La canonizzazione di un testo teorico rischia spesso di sacralizzarlo e fossilizzarlo. Perciò è sempre utile sollevare i paramenti, liberarlo dalle opinioni precostituite, esaminare con sguardo disincantato le sue tarlature e mettersi a ripensare le sue idee. È quello che, nel testo pubblicato su Antinomie, ha fatto Sergio Benvenuto col saggio più citato di Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Benvenuto sostiene che, pur «venerato come un testo-paradigma della modernità estetica», il saggio non coglie ciò che «dobbiamo considerare essenziale dell’arte detta moderna»; e partendo dalla critica della famosa tesi della decadenza dell’aura, propone un’ambiziosa reinterpretazione dell’arte del Novecento, nella quale alcune intuizioni acute sono invischiate in un contesto di generalizzazioni e forzature che richiedono a loro volta un’analisi critica.
Il punto di partenza di Benvenuto è un’interpretazione dell’aura di Benjamin come «denuncia del carattere feticistico dell’opera d’arte classica», sulla falsariga della critica marxiana al feticismo della merce. Da essa discenderebbe «l’estetica prevalente del Novecento», che è la svalorizzazione dell’opera come oggetto, un progetto anti-feticistico che diventa esplicito nell’arte concettuale.
Tuttavia, nonostante questo influsso sull’estetica del Novecento, «l’arte moderna nel suo insieme non è stata anti-feticista come voleva Benjamin» e la profezia della dissoluzione dell’aura non si è avverata. Questo perché l’aura, dissolta attorno all’opera-oggetto, si è ricostituita attorno alla vita dell’artista, intesa come praxis esemplare (eupraxia). Questo spostamento di valore ha fatto sì che l’aura cultuale, cioè l’alone feticistico che nell’arte tradizionale avvolgeva l’opera d’arte, venisse trasferita all’artista “divo”, paradigmaticamente rappresentato da Andy Warhol. In questo modo l’arte delle élites finisce per ricongiungersi all’arte delle masse e il culto dell’idolo mediatico Warhol si ritrova accanto a quelli di Lady Gaga o Justin Bieber.
Questa, in sintesi, è la tesi fondamentale di Benvenuto, che ora analizzerò nel dettaglio mettendo a confronto alcune sue idee con interpretazioni alternative proposte nel mio Catastrofi d’arte e con un recente saggio di Agamben che sostiene una tesi apparentemente simile a quella di Benvenuto.
L’aura di Benjamin e il paradigma di Duchamp
L’interpretazione dell’aura di Benjamin come feticismo dell’opera d’arte tradizionale, anche se giustificata da una lettura “canonica” del testo considerato, è una semplificazione drastica di un concetto che in realtà è molto più complesso, polisemico e dialettico.[1] Non intendo tuttavia addentrarmi nell’esegesi benjaminiana: quello che mi interessa è la visione complessiva dell’arte del Novecento che Benvenuto delinea partendo da questa interpretazione e dalla successiva critica alla profezia di Benjamin. Questa la sua prima tesi: «Su questa scia marx-freudiana – il feticcio come artefatto che maschera la verità fondamentale – l’estetica prevalente nel Novecento ha svalorizzato l’opera come oggetto, la quale in quanto oggetto non sarebbe altro che feticcio. L’aura è il marchio dell’opera come feticcio. E Benjamin è venerato come uno dei grandi critici della venerazione feticista delle opere d’arte. L’arte detta concettuale non farà altro che dare un assetto esplicito a questo progetto anti-feticistico» (corsivi miei).
Qui viene suggerita una sequenza teorica schematizzabile in questo modo:
aura → critica al carattere feticistico dell’opera d’arte → svalorizzazione dell’oggetto → arte concettuale
La sequenza è però viziata da un eccesso di generalizzazione e da una forzatura storico-culturale. In primo luogo, nel Novecento non c’è un’«estetica prevalente»: ci sono molte estetiche diverse e, soprattutto, due concezioni generali molto contrastanti dell’arte, due paradigmi che hanno dominato rispettivamente la prima e la seconda metà del secolo. E solo per la seconda si può parlare, con le opportune precisazioni, di svalorizzazione dell’opera come oggetto. Ma soprattutto, questa svalorizzazione non dipende tanto dalla condanna dell’aura come feticcio, quanto dalla rivendicazione del carattere eminentemente concettuale del fare artistico inaugurata da Duchamp con quegli oggetti paradossali che sono i readymade.

La proposta di pensare le grandi fratture della storia dell’arte in termini di paradigmi, sul modello di quelli che Kuhn ha teorizzato per la storia della scienza, è stata avanzata dalla sociologa dell’arte Nathalie Heinich.[2] In sintesi, la prima rottura si verifica con gli impressionisti: sono loro a introdurre il paradigma “moderno”, che conserva lo stesso medium del paradigma “classico” (pittura o scultura) ma punta a esprimere l’interiorità unica dell’artista, ponendo la sua originalità al di sopra delle regole accademiche, per cui la singolarità diventa un valore privilegiato rispetto alla bellezza. Nel Novecento anche il moderno entra in crisi e una nuova fase rivoluzionaria porta all’affermazione del paradigma “contemporaneo” (che, per evitare confusioni, propongo qui di chiamare “post-duchampiano”), preannunciato da Duchamp e dai suoi readymade, ma che si afferma a partire dagli anni sessanta. In esso ciò che conta non sono più la bellezza classica né l’espressione dell’interiorità moderna, ma la produzione di singolarità.
