Sara Ventroni, la vita della vita

20/09/2020

«L’ordine sconosciuto danza dentro la frattura», ha scritto Sara Ventroni nella Sommersione – e c’è da crederle alla lettera, perché non si tratta di una petizione di principio, di una di quelle vacue e opinabili schegge di filosofia portatile che ci affliggono nella cattiva poesia. Come tutti i veri artisti, Sara è prima di tutto un’artigiana. Conosce la resistenza e la duttilità del mezzo. Fin da giovanissima, ha avuto una coscienza così esatta e prensile della natura del verso lirico, che le sue letture lasciavano a bocca aperta. Ha sempre saputo dove far cadere i dannati accenti come saette sulla pianura del verso. Sa manovrare alla perfezione l’epigramma e la strofetta, ma guida con gran classe e sprezzatura i veicoli più complessi. L’«ordine» e la «frattura», in ogni modo, sono i due elementi costitutivi di ogni prosodia, modernamente intesa. La frattura è quella condizione della lingua in cui si crea lo spazio in cui danza un «ordine sconosciuto». La danza: una condizione di equilibrio in perenne trasformazione, all’incrocio di forze contrarie. Nell’equilibrio c’è altrettanto dinamismo, altrettanto movimento che nella danza. L’«ordine sconosciuto» si afferma sulle macerie dei vecchi ritmi, non li ricuce, non fa archeologia. Semmai, afferma che ogni verità risiede anche nel suo contrario. Per fare l’esempio più scontato: il maschio è la verità della femmina che a sua volta è la verità del maschio.

Il fatto che Sara accompagni a una pratica rigorosa e insieme avventurosa della poesia scatti fotografici così pertinenti ai suoi progetti ha sempre destato in me profondo stupore e ammirazione. Non sempre queste commistioni di arti producono una vera congruenza, un potenziamento reciproco dei codici e delle relative retoriche. Ma Sara ha fatto proprio l’ammonimento di Proust che tutti noi dovremmo tatuarci sulla pelle: «il dilettantismo non ha mai portato a nulla». Gli scatti di Sara sono, oso dire, poesie congelate. Sostituiscono la simultaneità della visione allo sviluppo, che è il liquido amniotico e la biosfera delle arti verbali e della musica. Viceversa, le poesie sono fotografie sottratte al sortilegio dell’immobilità: come principesse addormentate nella loro bara di cristallo e svegliate dalle labbra di un principe di passaggio.

Ne viene fuori un mondo, necessario e inconfondibile: il mondo di Sara Ventroni. La presenza dell’acqua mi fa pensare ai procedimenti di Andrej Tarkovskij, altro artista molto ferrato in sommersioni. E quella di Sara è sicuramente una Zona: un luogo d’incrocio delle nature e delle proprietà dove il confine tra l’organico e l’inorganico viene cancellato proprio dall’avanzare e ritirarsi dell’elemento liquido, forma visibile della metamorfosi e della contaminazione. L’immagine centrale del fiume è trattata senza troppa indulgenza per tutte le associazioni automatiche che potrebbe generare. Che il fiume, considerato come emblema del tempo, scorra nella sua canonica direzione, o proceda anche all’inverso, è un problema interessante, ma troppo sopravvalutato nella modernità. Un vero poeta, come l’uomo orfico di Rilke, tutto sommato lascia andare il tempo dove vuole, perché la sua posta in gioco non è un’ennesima teoria delle cose, ma l’irrompere, nel buio dell’abitudine, di un atto di coscienza.

Ma questo mondo impervio e prezioso è anche nostro, se è vero che ciò che è coscienza per chi scrive, per chi legge è immaginazione, empatia, complicità. Che si possa tenere in mano un libro di poesia senza queste potenze dell’anima, è una vera catastrofe spirituale. Fatto sta che i libri di Sara Ventroni hanno la rara capacità di legarsi, nella memoria, al periodo della vita in cui li abbiamo letti, come accade con certe canzoni che sono come il midollo, l’essenza di una certa stagione felice o infelice. Più che di qualche contenuto specifico, che richiederebbe inutili parafrasi, sono l’espressione concreta dell’allargarsi dei confini del percepibile. Se penso a chi li ha scritti, penso a una persona che ha sempre pagato di persona il dono di accogliere, discriminare il futile dall’essenziale, trasformare i detriti in promesse. Sara è capace di dimorare a lungo in quella che Katherine Mansfield definiva «la vita della vita». È un talento, un rischio poco calcolato, una forma assoluta dell’ispirazione. Per me è un onore l’occasione di presentare questa breve antologia. C’è molto altro da leggere, ma i veri poeti sono coloro che in ogni singolo verso mettono tutto quello che hanno scritto, e forse anche quello che ancora devono scrivere.

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In copertina: uno scatto di Elinleticia Högabo©

Emanuele Trevi

(Roma, 1964) Critico e scrittore, collabora al «Corriere della Sera» e al «manifesto» e fa parte del comitato di redazione di «Nuovi Argomenti». Ha pubblicato libri di critica (“Istruzioni per l’uso del lupo”, 1994; “Musica distante”, 1997; “Il viaggio iniziatico”, 2014), romanzi (“I cani del nulla”, 2003; “Il libro della gioia perpetua”, 2010; “Il popolo di legno”, 2015), memorie (“Senza verso”, 2004; “Qualcosa di scritto”, 2012; “Sogni e favole”, 2019), libri di viaggio (“L’onda del porto”, 2005; “Ontani a Bali”, 2015). Il suo prossimo libro, “Due vite”, uscirà da Neri Pozza a fine maggio.

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