scialle e le cartoline già stinte, su un mozzicone di colonna, equivale al teschio osservato dai due pastori del Guercino, perché in esso si sovrappongono come palinsesti la catacomba, il santuario primordiale e un altaruccio pagano. Dice il teschio al vivo che anche in Arcadia abita la morte. Dice l’altarino dei pastori a Cecchi che anche la sua fede attuale, la religione del suo tempo, è destinata a svanire, e al massimo a farsi materiale d’appoggio per quelle che verranno.

Il brano sarebbe già molto ricco di suggestioni e implicazioni da sé. Ma diventa particolarmente impressionante quando, sfogliando il catalogo del Fondo al Vieusseux, si incontra, riemersa davanti ai nostri occhi quasi ottantacinque anni dopo, la foto di questo preciso luogo[32]. E così avviene di molti altri passi, tutti i più vividi del libro, che trovano puntualissima corrispondenza negli scatti dell’autore.
Ecco un frammento da In navigazione:
La mattina, in prossimità di Candia, alzando dal lavabo il viso insaponato, mi andò lo sguardo a un finestrino che si apriva rotondo sopra i rubinetti. Nella penombra d’un sottoponte scorsi una fila di cavalli, tranquilli e maestosi, che in quella cornice obbligata parevano più grandi del vero. Mi tornò in mente il sigillo miceneo dove si vede l’arrivo a Creta del primo cavallo; e l’animale che si pavoneggia sulla banchina, con dietro la nave che l’ha portato, ancora seduti agli scalmi, a naso ritto, i rematori[33].
È un brano minimo, e nondimeno molto denso, con il fulmineo comunicarsi della visione diretta, casuale, dei cavalli trasportati nella stiva di un piroscafo, al ricordo del sigillo miceneo, e di conseguenza a un mito classico, in una sorta di epifania metafisica. Questa veloce annotazione nasce come rielaborazione di foto presenti nel Fondo. Ci sono, qui cooperanti, due diversi dispositivi che funzionano come delimitanti (cornice obbligata) e insieme quasi generatori della visione: il finestrino rotondo – un oblò, o hublot, come li chiama ancora Savinio – e l’apertura del sottoponte, che sarebbe un rettangolo, ma per la prospettiva in scorcio diventa un trapezio. Come in un quadro di De Chirico, abbiamo due intelaiature geometriche una dentro l’altra, contenenti un ente inatteso, apparentemente incongruo su una nave, ossia dei cavalli. Visionando le fotografie, comprendiamo che Cecchi ha sceneggiato un episodio – la mattina, il volto insaponato, lo sguardo che inciampa in un’immagine inattesa, la riflessione che ne sgorga – a partire da scatti che ha realizzato, e che naturalmente sono stati presi con agio – non davvero dalla cabina – magari passeggiando sul ponte superiore. Che il dispositivo sia cruciale ce lo dice l’autore stesso, annotando come le dimensioni degli animali ne sembrino enfatizzate: «in quella cornice obbligata parevano più grandi del vero». L’agilità del pensiero di Cecchi converte i cavalli reali in una dimensione monumentale, passando anche per una miniaturizzazione (i sigilli cretesi; e nell’appendice di EAE36 ve ne è documento), risalendo poi alla grandezza, senza misura, del mito.
Ancora un prelievo, da Di certi ciechini:
Tale fu il nostro arrivo all’anfiteatro d’Argo, ch’è poi uno spettro d’anfiteatro: a fior di terra l’incerta dentatura di qualche gradino, sotto agli stocchi delle agavi. Disteso su un mantellaccio nero e bucherellato, al riparo d’una maceria, dormiva un barbuto e tozzo accattone. Era talmente un accattone, che si sarebbe detto recitasse una parte, e seguitasse ad esser di scena: attore rimasto dimenticato in un teatro chiuso da millenni[34].
Ch’è poi uno spettro d’anfiteatro… Nel Fondo Cecchi si trova un’istantanea notevole, tutta occupata dalla rovina del teatro di Argo. E solo guardandola si apprezza appieno la definizione di spettro, giacché la fiancata della collina manifesta appena una velatura, come una filigrana, nella quale si leggono ancora le gradinate, quasi completamente levigate, erose, franate. La natura sembra aver riconquistato il grezzo della scarpata, e tuttavia nel grezzo permane un ricordo d’ordine, una regolarità che non è geologica ma umana, come in certi dipinti dei ferraresi, dove i fondali di montagne e rupi hanno una squadratura così astratta da sembrare mura ciclopiche, tirate però su col filo a piombo.