Il nuovo paradigma si affianca a quello moderno occupando una posizione dominante, ma senza eliminarlo. Entrambi i paradigmi hanno continuato a convivere fino a oggi, anche se i loro rapporti di forza sembrano essere cambiati nel corso del tempo.
Nel paradigma post-duchampiano l’opera “deborda” dall’oggetto, diventa cornice concettuale ed enigmatica, si espande nello spazio e nel tempo diventando installazione e performance, assume un carattere allografico, tende a trasgredire tutti i limiti, a usare qualunque materiale e a generare “discorsi”.[3] Ed è a questa “tracimazione” dell’opera dall’oggetto che corrisponde la svalorizzazione di cui parla Benvenuto.
È vero che nell’arte delle neo-avanguardie e in quella degli anni sessanta e settanta il rifiuto politicamente esplicito del carattere feticistico dell’opera d’arte è un aspetto ben presente. Ma il paradigm shift che ha portato il fare artistico a debordare dall’oggetto e trasformarsi in operazione concettuale deriva innanzitutto dal bisogno di rompere drasticamente col paradigma precedente e le convenzioni tradizionali. La critica politica è solo un fattore concomitante.
Lo schema andrebbe quindi corretto in questo modo (la freccia a due punte non indica un’influenza reciproca, ma una concomitanza e una complicità):
Duchamp → arte come concetto → svalorizzazione dell’oggetto ↔ critica al carattere feticistico dell’opera d’arte
Quanto alla condanna dell’aura interpretata marxianamente come feticcio, invece che nella genealogia dell’arte contemporanea andrebbe inserita nella lunga e complessa dialettica tra opera e merce che ha coinvolto l’arte fin dall’Ottocento, ha attraversato tutto il Novecento e continua ad essere incandescente ancora oggi. Un caso eclatante di tale dialettica è evidente in Picasso, che ha prodotto oggetti estetici anomali, trasgressivi e ostili ai gusti dominanti, ma sono stati presto fagocitati dal mercato diventando merci-feticcio con la piena consapevolezza e la complicità dell’artista. Il fatto è che, a partire dagli impressionisti, «gli artisti innovatori non hanno fatto le loro opere per il mercato, ma piuttosto hanno contribuito (insieme a pochi mercanti, collezionisti e critici) a inventare un mercato per le loro opere».[4]

Questa dialettica tra arte e mercato agisce ovviamente sugli artisti e sulle dinamiche del mondo dell’arte, ma va tenuta distinta dalle trasformazioni estetiche, stilistiche o concettuali. Per quanto le estetiche e gli artisti del Novecento si siano sforzati di combattere il feticismo dell’oggetto artistico, se il loro lavoro ha avuto successo è stato prima o poi riassorbito e “auratizzato” dal sistema dell’arte.
Il fallimento della profezia di Benjamin è dunque già implicito nella ridefinizione dell’aura come feticismo dell’opera proposta da Benvenuto. Come osservava Giorgio Agamben già molti anni fa, Benjamin non si è reso conto che se la riproducibilità ha distrutto l’aura della funzione cultuale, ne ha però creata un’altra «attraverso la quale l’oggetto, ricreando ed esaltando anzi al massimo su un altro piano la sua autenticità, si caricava di un nuovo valore, perfettamente analogo al valore di scambio di cui la merce doppia l’oggetto».[5] L’opera d’arte, fagocitata nel sistema onnicomprensivo del mercato, reincarna la sua aura nel plusvalore simbolico che coincide con la “cornice discorsiva” creata dai «mercanti d’aura» di cui parlano Alessandro Dal Lago e Serena Giordano nel loro saggio del 2006, su cui torneremo più avanti.[6]
Arte d’élite e arte delle masse?
Benvenuto, invece, della mancata profezia di Benjamin evidenzia due effetti: da un lato, le grandi istituzioni sono diventate dei templi della “religione dell’arte” nei quali l’aura come valore cultuale è più viva e vegeta che mai; dall’altro, le tecnologie di riproduzione, invece di avvicinare l’arte de-auratizzata alle masse, hanno creato i mass media che «sono la forma d’arte e spettacolo veramente specifica del mondo contemporaneo».
Da ciò discenderebbe un’altra «caratteristica essenziale delle arti del Novecento», che Benjamin non ha visto: «la frattura tra arte colta e arte di massa». Benvenuto ritiene anzi che «la cosiddetta “arte contemporanea” si costituisca originariamente proprio come essenziale rottura con la cultura di massa». L’arte nel Novecento si sarebbe dunque divisa in arte delle élites e arte delle masse.
