Autofilologia di Luca Maria Patella

Nulla dies sine imago # 4

Soleva dire Giorgio Manganelli che è un buon inizio, per un testo, mettere in difficoltà il suo tipografo; lo si potrebbe parafrasare aggiungendo che allo stesso modo, di un libro una volta stampato, promette già bene la perplessità del libraio a collocarlo in uno dei suoi scaffali. Ma se tale principio di incategorizzabilità vale per tutte le “scrizioni”, come le abbiamo definite qui, questo si esalta all’ennesima potenza nei “libri d’artista”. Potremmo allora aggiungere un terzo criterio: un libro è tanto più “d’artista” quanto più risulti un’impresa impossibile riprodurre, su media diversi dal suo (come lo schermo che avete davanti agli occhi), l’effetto che fa tenerlo in mano e sfogliarlo. Se l’individuo è ineffabile, l’individuo libro che lo “rappresenta” è irriproducibile. 

Individuo in copia unica, se ce n’è uno, è Luca Maria Patella. Che certo non è nuovo alla pratica del “libro d’artista”, ma che con Canzoniaere ha raggiunto forse – grazie alla complicità dell’editore Gli Ori di Pistoia, che lo ha stampato, e della Galleria Il Ponte di Firenze, che lo ha impaginato – quello che appare, davvero, un non plus ultra. La descrizione “esterna” – di quest’oggetto che da settimane mi rigiro fra le mani con un certo timore reverenziale – non può essere, dunque, in alcun modo secondaria.

Il formato, 30 x 21, è quello standard del catalogo di una mostra; all’interno però non si trovano immagini, se non quali illustrazioni di una materia che, come dice il titolo (fatta la tara all’ossessione intraverbale dell’autore: che al frontespizio scioglie il pun nella coincidenza di «canzoniare & amare»), è quella di un “canzoniere” poetico. Tutt’altro che standard, poi, l’impaginazione: che dispiega un po’ tutti i paraphernalia («architettura tipografica» neofuturista di formati e font, pagine trasparenti e pagine ripiegate “a soffietto”, caratteri multicolori e loro multiforme orientamento, mélanges ricchi e strani di composizione tipografica e riproduzione di grafia manoscritta, eccetera) che l’arte editoriale – oggi, invece, per lo più così burocratica e prevedibile – eredita dalla sua storia lunga e multiforme.

Luca Maria Patella

Uomo di multiforme ingegno è Patella: che, ha ricordato opportunamente Elio Grazioli, alle spalle ha un doppio dressage scientifico (nella cerchia di Linus Pauling, premio Nobel per la chimica nel ’54 e per la pace nel ’62) e psicoanalitico (in quella di Ernst Bernhard, mitico guru junghiano a cavallo appunto fra Cinquanta e Sessanta: sotto al titolo, tanto in copertina che al frontespizio, figura infatti la sphraghìs della lettera Ψ); ma ben prima degli esordi sulla scena artistica, verso la metà degli anni Sessanta, si colloca anche una vocazione poetica che solo a posteriori ha trovato la via della pubblicazione (con una serie di libri “lineari”, per lo più pubblicati negli anni Zero dall’editore Campanotto, che si sono aggiudicati anche premi letterari di rilievo – come LMP insiste a segnalare, un po’ petulante, ogni volta che li menziona).

Ma a posteriori, in fondo, è tutta l’opera di Patella: che per le oggettive difficoltà produttive (editoriali e allestitive) incontrate dai suoi lavori (per esempio l’altro capo d’opera, tanto del suo catalogo letterario che nella tipologia del “libro d’artista”, il «romanzino» Stazione di vita, pubblicato nel 2014 dall’altro complice di sempre, Peppe Morra: ma con la data di composizione, «2003», inusualmente campeggiante in copertina), ma anche come vedremo per sua intrinseca ispirazione, scrive sempre da dopo o, psicodiciamo, après coup (sicché gli si perdona pure la non meno stucchevole ossessione di vantare le proprie primazie, e dunque asseriti plagi altrui). Non poteva che comporre allora, Patella, il suo «codice Vaticano» (come, un po’ per celia e un po’ per non morir, chiamava il suo Osip Mandel’štam): il suo Canzoniere, appunto, che – proprio come quello eponimo di Petrarca – ridispone in un disegno tendenzioso, appunto a posteriori, la successione dei propri componimenti (al frontespizio LMP indica, quali termini post e ante quem, il 1958 e il 2018; ma verso la fine riproduce, e psico-interpreta, la pagina di un quadernetto, sostiene, da lui «illustrato a 4 anni, e dettato alla zia inglese Peggy Sinclair»: al cui influsso, unitamente agli «scherzi» etimologici del padre Luigi «cosmografo umanista», fa risalire le sue «rotture & giuochi o alterazioni» verbali).

