Esattamente un anno fa, il 26 Settembre, pronunciai a Bruxelles una Laudatio per Frie Leysen, in occasione del Premio E.F.F.E. alla Carriera conferitole dalla European Festivals Association.
Frie, con il KunstenFestivalDesArts – tra le altre tue potenti invenzioni – hai offerto agli spettatori l’opportunità di pensare, di pensare di vedere, di vedere il vedere, di prendere coscienza del significato dell’essere spettatori davanti alle immagini di questa epoca. La tua ricerca si è svolta al di fuori di ogni retorica certezza, riparo culturale o appoggio letterario, perché sapeva che ogni vera forma trascende il suo movente. Hai promosso una idea di teatro orientato a una bellezza non conciliata, che si dirige verso noi non per illustrare, ma per abbracciare le altezze e le profondità dell’esperienza umana. In questa epoca, di fronte alla negligenza contemporanea dello sguardo, il tuo KunstenFestivalDesArts mostrava allo spettatore le rovine artificiali che gli artisti preparavano come sintomo delle nostre società. Hai fatto del teatro un’arte degna di essere veduta, criticata e, infine, amata. Tu forse sottovaluti il tuo ruolo – ti conosco – ma devi sapere che il tuo lavoro è stato fonte di ispirazione costante per generazioni di artisti.
Ora, se l’auditorio me lo consente, vorrei leggere solo alcune parti di una lunga lettera che indirizzai a te, Frie, nel gennaio del 1999, all’indomani di una tua visita a Cesena, la mia città. E’ una piccola testimonianza della nostra amicizia artistica. Si parlava molto, moltissimo all’epoca, tra artisti, critici, curatori. Molta teoria. E con te ho il ricordo di lunghe discussioni sull’etica dell’estetica e sul nostro impegno reciproco di uscire dalle modalità condiscendenti e predefinite del fare teatro.
La lettera seguiva un fitto dialogo che avemmo da Gianni – il nome di un ristorante che ora non esiste più – circa la liceità del mio lavoro con attori, per così dire, non professionisti, segnati dalla cicatrice della vita, provenienti dalle strade e da altri mondi. L’innesto del reale nel teatro in alcuni casi aveva posto problemi e domande: era o non era etico? cosa è etico? cosa l’estetica? quale il legame tra loro? Parlavamo di estetica, non di estetismo dottrinario. E le domande erano queste: l’estetica, per quanto scorretta o sgradevole, può provocare domande impellenti e etiche? L’estetica può dare una fitta al petto? Cambiare le persone? Le domande che io e Frie ci scambiavamo nascevano da una constatazione, che a dire il vero nessuno di noi ha mai pronunciato ad alta voce; la constatazione, cioè, che il sentiero della creazione non si percorre mai da soli. Io sapevo che avevo bisogno di te. Le nostre vocazioni erano speculari e rispondevano ai nomi di Etica e Estetica.
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Cesena, gennaio 1999
Cara Frie, mia ispiratrice,
ti scrivo a proposito del discorso che abbiamo incominciato da “Gianni” circa il rapporto tra etica ed estetica. Posso aggiungere alcune cose, che forse potranno chiarire almeno un po’ quello che confusamente tentavo di dirti o forse, chissà, faranno ancor peggio. Nel teatro, nell’arte, è improbabile darsi un compito etico se questa parola significa, come significa, consapevolezza di ciò che è giusto, morale, adulto, socialmente corretto per la comunità dei cittadini.
(…)
Compito dell’artista è comporre una immagine esteticamente problematica. Compito dello spettatore è di nuovo “guardare” e solo attraverso questo verbo è chiamato a compiere una scelta morale che lo interroga personalmente. La realtà è il risultato in cui vediamo la realtà e il teatro è l’esibizione deforme di ciò che riflette. La deformazione è l’atto estetico che riconfigura lo sguardo. E’ l’atto del guardare il vero tema politico, non i contenuti cosiddetti “attuali”. Guardare è politico, ed è compito dell’estetica produrre l’etica dello sguardo.
(…)
Non è giusta, la bellezza. Non ha argomenti o teorie. E’ consustanziale al suo “errore”. Il teatro che rispettiamo è il luogo “sbagliato”, il luogo dell’Errore, della menzogna-che-insegna, capace di riconfigurare lo sguardo curvandolo sotto il peso di una forma. Cara Frie, precisamente là dove la predica della parola non può arrivare è con l’estetica che si attraversa il naufragio della parola, di fronte alla sfinge della vita.
(…)
Il tuo lavoro preziosissimo, cara Frie, è invece sommamente etico e da questo poi ne deriva infine un segno estetico nella città. Questo è molto chiaro! Il tuo lavoro è, in una parola, complementare a quello di chi il teatro lo fa. L’estetica di uno spettacolo gira a vuoto senza l’etica di una direzione artistica che lo sceglie, lo sollecita, lo colloca nel tempo e nello spazio, lo rende possibile con le cure necessarie. Lo pensa nella città.
Con affetto, Romeo
Salutami molto Berth.