In realtà, la frattura tra arte delle élites e arte delle masse ha una storia molta lunga, che si potrebbe far risalire all’“invenzione” stessa del concetto di arte nella cultura occidentale e al massimo teorico filosofico dell’estetica moderna: quel Kant che fonda il suo giudizio di gusto nella separazione tra il piacere elevato dell’intelletto che, giocando con l’immaginazione, produce e apprezza opere d’arte, e il piacere basso dei sensi, che rimane relegato agli intrattenimenti popolari.[7] Questa distanziazione estetica, passando attraverso il Romanticismo e la sua religione dell’arte, sfocerà nello scontro aperto tra gli Impressionisti e il sistema ufficiale dei Salons, scontro che preparerà il terreno all’esplosione delle avanguardie. Ed è indubbiamente a partire dalle avanguardie storiche che si andrà accentuando la tendenza all’esoterismo nell’arte, in un gioco a rimpiattino sempre più serrato tra artisti che sfidano il gusto dominante nel mondo dell’arte e questo che, col contributo dei critici, riassorbe lentamente le sfide. Il punto teoricamente più esplicito della contrapposizione è in Avanguardia e Kitsch di Greenberg, apparso nel 1939, nel quale il paradigma moderno, di cui Greenberg può essere considerato uno dei più grandi alfieri, si pone effettivamente in contrapposizione con la nascente cultura di massa.
Quanto al paradigma post-duchampiano, per un verso esso ha accentuato la frattura, puntando su un’arte “enigmatica”, intellettualmente impegnativa e ostica per il grande pubblico; per un altro verso, si è appropriato di elementi della cultura e della comunicazione di massa, trasfigurandoli in nuove forme di arte “alta” che, ambiguamente, hanno anche un appeal per la cultura “bassa”. Questo è evidente nella Pop Art e nella tendenza postmoderna a esaltare ironicamente il Kitsch. Con Warhol l’arte “d’avanguardia” diventa anche moda e costume; e la trasgressione estetica, spettacolo.
A ciò si potrebbe aggiungere la tendenza ad “artificare” generi culturali che erano in precedenza considerati estranei al mondo dell’arte in quanto funzionali a scopi meno “puri”, come la fotografia, il cinema, il jazz, il design, la moda, il fumetto, la street art.
La situazione è insomma molto complessa. Da una parte c’è chi, come Yves Michaud, ha definito l’arte contemporanea come arte “allo stato gassoso”, cioè dissolta in quell’etere estetico che è ormai indistinguibile dal profumo onnipresente della moda, dell’industria culturale e del denaro.[8] Dall’altra c’è chi, come Mario Perniola, giustamente osserva che questa “espansione” dell’arte va di pari passo con l’imposizione di un’insindacabile e iperselettiva autorità estetica che rafforza sempre più la frattura, mantenendo la sua autorità e il suo controllo del mercato dell’arte.[9]
Per questo non ha molto senso dire che «i mass media sono la forma d’arte e spettacolo veramente specifica del mondo contemporaneo». Quello che si può dire è piuttosto che oggi il mondo dell’arte è anche, inevitabilmente, parte del mondo della comunicazione e dell’intrattenimento. Ma arte e comunicazione rimangono due ambiti distinti e per certi versi incompatibili perché ciò che l’arte mette in comune non sono messaggi. Anzi, l’arte può essere legittimamente considerata una forma di resistenza alla comunicazione come trasmissione di messaggi.
Dalla ‘poiesis’ alla ‘praxis’
Tornando alla tesi principale, se ammettiamo che nell’estetica del Novecento il valore non è più nell’opera come oggetto, è legittimo chiedersi dove sia finito. La risposta di Benvenuto passa per la «passione del Reale» che Alain Badiou ha usato per caratterizzare il secolo scorso, una passione manifestata nelle tante rivoluzioni che hanno spaccato il Novecento in ogni campo: in politica, in filosofia, in etica, in arte.[10] «Nella modernità novecentesca», scrive Benvenuto, «l’opera è attiva, diventa protesi o molla politica della vita stessa» e l’arte punta a mettere il pubblico di fronte a «qualcosa di Reale». Questo reale dell’arte è la praxis dell’artista, ovvero la sua vita eticamente esemplare, in quanto opposta alla poiesis, ovvero al feticismo della produzione.
Il riferimento è alla distinzione aristotelica tra praxis, «l’azione in quanto non ha un fine fuori di sé, se non quello dell’agire bene» (come la ricerca della verità per il filosofo), e poiesis, la produzione che «ha come scopo un […] un prodotto distinto dall’attività che lo ha generato» (come la scultura per lo scultore). Proprio perché ha il suo fine fuori di sé la poiesis dell’artista-artigiano è inferiore alla praxis del filosofo. Solo col Rinascimento la figura dell’artista si emanciperà da quella dell’abile artigiano e assumerà la dignità che oggi diamo ad essa.
Da qui, con un passaggio alquanto ellittico, Benvenuto avanza l’idea che «gran parte dell’arte del Novecento modernista segni un ritorno alla dignità della práxis contro il feticismo “commerciale” della póiesis».
Anche in questo caso l’eccesso di generalizzazione rende molto forzata la tesi. Gran parte degli artisti del secolo scorso ha continuato a produrre oggetti. Se si esclude il Dadaismo (in particolare con le performance zurighesi del gruppo di Hugo Ball), lo hanno fatto tutti gli artisti del paradigma moderno, come quel Pollock che Benvenuto cita come testimone a suo favore benché abbia prodotto oggetti quanto mai feticizzati dal mercato e dal sistema dell’arte.[11] Ma hanno perseverato nella poiesis anche molti degli artisti che rientrano nel paradigma post-duchampiano.