A dispetto del titolo, però, non è a Petrarca che guarda Patella, bensì – e sempre più ossessivamente – al suo maestro avverso (che, al modo in cui ribattezza DEN e DUCH gli altri suoi phares Diderot e Duchamp, chiama confidenzialmente DAN). E non alla Commedia, ma – con eco remota, magari, del gusto anglosassone di zia Peggy – quel suo straordinario vestibolo, e profezia, giovanile che è la Vita Nova. Mentre il monolinguista e (sublimemente) monotonale Petrarca “interpreta” la propria stessa poesia semplicemente disponendone gli episodi in un’architettura appunto tendenziosa (così inaugurando il modello tuttora più diffuso di “libro di poesia”, che si continua a chiamare «raccolta» ed è infatti sempre – più o meno consapevolmente – un «canzoniere»), senza interpolarvi alcun commento, il plurilinguista e (sublimemente) politonale Dante compone un libro, e anzi «libello» (come quello del suo emulo sarà un «romanzino»), che ai testi poetici alterna la fabula della sua autobiografia giovanile, la quale si compone invece proprio delle spiegazioni dell’autore. Nel capitolo “teorico” del libello – con la consueta superbia e non poco (sublimemente) petulante a sua volta – dichiara anzi: «grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace intendimento». Non è dunque vero poeta, secondo Dante, colui che non sia in grado di sciogliere il proprio stesso «legame musaico» (come lo chiama nel De Vulgari Eloquentia), e «aprire per prosa» quanto si trova rinchiuso nella partitura retorica dei versi. Presupposto razionalista, questo di chi consideri l’espressione sempre riconducibile, senza ulteriori “nodi”, al suo «etimo spirituale» (come lo chiamerà Leo Spitzer): che non tutti i poeti a venire – a partire appunto da Petrarca – condivideranno.

Sia come sia, è a questo modello – psichico, prima che retorico – che Patella dichiaratamente s’ispira. E così il Canzoniaere consta di un nucleo di ottanta componimenti che vi figurano però affiancati, circondati e talora soffocati – proprio come la pagina di un codice miniato medievale, con le sue concentriche cornici di glosse, meta-glosse e scolî – dalle interpretazioni, quasi sempre psicoanalitiche, dello stesso autore: “dantescamente” confidente che tutto quanto ha scritto possa trovare una spiegazione. Ma quello che si spiega lui non è detto si dispieghi – per fortuna! – nella ragione di chi legge. Spesso si affanna Patella, per esempio, a rinviare a loci anche distanti, del libro, puntigliosamente ogni volta indicandoli col rispettivo numero di pagina: ma quella traccia, a volerla seguire, ci porta poi il più delle volte in vicoli ciechi (proprio per le immagini che strabordano dallo specchio, splendidamente riprodotte con “margini a fuoco”, gran parte delle pagine non possono infatti recare numerazione: sicché quel rinvio, a parte subjecti così preciso, finisce per essere irreperibile).

Falso ingenuo da manuale («amo le cose semplici, molto complesse!», dice di sé quasi al congedo), di tutto questo LMP è perfettamente consapevole. Lo si vede benissimo da un paio di esempi. A p. 111 è riportato un componimento intitolato Giuda Trinità, che come spessissimo fanno queste poesie sprofonda nel tempo a un più o meno allucinatorio turbamento erotico vissuto in gioventù dall’autore (nella fattispecie per la bella «Enrica»: «biondina» modella alla «scuola del nudo» frequentata all’«Accademia di Francia», che «scattante e inane» discende la scalinata della «Trinità dei Monti», come il Nudo duchampiano eponimo: sicché, ancorché si mostri «carina» accettando l’invito «alla tavola calda» di chi dice io, e questi dunque «pregusti l’incontro», poi evidentemente tradisce le attese: allorché la sua immagine, che scende giù da Trinità, si scompone e ricompone, con patellesca intraverbalità, in Giuda Trinità). Ora, il delicato quadretto appena ricomposto viene “spiegato” dal Canzoniaere – alla pagina pari a fronte – con una serie di lemmi abbastanza discorsivi che però si valgono di un pittogramma grafico, appunto a tre livelli, il quale riproduce la situazione in termini una volta di più psicanalitici, rinviando al mitologema della Caduta nella lettura di Lacan (non senza la menzione del mito classico di Fetonte, di ovidiana memoria); e che, nella sua indubbia eleganza grafica, anziché “spiegare”, ri-piega l’episodio in un verbovisivo, psichicamente oltranzistico trobar clus:

Oppure si consideri l’episodio che, personalmente, in assoluto preferisco. Fra le pagine 136 e 137 c’è una pagina-spettro stampata su entrambi i versi di un foglio di leggera plastica trasparente, sul quale ognuna delle righe è manoscritta in un diverso colore, seguendo dunque un qualche codice rimbaudianamente simbolico. Ma caratteristica dichiarata di questa poesia «rapida & dolce» è di essere «bilingue / (bifido infido)»: il suo incipit-titolo è «cara», che subito intraverbalmente si scioglie (in bocca) quale «caramella»; ma «è da tener / presente / que cara / en español / quiere decir / faccia» (al verso, infatti, si legge solo «carita linda»). Però poi in fondo alla pagina si aggiunge un «Presto!» che prosegue la re-italianizzazione della riga precedente, a posteriori sovvertendone però il senso (da sostantivo a persona verbale al modo congiuntivo) faccia presto!, il lettore, a capire il gioco: la poesia, si ricordi, è «rapida & dolce» e infatti, prima che si possa finire di “spiegarla”, già ci si è sciolta in bocca!

L’operazione di Patella è perfettamente ancipite, al modo di quei Vasi Bifronti che tanto lo appassionano (naturalmente anche perché al “vaso” rinvia, pure, l’etimo latino del suo cognome):

Luca Maria Patella, NON OSO / OSO NON essere (Firenze, Galleria Il Ponte, 2017)

Nel 1915 lo psicologo danese Edgar Rubin raccolse una serie di test percettivi nel volume Figure visive: le quali – al pari della figura che può essere letta, appunto, tanto come un vaso che come due volti di profilo – interpellano il soggetto che, di volta in volta, è chiamato a “scegliere” in quale “verso” interpretare l’immagine. Per questo quintessenzialmente patellesco è il “test” della pagina trasparente: indecidibile restando il “verso giusto” in cui “leggerla”.

E infatti la chiave di Canzoniaere è nell’altra “pagina-spettro” che si colloca fra la p. 62 e la p. 63: al suo recto è scritto solo «svela», e al verso «rivela» (ma le due righe sono sfalsate fra loro: in modo che in trasparenza, nei due “versi” del foglio, si possa leggere il “negativo” dell’una a ridosso del “positivo” dell’altra). Ogni spiegazione, rispetto a quanto si riferisce, insieme svela qualcosa e, insieme, rivela dell’altro: sul proprio oggetto sollevando e insieme ri-ponendo il velo del suo enigma.

Ma questo, il lettore di Patella, ormai lo ha capito bene. In fondo spiegarne troppo a lungo il modus operandi non fa che guastarne l’effetto: come quando ci si affanni a spiegare il senso di un motto di spirito. Il quale o ci delizia, all’atto di gustarlo, o ci sfuggirà definitivamente. Come quella caramella: che, in bocca, ci si è sciolta da un pezzo.  

Luca Maria Patella
Canzoniaere
Gli Ori, 2020, pp. 192, € 30

In copertina: Pino Pascali in SKMP2 di Luca Patella (1968)

(Roma, 1968) critico e saggista. Insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università di Roma Tre; nel 2018 ha tenuto la «cattedra De Sanctis» al Politecnico di Zurigo. Ha pubblicato saggi, curato testi e realizzato trasmissioni radiofoniche e televisive, spettacoli teatrali e musicali. È nella redazione del «verri» e collabora ad «Alias», «Il Sole 24 ore», «Tuttolibri», «doppiozero», «Le parole e le cose2» e altre testate.

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