Jannis Kounellis, Itaca per sempre

Ithaque est ma mère, Ithaque est ma jeunesse,
Ithaque esta mon viel age. Itaque est ma mort.

Jannis Kounellis

Un vecchio barcone si staglia all’orizzonte marino. Sulla poppa distinguiamo la sagoma buia di un uomo immobile. I toni di bianco e nero e il forte contrasto della composizione rendono la direzione del suo sguardo indecifrabile: potrebbe volgerci le spalle, o ammiccare sornionamente allo spettatore. A una prima lettura, la foto ci restituisce una sensazione di solenne immobilità. Dopo un’analisi più attenta, ci accorgiamo della scia bianca che segue la mole dell’imbarcazione e taglia l’oscurità del mare: si tratta di un peschereccio in movimento. Dove è diretto? Lo scatto è di Mimmo Jodice che immortala Jannis Kounellis dal golfo di Napoli per il Manifesto della mostra alla Modern Art Agency del 1969. Come riporta Menna (1979), l’imbarcazione ha da poco lasciato il porto di Mergellina e l’artista “sta dando un ultimo sguardo a Castel dell’Ovo”.

Il tema del viaggio, lo specifico riferimento a quello mitico compiuto da Ulisse e l’auto-identificazione con l’eroe greco è uno dei Leitmotiv costanti della poetica messa in scena da Kounellis che non a caso pubblica una serie di scritti e interviste in un volume intitolato Odysée Lagunaire (1966). Avallando l’ipotesi – e sposando l’intenzione dell’artista – che il viaggio di Kounellis sia identificabile con il viaggio di Odisseo, non possiamo non pensare che il suo sia anche un νόστος, un “ritorno”: “Credo che proprio come ‘ritorno’ debba intendersi il viaggio di Kounellis” afferma Briganti (1990) “ma non come ritorno alle origini oscure, organiche, istintuali della vita, non come viaggio verso l’abisso del profondo, dell’indistinto romantico, ma come ritorno verso la luce della coscienza rintegrata, verso la perduta misura, l’unità, la totalità dell’uomo”.

Un viaggio nei meandri della coscienza umana, dunque, che si fa coscienza storica e impegno nel presente. Un impegno che si traduce nel costante tentativo di allestire tragedie contemporanee, tableaux vivants che annullano la dimensione temporale, in una costante oscillazione tra passato e presente: “la Nike che si scioglie un sandalo sulla balaustra del tempio di Atene aveva una benda nera sugli occhi. Era seduta accanto a me, quella drammatica sera in una trattoria turca di Berlino”, scrive Kounellis nel 1976 in quello che doveva essere un canovaccio da allestire nello spazio scenico di Tragedia Civile (Di Domenico, 2018).

Jannis Kounellis, Cavalli, 1969, Galleria L’Attico, Roma

Accanto all’allestimento di dramma farseschi, c’è il tentativo di integrare arte e vita – già utopia delle prime avanguardie del novecento –, in una logica per cui la composizione si anima di presenze che variano dall’artista stesso a un bestiario non indifferente; figuranti della stessa messa in scena in cui un giorno dell’inverno del 1969 un gallerista romano diventò uno stalliere, vittima forse dello scherzo di un artista.  “Tragedia, dramma, opera, melodramma, operetta, farsa?” Si interroga Corà nel 1979. Il modus operandi dell’artista – tra irriverenza neo-dada e sacralità di vate – sfida difatti le logiche della critica d’arte coeva, che lui teme possano ridurlo a un’unica ideologia – emblematiche a questo proposito sono le dichiarazioni contro la critica contenute in Autoritratto (Lonzi, 1969).