L’idea acquista invece senso e plausibilità in riferimento a quegli artisti che, tra gli anni sessanta e settanta, hanno esplorato nei modi più radicali e spesso con espliciti intenti anti-feticistici l’utopia dell’identificazione tra arte e vita, da una parte, e la “smateralizzazione dell’oggetto artistico” (secondo la definizione un po’ tranchant di Lucy Lippard), dall’altra. Sono le punte più appariscenti del paradigma che diventa dominante proprio in quel periodo, seguendo le orme di Duchamp e di John Cage, il primo e più influente dei post-duchampiani americani. Si potrebbero citare gli Happening di Kaprow, le azioni banali e i progetti di Fluxus, i lavori più estremi dell’arte concettuale vera e propria; e in Europa, certe opere di Yves Klein, di Piero Manzoni e di Joseph Beuys. E poi soprattutto la Body Art e la Performance Art. Di quest’ultima il caso più estremo è quello di Tehching Hsieh, la cui opera fatta soltanto di anni di vita potrebbe essere il caso perfetto per la tesi di Benvenuto.[12]

In opere e artisti come questi si può affermare che «il prodotto artistico sempre più è stato visto dalle avanguardie moderne come semplice traccia – in quanto tale inessenziale – della prassi dell’artista»; tenendo presente tuttavia che in realtà nessuna traccia è inessenziale, neanche per gli artisti concettuali (o per i performer estremi come Hsieh). La traccia o segno è ciò in cui si incarna il concetto; ed è quello specifico modo di incarnare il concetto che rende quel segno un’opera d’arte – e un’opera di quell’artista.[13] Anche la «vocazione iconoclasta» che Benvenuto attribuisce genericamente al Novecento e che fa sfociare nell’arte concettuale è, tranne casi particolari, solo una metafora per le svariate modalità con cui la concettualizzazione post-duchampiana ha invaso l’opera e soverchiato – non distrutto – l’oggetto.[14]
‘Eupraxia‘ e l’artista come brand
Ciò che è interessante e profondo della tesi non è tanto la pars destruens dell’oggetto-feticcio, quanto la pars construens dell’arte come praxis, come vita: «nella modernità conta la práxis in quanto essa esprime la vita unica dell’artista».
Ma in cosa consiste l’unicità della vita dell’artista? Per Benvenuto, nella sua qualità eticamente esemplare: «quel che dà valore all’evento artistico (non più opera) è una eupraxía, un agire bene». Purtroppo i due esempi portati per dimostrare questo agire bene dell’artista contemporaneo sono del tutto fuorvianti. Il gesto di Manzoni col suo famigerato barattolino e quello di Duchamp col suo orinatoio sarebbero gesti edificanti in quanto declamerebbero che «l’opera, in quanto oggetto, è merda» e che «ciò che ammiriamo – l’opera nella sua unicità» è privo di valore. L’eupraxia è semplicemente identificata col rifiuto e la denigrazione dell’oggetto feticcio, accodandosi alla più superficiale vulgata di queste opere, che meritano invece interpretazioni ben più complesse e accurate.[15]

Ciò che preme a Benvenuto è in realtà dimostrare che l’aura cultuale dell’opera d’arte è risorta come aura cultuale della vita d’artista: «il primato della práxis rispetto alla póiesis non significa affatto la fine dell’aura, al contrario: ora l’aura emana dalla vita stessa dell’artista, che si esprime nelle gesta artistiche che lo vedono protagonista». L’aura benjaminiana si ricostituisce dunque come gloria che l’artista si merita grazie alla sua vita estranea al mercato e assolutamente libera: «Questo agire-bene ha come télos assoluto la smisurata libertà dell’artista moderno che egli getta in faccia al mondo. Questa libertà, che si esprime nel suo piacere per una prassi trasgressiva, può dargli la gloria».
Qui appare en passant una caratteristica molto appariscente del paradigma artistico post-duchampiano: la continua forzatura dei limiti in nome di una libertà assoluta, in cui la prassi trasgressiva non è tanto fonte di piacere quanto espressione di una ricerca ossessiva della singolarità, perché, come vedremo tra poco, non è la libertà che dà la gloria nel mondo dell’arte, ma la costruzione della singolarità.
L’esempio più paradigmatico non poteva che essere Andy Warhol. La sua eupraxia è «un’aura che si afferma come firma e logo e si risolve in molto aurum»; perché «è ormai l’essere-nel-mondo praxico dell’artista quel che consumiamo. La vita dell’artista ci attrae perché egli vive in modo ostentatamente diverso, la sua práxis è inimitabile». E ancora: «Nella modernità, insomma, il rapporto tra opera e artista tende a invertirsi. Prima […] fama e prestigio dell’artista erano conseguenza dei suoi prodotti molto ammirati; oggi, sempre più, ammirare opere è un trascinamento della fama e del prestigio dell’artista. […] Ovvero non è più l’opera a dare valore all’artista, ma l’artista all’opera. E che cosa autorizza l’artista a porsi come tale e quindi a proporre come arte tutto ciò che fa, anche le proprie feci? La propria auctoritas che deriva dalla sua práxis, dalla sua vita d’artista» (corsivi miei).