In più, questo brano contiene – come molti altri – quello che par essere uno dei punti d’accesso al vero libro segreto (continuando a usare la felice formula continiana) dentro Et in Arcadia ego, ed è la figura, impressionante, del barbone, attore dimenticato da millenni in un teatro ormai invisibile. A lui si riconnette una foto magnifica del Fondo, che raffigura un anziano seduto a un tavolo, in un luogo non identificato, impegnato a fumare una lunga pipa, e che, nella foggia dei capelli e della riccia barba, assomiglia in modo perturbante a un Pan, seppur in abiti moderni. Se noi osserviamo le foto di Cecchi, e dunque riusciamo a ricostruire, attraverso di esse, il suo modo di guardare la Grecia, ci rendiamo conto che sembrano importargli molto meno le opere d’arte e le testimonianze del passato, rispetto a certe figure umane, ai luoghi del presente (vie, mercati, stazioni, angoli insignificanti di città), a tutta un’antropologia minore, ma estremamente vivida, e nella quale traluce ancora una sorta di deformata e tuttavia riconoscibile persistenza dell’antico.
«Cecchi è stato un maestro discreto – ha osservato Schilirò – e ha disseminato il suo magistero»[35]. È vero, e ne potremmo addurre, anche in questo circoscritto settore (i viaggi in Grecia), diversi saggi. Intanto, è a Olimpia che i tre scrittori, Cecchi Brandi e Arbasino, si incontrano – metaforicamente –per davvero. In quell’Olimpia a cui Cecchi dedica pagine mirabili, e per la quale i toni scelti dagli altri due suoneranno piuttosto simili ai suoi. Ma il magistero si scorge anche altrove. Se di certi passi della suite museale ateniese[36] fa tesoro senza dubbio Brandi, si legga invece questo pezzo di Cosmopolitismo: Arbasino, oltre venticinque anni dopo, dimostrerà di aver appreso a questa scuola metodo, ritmo e linguaggio.
Il pizzetto alla Venizelos sopravvive specialmente negli anziani; ma non mancano rustici e cascanti mustacchi macedoni. Moltissimi ostentano due virgolette alla Charlot-Hitler. Altri sono sbarbati, e accuratamente scotennati torno torno alle orecchie che reggon le suste degli occhiali: deve trattarsi di residui del tipo wilsoniano, che imperversò e fece strage nel dopoguerra e che retrocede e s’asserraglia nei paesi minori: finché si troverà soltanto nella Nuova Guinea o a Celebes. Giovani ufficiali, eretti e stringati nel kaki irreprensibile, non hanno da invidiare ai più eleganti figurini militari britannici: mentre il sergente maturo mostrerà piuttosto non so che rumorosa espansività francese accarezzandosi il baffone à la papa Joffre. Generalmente, parecchia cura nel vestire, senza pacchianerie. In testa ai giovani, non poca brillantina. Ma può succedervi di vedere, in mezzo alla strada, uno vestito civilmente che si soffia il naso con le dita: non raro spettacolo anche a Nuova York o a San Francisco, e che non si registra affatto per curiosità pettegola; ma per attestare una naturalità che esplode di sotto alle convenzioni, in barba al mondo[37].
Se fosse possibile – e lo auspichiamo – una ristampa di Et in Arcadia ego con almeno una selezione degli scatti conservati al Vieusseux, si avrebbe modo di leggere l’opera con occhi integralmente nuovi, e apprezzarla più che mai. Sulla scorta delle parole di un altro grande scrittore-viaggiatore, amico e interlocutore di Cecchi per gran parte della vita:
Quanti turisti dell’Ottocento ci han lasciato fotografie di Piazza San Pietro o del Colosseo, nelle quali invano cercheresti qualcosa del tempo che non sia l’impallidimento della stampa! Solo quei pochi, come Giuseppe Primoli, che han fotografato angoli meno noti, scene animate, o particolari della vita d’ogni giorno, ci sembrano oggi meritevoli d’attenzione[38].