L’eccentricità e la natura performativa dell’opera di Kounellis emergono in altre foto-testimonianze iconiche di Claudio Abate: Azione di Jannis Kounellis, Roma, 1960; Senza Titolo, 1975, Galleria Area, Firenze. “Nel 1960 feci una performance senza interruzione, prima nel mio studio e poi alla galleria Tartaruga, a Roma, dove stendevo, su tutte le pareti, tele coperte di kemtone, una pittura industriale per la casa, sulle quali dipingevo delle lettere che poi cantavo. Il problema, allora, era quello di riaffermare un nuovo tipo di pittura. Qualcosa che venisse dopo l’informale” (Kounellis, 1972). Come molti artisti sia della sua generazione che a lui precedenti, Kounellis si propone di superare la pittura Informale che domina da molto la scena europea: lo fa dipingendo e cantando delle lettere su un muro. Quello che colpisce lo spettatore che assiste alla performance è l’abito dell’artista: un mantello decorato dagli stessi incomprensibili segni grafici tracciati sulla parete; indossa uno strano copricapo e volge le spalle al pubblico. Il riferimento immediato è alla famosa performance di Hugo Ball al Cabaret Voltaire nel 1916 in cui l’artista tedesco, come in una liturgia, professa parole incomprensibili. Kounellis sembra riprendere le fila di tale esperienza surrealista creando uno scenario apocrifo. Sacro e profano si mescolano senza criterio nel gesto dell’artista intento a tracciare sulla parete segni indecifrabili… e se fosse la trascrizione di Karawane?

Jannis Kounellis

Nei suoi primi anni romani, Kounellis, allora studente all’Accademia di Belle Arti, è evidentemente influenzato dai maestri Toti Scialoja e Giuseppe Capogrossi e da artisti come Franz Kline, che espone per la prima volta in Italia proprio alla Tartaruga di Plinio de Martiis nel 1958. Non solo. L’attenzione di Kounellis per il segno si può anche collocare in concomitanza con il rinnovato interesse per semiologia e semiotica che influenzerà letterati e artisti negli anni subito a venire: se per quanto riguarda la semiologia i primi studi si possono già ricondurre a Umberto Eco all’inizio del decennio, la rivista «Strumenti critici» viene fondata nel 1966, mentre nel ’69 esce I segni e la critica. Fra strutturalismo e semiologia di Cesare Segre. Testimoni di questa temperie culturale sono le opere su carta di Kounellis, tra cui Segnali, 1960, e la serie di Lettere o Alfabeti, 1959-1963: numeri, lettere, simboli matematici, segni stradali stampati su carta o, più raramente su tela o lino, o applicati tramite la tecnica dello stencil, che si presentano come elementi architettonici su uno spazio bianco, costituendo la sintassi di una nuova poetica che segue “il ritmo della stampa tipografica” (Diacono, 1961) – si veda a questo proposito anche l’ossessione di Kounellis per gli spartiti musicali.

Quindici anni dopo, nella galleria Area di Firenze: Kounellis è disteso a terra a faccia in giù; le braccia circondano il volto; un piede è alzato e appoggiato un sostegno; alla suola della scarpa è attaccata una fiamma accesa che riscalda il fondo di una macchina del caffè, appoggiata sul bordo di un tavolino. La scena, che conserva l’immobilità propria dei cerimoniali sacri, è attraversata da un intreccio di tensioni: la posa innaturale dell’artista, che mette in scena un corpo sotto sforzo, mascherato da un apparente abbandono; l’ubicazione della macchinetta del caffè, in bilico tra la fiamma e il tavolo. La finestra chiusa, “murata”, sul fondo della composizione aumenta l’inquietudine nello spettatore. Ci troviamo davanti a un corpo senza vita o a uno scenario domestico? L’interazione tra l’artista e gli oggetti circostanti è inaspettata e stridente.

Claudio Abate, Ritratto di Jannis Kounellis, 1973, Galleria Lucio Amelio, Napoli

Queste sono solo alcune delle foto che animano la recente pubblicazione di Sergio Risaliti, intitolata Autoritratto come Odisseo. Azioni di Jannis Kounellis dopo il 1960: un viaggio per immagini nell’opera dell’artista italogreco. Come già evidenziato da Maria Grazia Messina nella splendida introduzione al volume, Risaliti sceglie sei documenti fotografici, degli “autoritratti performanti” che scandiscono la produzione di Kounellis fino al 1975: in essi il taglio scenico, gli oggetti e la loro relazione con l’artista si caricano di significati simbolici che confluiscono nel logos che sottende a un fare artistico al quale l’artista affida il proprio messaggio. Sono simboli più o meno intellegibili che Risaliti ci svela in una narrazione che procede per immagini impressionistiche, riferimenti storici e al contesto culturale e artistico coevo. Una narrazione che magnifica e affida a una dimensione quasi mitica l’opera di Kounellis.