Questo è un altro punto essenziale del paradigma artistico che ancora domina buona parte dell’arte d’oggi: l’aura è l’effetto della ricerca esasperata della singolarità che diventa auto-costruzione dell’artista come brand. È il tema delle opere post-duchampiane di Piero Manzoni, prima ancora che lo “stile” di Andy Warhol.[16] Ed è la caratteristica che Nathalie Heinich descrive come il motore imballato del “regime di singolarità”, cioè di quel «sistema implicito di valutazione che privilegia per principio tutto ciò che è innovativo, fuori dal comune».[17] Benché si affermi già nel paradigma moderno, nel contemporaneo viene esasperato al punto di mandare fuori giri il sistema perché è l’artista a produrre coscientemente la propria singolarità: «L’artista contemporaneo è diventato il suo proprio termine di riferimento – allo stesso tempo creatore e opera».
Tutto ciò sembra corrispondere perfettamente all’aura dei «mercanti d’aura» analizzata da Dal Lago e Giordano, che nel loro saggio puntano a svelare criticamente i meccanismi di potere all’opera sotto i valori “superiori” del mondo dell’arte odierna. L’aura per loro è il packaging di discorsi che incornicia l’opera e crea il carisma dell’artista. Nel mondo dei “mercanti d’aura” ciò che crea il valore è questa “cornice discorsiva”: «un sistema di relazioni sociali basato essenzialmente […] sulla trasformazione di qualcosa in un’opera», un meccanismo di potere che influenza il mercato.[18]
È un’aura intesa in questo senso che Benvenuto sottintende quando parla di Warhol e collega il tema della vita come eupraxia a quello dell’eutrofia della sfera mediatica, diretta conseguenza dell’evoluzione delle tecniche di riproduzione esaltate da Benjamin. L’auctoritas di Warhol è il potere sociale che egli per primo ha contribuito a costruire facendosi “mercante” della propria aura in quel mondo dell’arte che è ormai contaminato dalla comunicazione di massa. Qui Benvenuto ha gioco facile nel dichiarare la trionfale ricostituzione dell’aura-feticcio negli idoli mediatici, finendo per equiparare Andy Warhol a Lady Gaga o Justin Bieber.
La genealogia dell’opera d’arte secondo Agamben
Tuttavia c’è un altro modo di considerare l’aura dell’artista e l’auctoritas che la costituisce. Prima di esporlo, propongo di prendere in considerazione un testo di Giorgio Agamben, “Archeologia dell’opera d’arte”, che presenta una tesi apparentemente molto simile a quella di Benvenuto.[19]
Agamben inizia constatando che «oggi l’opera sembra attraversare una crisi decisiva, che l’ha condotta a scomparire dall’ambito della produzione artistica, nella quale la performance e l’attività creativa o concettuale dell’artista tendono sempre più a prendere il posto di ciò che eravamo abituati a considerare come “opera”». E per rendere comprensibile il processo che ha portato alla situazione attuale, propone una genealogia del concetto di opera d’arte, di cui abbozza i tre momenti principali.
Anche Agamben parte da una distinzione aristotelica: non quella tra praxis e poiesis, ma quella tra dynamis ed energeia. Per Aristotole l’energeia (solitamente tradotta come “atto”) è qualcosa che è “in opera, in attività» (en-ergon) cioè ha raggiunto il fine, la compiutezza dell’operazione. La statua, che nella pietra non ancora scolpita è in potenza (dynamis), diventa in atto (energeia) quando lo scultore porta a compimento l’opera. Ci sono però attività, come la visione nel vedente o il pensiero (theoria) nel pensante, in cui il fine rimane all’interno dell’operazione e l’energeia risiede nel soggetto stesso. Per questo nella cultura greca l’artista-artigiano (il technites) è un essere incompleto, che non possiede mai l’energeia della sua attività produttiva (poiesis). Il pensatore invece ha in sé il suo fine, perché l’energeia improduttiva del pensare (theoria) è nella sua stessa praxis, che perciò è superiore alla poiesis. «L’operazione perfetta è senz’opera e ha il suo luogo nell’agente», commenta Agamben.
Questa dissociazione tra produzione artistica e pensiero, che segna l’idea greca di arte, si trasforma lentamente passando attraverso la teologia medievale e le peripezie culturali del concetto di “idea” (ben analizzate da Panofsky in un suo famoso saggio)[20] e arriva a un primo punto di rottura con gli artisti e i teorici del Rinascimento: è lì che l’analogia usata da Tommaso d’Aquino per descrivere la creazione divina – al modo dell’architetto che ha in mente l’idea della casa prima di costruirla – finisce per diventare il modello dell’artista che «come il teoreta, rivendica ora la padronanza e la titolarità della sua attività creativa». Per questo Leonardo può scrivere che il pittore è «signore d’ogni sorte di gente e di tutte le cose»: e che «ciò che nell’universo è per essentia, presentia o immaginatione», il pittore «l’ha prima nella mente e poi nelle mani».[21]
Questo processo di emancipazione culturale dell’artista coincide dunque con la consapevolezza della componente “ideativa”, e quindi concettuale, del suo fare. Agamben però radicalizza e rende aporetica questa trasformazione: l’artista diventa superiore all’opera e questa «si trasforma in un residuo in qualche modo non necessario della sua attività creativa». Ne deriva l’intricata situazione che caratterizza l’arte moderna, che Agamben chiama «macchina artistica» della modernità: opera e operazione creativa diventano «nozioni complementari e, tuttavia, incomunicanti», e formano assieme all’artista un nodo borromeo per cui è impossibile isolare uno dei tre elementi senza rompere il nodo.