In quelle immagini la Grecia del 1934, sorprendentemente simile per certi tratti alla Toscana ottocentesca che diede i natali a Cecchi, per certi altri abitata da impressivi revenants del mito come una böckliniana isola dei morti, non persiste tanto nella forma del documento, quanto come il prodotto di uno sguardo che ha lo stesso stile della prosa del maestro.
[1] Cesare Brandi, Viaggio nella Grecia antica [1954], Roma, Editori Riuniti, 2006, p. 17.
[2] Per l’edizione definitiva di Et in Arcadia ego si cita da Emilio Cecchi, Saggi e viaggi, a cura di Margherita Ghilardi, Milano, Mondadori, 1997, pp. 693-862. Altrimenti si fa riferimento alla prima edizione. Per il titolo, come è noto, Cecchi chiese al giovane Contini (al tempo a Parigi) una sorta di perizia, il cui esito si legge nella lettera del 1 aprile 1936, ora in L’onestà sperimentale. Carteggio di Emilio Cecchi e Gianfranco Contini, a cura di Paolo Leoncini, Milano, Adelphi, 2000, pp. 24-26. Risultanze di lettura dell’opera, svelte e in parte affrettate, ma entusiastiche, si trovano nelle missive continiane del 30 maggio e del 6 agosto, ivi, pp. 28-29 e 32-34.
[3] Nell’ordine: Milano, Hoepli, 1936; Verona, Mondadori, 1942; Milano, Mondadori, 1946; ivi, 1960. Con significative differenze, di cui si dirà. Per comodità seguiremo le abbreviazioni in uso nel Meridiano: EAE36 e EAE60, per la prima e l’ultima stampa.
[4] Dal 28 agosto all’8 settembre 1957.
[5] Emilio Cecchi, Saggi e viaggi, cit., p. 805.
[6] Che poi la Grecia negli anni Venti-Trenta fosse anche intrisa di memorie fin de siècle, di un Ottocento tra asburgico e germanico, non lo sapeva solo Savinio: lo si vede benissimo in uno dei pezzi d’apertura di Et in Arcadia ego, intitolato Achilleion, e dedicato al sontuoso (ma tragicamente kitsch) palazzo voluto a Corfù da Elisabetta d’Austria, e in seguito acquisito dal Kaiser Guglielmo II.
[7] Ne Il maestro di Olimpia, ivi, p. 844.
[8] Cfr. Alberto Arbasino, Dall’Ellade a Bisanzio, Milano, Adelphi, 2006, pp. 80-81.
[9] Il presente studio prosegue la linea di ricerca iniziata da chi scrive con il saggio Maschere, teschi e fotografie spettrali: per una lettura di Messico di Emilio Cecchi,«Arabeschi», 14, 2019, pp. 108-123, e inevitabilmente lo presuppone. Fondamentale è stata la consultazione delle foto conservate presso il Fondo Cecchi, all’Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti” del Gabinetto Vieusseux di Firenze, al cui staff e alla cui direttrice, Gloria Manghetti, si rinnova la gratitudine per la collaborazione.
[10] Nelle Note e notizie sui testi del Meridiano, cit., p. 1826, si legge di una sollecitazione epistolare (11 aprile 1941) fatta a Hoepli per una ristampa del libro, «da pubblicare senza illustrazioni; e senza cambiare titolo». Il libro finirà poi a Mondadori, ma per l’appunto senza più tavole, né nella stampa del ’42, né in quella del ’46.
[11] Sono le foto numero 6, 18 e 21.
[12] Un formato importante, del tutto sacrificato nell’unica riedizione che se ne è avuta, nel 1995 presso la Biblioteca del Vascello, Roma. Questa ha misure da tascabile: 7,5 cm x 14.
[13] Si veda, uno per tutti, lo studio di Novella Primo Fototesti di famiglia. Ritratti e paesaggi nel Nuovo romanzo di figure di Lalla Romano, in Fototesti, a cura di Michele Cometa e Roberta Coglitore, Macerata, Quodlibet, 2016, pp. 181-204.
[14] Alberto Arbasino, Dall’Ellade a Bisanzio, cit., p. 79.