Tale processo di mitizzazione è dato da un determinato tipo di approccio al materiale in questione: Risaliti infatti sceglie di nascondere la propria voce narrante e, di conseguenza, anche un eventuale orientamento critico, affidando la narrazione a dichiarazioni e interviste dell’artista e a un certo filone di critica nostrana, quella di Celant in primis – manca per esempio qualsiasi riferimento alla monografia di Stephen Bann, che è tra le più complete. Ma non è forse la sfida che si propone o dovrebbe proporsi ogni storico dell’arte, critico o scrittore, quella di salvare l’artista da un lento e inesorabile processo di mitizzazione, di solito legato a narrative conformiste e/o ragioni economiche? Risaliti non relega Kounellis a un canone predefinito. Tenta, nel suo viaggio tra simboli epistemologici, di evidenziare la forte ambiguità che caratterizza il percorso dell’artista fin dagli albori della sua carriera. Eppure, nel tentativo di mettere in risalto tale pluralità di fonti e linguaggi e una forte tendenza alla sperimentazione, affolla il libro di immagini, opere e artisti contemporanei in maniera incontrollata, senza una reale giustificazione o sguardo analitico, scivolando in un citazionismo privo di criterio (come si giustifica per esempio il paragone con Manet? Il parallelismo è debole: p. 155). Mancano invece confronti con figure più importanti, come quella del contemporaneo Joseph Beuys – citato solo en passant – in quegli anni particolarmente legato all’Italia. Beyus espone nella galleria di Lucio Amelio prima volta nel 1969, che è lo stesso anno in cui Celant lo include nel volume Arte Povera. Nella seconda esposizione presso la Modern Art Agency del 1971, l’artista tedesco espone un’edizione di Filtzanzung (Abito di feltro) che si configura come un precedente importante per gli abiti appesi di Kounellis.

Segue lo stesso andamento spesso poco determinato anche il discorso sull’arte americana di quegli anni, che viene liquidata in maniera superficiale e tramite citazioni: “l’arte americana, degli anni Sessanta, vedeva nella stilizzazione riduttiva, da Judd a Stella, e nel realismo tecnologico e massmediale, da Lichtestein a Paik, gli unici processi di trasmissione visuale” (p. 106) scrive Risaliti citando Celant, quasi a voler reiterare uno spirito anti-americano e avallando una narrativa limitante ormai superata, che vedeva nel minimalismo un’astrazione geometrica sterile ed esasperata e nella pop art la mercificazione dell’arte.

Il volume ha il pregio di far conoscere gli scatti iconici di Claudio Abate, l’esasperata teatralità e il carattere poliedrico e πολύτροπον dell’artista e della sua persona, che si colloca tra il sacro e il profano, tra l’aulico e il popolare. Le foto funzionano come “statement” di poetica, come messe in scena che accompagnano il lettore nel viaggio attraverso la complessità e la sfaccettatura iconografica, identitaria e iconologica che caratterizzano un fare artistico impossibile da circoscrivere in un unico stile.

Sergio Risaliti
Autoritratto come Odisseo. Azioni di Jannis Kounellis dopo il 1960
prefazione di Maria Grazia Messina
Quodlibet, «Biblioteca Passarè», 2020, pp. 160, € 16

è Marcello Rumma Fellow in Contemporary Italian Art al Philadelphia Museum of Art dove segue progetti curatoriali e di ricerca relativi all’arte italiana dal dopoguerra ad ora. Ha ottenuto il titolo di dottore di ricerca in storia dell’arte contemporanea presso The University of Edinburgh nel 2017 con una tesi intitolata “Art Degree Zero: Piero Manzoni and Hélio Oiticica”. Fino all’agosto 2018 è stata Goethe-Institut Postdoctoral Fellow al museo Haus der Kunst di Monaco di Baviera dove ha lavorato al progetto di Okwui Enwzor "Postcolonial Art, 1955-1980." In particolare ha svolto ricerche su arte e femminismo in Sud America, focalizzandosi sulla rappresentazione del corpo come strumento politico.

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