In realtà quel nodo sembra cominciare a sciogliersi nel secondo momento della genealogia, in cui Agamben suggerisce di interpretare la prassi delle avanguardie novecentesche come performance “liturgica” e “misterica” (nel senso del teologo Odo Casel: una prassi da cui dipende la salvezza di colui che la compie e dei partecipanti). «L’azione dell’artista si emancipa dal suo tradizionale fine produttivo o riproduttivo e diventa performance assoluta, una pura “liturgia” che coincide con la propria celebrazione ed è efficace ex opere operato e non per le qualità intellettuali o morali dell’artista». Il fare artistico come performance non è più né poiesis né praxis ma «un ibrido terzo in cui l’azione stessa pretende di presentarsi come opera». Qui la differenza rispetto alla tesi di Benvenuto è sottile ma importante, perché lascia intravvedere la possibilità di intendere la poiesis in un modo diverso.
Il terzo momento è il solito orinatoio di Duchamp, che Agamben considera non un’opera, ma un «atto esistenziale» che disattiva la “macchina artistica”, perché «il readymade non ha più luogo né nell’opera né nell’artista, né nell’ergon né nell’energeia, ma soltanto nel museo, che acquista a questo punto un rango e un valore decisivo». È un’interpretazione diffusa ma fuorviante, nella quale il readymade diventa una conferma anticipata della teoria istituzionale di George Dickie: l’opera d’arte è un artefatto a cui il mondo dell’arte ha conferito «lo status di candidato per l’apprezzamento». Ma, come obiettava Arthur Danto, la teoria non risponde alla domanda cruciale: perché il mondo dell’arte ha deciso di mettere nel museo l’orinatoio di Duchamp?
Dalla ‘poiesis‘ dell’oggetto alla ‘poiesis‘ dell’idea
La risposta di Danto è che Fountain non è un banale orinatoio perché è un “significato incarnato” – cioè, aggiungo io, un’energeia teoretica ma a suo modo produttiva -, ed è questo che lo rende un’opera d’arte.[22] Con i readymade Duchamp dichiara che si può fare arte senza costruire un oggetto (cioè senza la poiesis classicamente intesa), ma “incarnando” in un oggetto già fatto una nuova idea («a new thought»). Questo fare non va inteso come pura praxis improduttiva, ma come una nuova forma di poiesis o di techne che, come suggerisce Agamben, è ibridata con la praxis. È una nuova modalità di “incarnare significato” che, nel caso dell’orinatoio, comprende l’ideazione, organizzazione e realizzazione di una serie di “segni” od operazioni semiotico-simboliche: il rovesciamento del sanitario; la firma apocrifa; il titolo “Fountain”; la presentazione provocatoria alla mostra degli Independents; la foto realizzata assieme a Stieglitz; la redazione della rivista The Blind Man coi testi relativi all’opera “rifiutata”; gli appunti sui readymade inseriti nella scatole a corredo del Grande Vetro. Nel corso del tempo a questo “significato incarnato” in Fountain sono andati ad aggiungersi altri segni e testi come, ad esempio, l’orinatoio in miniatura inserito nella Boîte en-valise, la prima apparizione di una replica in una mostra a New York nel 1950 e poi nel museo di Philadelphia nel 1963, i commenti di Duchamp nelle numerose interviste, ecc. L’opera “deborda” dall’oggetto perché tende a inglobare tutti questi segni e, alla fine, in un certo senso, l’intera vita di Duchamp, di cui diventa una specie di sineddoche. È perciò un ibrido tra la poiesis come produzione di opera e la praxis come stile di vita o, per usare un’espressione cara ad Agamben, come «forma di vita». Nella conclusione del suo saggio, egli propone infatti di ripensare il senso stesso del fare arte ed essere artista. Gli artisti «non sono i titolari trascendenti di una capacità di agire o di produrre opere»; al pari di tutti gli uomini sono «dei viventi che, nell’uso e soltanto nell’uso delle loro membra come del mondo che li circonda, fanno esperienza di sé e costituiscono sé come forme di vita. L’arte non è che il modo in cui l’anonimo che chiamiamo artista, mantenendosi costantemente in relazione con una pratica, cerca di costituire la sua vita come una forma di vita: la vita del pittore, del falegname, dell’architetto, del contrabbassista, in cui, come in ogni forma-di-vita, è in questione nulla di meno che la sua felicità».[23]

in cui fa la sua prima apparizione pubblica l’orinatoio di Duchamp.
Contro la creatività astratta e trascendente dell’artista-genio, Agamben propone, come dice altrove, «una forma di vita che si mantiene in relazione con una pratica poetica, quale che sia».[24] Proposta meritoria, che però rende inutile l’attività critica e, abbandonando la «macchina artistica della modernità», consegna tutto il mondo dell’arte attuale al packaging discorsivo-promozionale dei mercanti d’aura e agli idoli mediatici di cui parla Benvenuto
È tuttavia possibile reinterpretare diversamente le «pratiche poetiche» più significative e importanti del Novecento, come quella di Duchamp. Anche la sua poiesis anomala – da “anartista”, filosofo e trickster che nasconde i segni di confine – è «una forma di vita che si mantiene in relazione con una pratica poetica, quale che sia»: una praxis-poiesis che pensa (theoria) e produce (segni, quali che siano).