[15] La prima edizione di Corse al trotto esce a Firenze per Bemporad nel 1936.
[16] Emilio Cecchi, Corse al trotto vecchie e nuove, Firenze, Sansoni, 1941.
[17] Ora in Saggi e viaggi, cit., pp. 887-896.
[18] Parliamo, qui, di foto non di Pozzi- Bellini, sebbene all’Archivio Contemporaneo del Vieusseux sia conservato anche un fondo di quest’ultimo, bensì di foto scattate proprio da Emilio Cecchi. Evidentemente entrambi andarono a Vallepietra armati di dispositivi per catturare immagini: uno con la macchina fotografica, l’altro con la cinepresa.
[19] I rullini del viaggio in Grecia sono numerati da 3 a 6, e contengono foto catalogate nel seguente modo: Rullino 3 EC 8.3.7-8.3.47 (indicazione sul contenitore: «Corfù Atene Ceramico Pireo») / Rullino 4 EC 8.4.1-8.4.42 («Corinto Dafni Eleusi Acrocorinto Micene Argo Tirinto Nauplia Epidauro») / Rullino 5 EC 8.5.1-8.5.63 («Anfissa Delfo Acqua Castalia Olimpia stazione fra Patrasso Pirgo Olimpia» / Rullino 6 EC 8.6.1-8.6.47 «Creta Candia Cnosso Festo Haghia Trada Gortina»).
[20] Le singole foto sono tutte indistintamente intitolate “Paesaggio”, anche laddove non di paesaggi si tratta.
[21] Cfr. Maschere, teschi e fotografie spettrali: per una lettura di Messico di Emilio Cecchi, dove sono state pubblicate nove immagini del corpus, sette delle quali inedite.
[22] Scrive bene Schilirò: «Cecchi non fu scrittore di frammenti irrelati, come si presume di un rondista, ma sempre aspirò a più solide strutturazioni, al Libro. Ne fanno fede percorsi editoriali sempre complessi, riscritture e ricomposizioni, sempre nel segno del progetto e dell’architettura», cfr. Massimo Schilirò, La misura dell’altro. Animali e viaggi di Emilio Cecchi, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2017, p. 10.
[23] Note e notizie sui testi, cit., p. 1823.
[24] Cfr. EAE36, cit., p. 11.
[25] Foto 991 del Fondo Cecchi.
[26] EAE, cit., pp. 100-101. L’articolo è Strade ateniesi.
[27] Come accade anche per alcuni scatti di Messico (per es. la n. 7) o per la n. 13 di Nuovo Continente, il negativo di questa foto cruciale non è conservato al Fondo Cecchi; tuttavia l’attribuzione ci pare sicura. Può essere andato perduto durante la realizzazione del libro.
[28] Note e notizie sui testi, cit., p. 1822. Corsivo nostro.
[29] Emilio Cecchi, Taccuini, a cura di Niccolò Gallo e Piero Citati, Milano, Mondadori, 1976. Ma si veda anche Taccuino inedito sulla Grecia 1934, «Nuova Antologia», CXIII, 2128, ottobre-dicembre 1978, pp. 204-16.
[30] Cfr. Paolo Leoncini, Emilio Cecchi: l’etica del visivo e lo Stato liberale, con un’appendice di testi giornalistici rari, Lecce, Milella, 2017.
[31] EAE36, cit., p. 29.
[32] Vi è anche, in una foto del medesimo rullino, un primo piano della parete di macigno che reca incise leggi della Grecia antichissima.
[33] EAE36, cit., p. 10.
[34] EAE36, cit., pp. 78-79.
[35] Cfr. Massimo Schilirò, La misura dell’altro, cit., p. 20. In merito si veda anche Andrea Cortellessa, Libri segreti. Autori critici nel Novecento italiano, Firenze, Le Lettere, 2008.
[36] Museo dell’Acropoli – L’artista come cittadino – Esequie della pittura – Vasi dipinti – Statuine; EAE36, cit., pp. 109-126.
[37] Ivi, p. 104.
[38] Mario Praz, Premessa a Id., Il mondo che ho visto, Milano, Adelphi, 1982, p. 16.
In copertina: Nicolas Poussin, Et in Arcadia ego, 1640 ca.