In questo modo, quello che per Benvenuto è un trasferimento di valore dalla poiesis alla praxis, può essere visto come trasferimento dalla poiesis manualea una poiesis teoretica, cioè dalla poiesis dell’oggetto alla poiesis dell’idea (sempre incarnata in un “segno”, però). È questo il nucleo essenziale del paradigma post-duchampiano, che comporta non solo la subordinazione dell’oggetto all’originalità dell’idea, ma anche l’enfatizzazione dell’aura dell’artista e della sua vita. Quest’ultima non comporta affatto una rinuncia alla poiesis o una sua sostituzione con la praxis, ma un modo diverso di intendere la poiesis.
L’aura dei mercanti e l’aura degli interpreti
In conclusione, tornando al tema dell’aura, credo che la fonte principale degli equivoci sia nel mancato riconoscimento di un’ambiguità molto diffusa nel mondo dell’arte odierno, simile a quella della famosa figura gestaltica del papero-coniglio: due facce fuse assieme in modo tale che se si vede l’una non si vede l’altra. Qualcosa del genere vale anche per il concetto di aura.[25]
Una faccia, spesso la più appariscente, è l’aura come alone feticistico creato col packaging discorsivo del potere socio-economico. L’altra faccia è l’aura che propongo di vedere come “atmosfera di teoria artistica e storia dell’arte”, l’espressione che Arthur Danto usa per indicare ciò che trasfigura un oggetto in un “significato incarnato”, cioè in un’opera d’arte in cui sono, per così dire, condensate tutte le relazione “ermeneutiche” che legano quell’oggetto al mondo culturale e alla vita dell’artista.
Si tratta sempre di discorsi, in fondo. E quindi, come ci ha insegnato Michel Foucault, sempre di potere. Ma se l’auctoritas socio-economica può conferire lo status di opera d’arte, solo l’auctoritas critico-ermeneutica permette di valutare e apprezzarne la “potenza metaforica”. Il primo è un potere immotivato che dipende da rapporti di forza (psichici, sociali, economici); il secondo è motivato da un’interpretazione-argomentazione intersoggettivamente condivisa. Anche se questa ambivalenza coinvolge tutta la cultura nel suo insieme fin dai tempi della contrapposizione socratico-platonica tra dòxa ed epistème, nella sfera dell’arte dominata dal paradigma post-duchampiano diventa esplosiva proprio per l’impossibilità di appellarsi a un kantiano sensus communis aestheticus.
L’aura socio-economica e l’aura critico-ermeneutica sono le due facce dell’arte dei nostri giorni, anche se spesso riusciamo a vederne soltanto una alla volta: il papero del valore sociale ed economico dei “mercanti d’aura” o il coniglio della profondità storico-culturale. Vedere solo la prima impedisce di capire che il paradigma post-duchampiano non è una mera degenerazione dell’unica, legittima concezione di arte, corrotta dagli interessi economici. E vedere solo la seconda sarebbe un’ingenuità o darebbe adito a un sospetto di mistificazione, perché non si può nascondere il fatto che il lavoro ermeneutico indispensabile all’arte contemporanea – tanto da diventare parte stessa dell’opera – è pur sempre plusvalore strumentalizzabile dai “mercanti d’aura”.
Vista come aura critico-ermeneutica, l’aura della vita d’artista non è più un’operazione di marketing o una strategia mediatica (l’altra faccia della figura ambigua). È invece l’aura ben riassunta in una frase di Sarah Thornton: «gli artisti non fanno semplicemente arte. Creano e preservano miti che danno forza e peso alla loro opera».[26]
Se lo stile di un artista è la «fisiognomica dell’anima», per usare una bella espressione di Schopenhauer, allora in ogni opera d’arte dev’esserci un po’ di questa fisiognomica che l’artista ha reso visibile.[27] Nell’arte visiva tradizionale la fisiognomica dell’anima si manifesta nell’azione fisica dell’artista sulla materia (il suo “stile” nel senso etimologico di stilus). In quella post-duchampiana, invece, la traccia non è necessaria, o meglio tende a trasformarsi in brand.[28] Con un’avvertenza: produrre coscientemente la propria singolarità significa non solo crearsi un’immagine, ma anche, e soprattutto, plasmare la propria vita in modo che diventi fisiognomica dell’anima. Ogni azione, ogni idea, ogni cosa realizzata in una simile vita d’artista può avere allora il tocco di Mida che ha suggerito, con la sua ironia, Piero Manzoni. Ogni opera diventa sineddoche di quella metafora straordinariamente complessa che è la vita dell’artista. È come se in ogni opera si riverberasse la “presenza” concettuale della sua intera esperienza artistica, allo stesso modo in cui ogni singola parte di un ologramma conserva il contenuto informativo dell’intera immagine.
È questa l’unicità della vita d’artista. Ciò che Benvenuto chiama eupraxia non è che il riverbero dell’aura concettuale su tutta l’ouvre e la vita dell’artista. Un riverbero che risuona anche quando Duchamp riassume la sua arte nel più semplice atto del vivere: «La mia arte sarebbe quella di vivere ogni istante, ogni respiro; è un’opera che non si può ascrivere a nessun ambito specifico, non è né visiva né cerebrale. È una specie di euforia costante.[29]
O quando John Cage, parlando di 4’33” tre giorni prima di morire, confidava a un intervistatore: «Non è passato giorno che non abbia fatto uso di quel pezzo nella mia vita e nel mio lavoro. Lo ascolto ogni giorno… Non mi siedo per farlo, rivolgo solo la mia attenzione a esso. Mi rendo conto che sta suonando continuamente. […] Più di ogni altra cosa, è la fonte del mio piacere di vivere. La cosa più importante, alla fine, è che conduce fuori dal mondo dell’arte, nell’interezza della vita».[30]
Combattere l’autonomia dell’arte per ricongiungerla alla vita è lo slogan che viene solitamente attribuito alle avanguardie del Novecento, nel quale ciò che conta non è tanto la vita dell’artista, quanto il rifiuto dell’arte come sfera separata, al di là della realtà. È questa, innanzitutto, la passione del reale di cui parla anche Badiou. Lo slogan però è troppo generico per render conto della complessità dei movimenti artistici del Novecento e in particolare del senso di opere e personalità come Duchamp o Cage. Nel caso di Duchamp, come scrive Hal Foster, lo scopo «non è né un’astratta negazione dell’arte né una romantica riconciliazione con la vita, ma una continua messa alla prova delle convenzioni di entrambe».[31] E nel caso di Cage, lo scopo è quello di raggiungere, attraverso l’arte, quel senso di interconnessione del Tutto appreso dal pensiero zen.
L’arte di respirare e l’arte di ascoltare il suono della vita del tutto sono prassi poetiche impregnate di significato. Quel significato incarnato che costituisce l’“essenza” dell’opera d’arte post-duchampiana.
[1] Per un’analisi attenta e approfondita delle complessità del concetto di aura in relazione ai media, cfr. la raccolta di testi benjaminiani curata da Pinotti e Somaini: Benjamin, Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, Einaudi, 2012.
[2] Nathalie Heinich, Le Paradigme de l’art contemporain. Structures d’une révolution artistique, Gallimard, 2014.
[3] Per un un’esposizione più argomentata e dettagliata del paradigma “post-duchampiano” rimando al mio Catastrofi d’arte, Johan & Levi, 2019, dove ho ripreso e sintetizzato la proposta di Heinich integrandola con alcune tesi fondamentali di Arthur Danto.
[4] Francesco Poli, Il sistema dell’arte contemporanea, Laterza, 2011, xii.
[5] Giorgio Agamben, Stanze, Einaudi, 1977, p. 53. Agamben evidenzia il legame profondo tra l’analisi freudiana del feticismo, quella marxiana del “carattere di feticcio della merce” e la scoperta del fascino esotico della merce che fa ipotizzare a Baudelaire la necessità che l’opera d’arte diventi una “merce assoluta”. Vedi anche L’uomo senza contenuto, Quodlibet, 1994 (I ed. Rizzoli, 1970), p. 171.
[6] Alessandro Dal Lago e Serena Giordano, Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea, Il Mulino, 2006.
[7] Cfr. Larry Shiner, L’invenzione dell’arte. Una storia culturale, Einaudi, 2010.
[8] Yves Michaud, L’Arte allo stato gassoso, Idea, 2007.
[9] Mario Perniola, L’arte espansa, Einaudi, 2015
[10] Alain Badiou, Il secolo, Feltrinelli, 2006.
[11] Non è vero, come sostiene Benvenuto, che è fondamentale sapere come Pollock ha dipinto i suoi quadri per apprezzarli, benché sia sempre interessante sapere come un artista ha realizzato la sua opera. La fortunata formula “action painting” non significa che l’espressionismo astratto di Pollock sia una variante della performance art, anche se i giapponesi di Gutai l’hanno creativamente fraintesa in questo modo.
[12] Su Tehching Hsieh rimando al mio contributo pubblicato su Doppiozero.
[13] Perfino nel caso di Yves Klein, che dei suoi quadri diceva: «sono le ceneri della mia arte», le opere non sono tracce inessenziali; anzi, soltanto incarnandosi in quelle specifiche opere, l’arte e la vita di Klein si possono manifestare. A dispetto della sua visione mistico-esoterica, per cui il “Vuoto” è la vera realtà in cui si realizzerà pienamente lo Spirito, le sue opere non sono fatte di vuoto, nemmeno Le Vide. Cfr. Catastrofi d’arte, op. cit., Catastrofe quattro.
[14] Cfr. Dario Gamboni, “Image to destroy, indestructible image”, in Bruno Latour, Iconoclash, 2002.
[15] In particolare, la Merda d’artista di Manzoni va ricompreso nel contesto delle sue opere post-duchampiane in cui si manifesta con grande perspicuità il tema della costruzione del brand d’artista. Per interpretazioni radicalmente alternative a quelle proposte da Benvenuto rimando ancora a Catastrofi d’arte, op. cit. e in particolare ai capitoli su Duchamp e Manzoni.
[16] Catastrofi d’arte, op. cit. Catastrofe Cinque.
[17] Heinich, op. cit, p. 75.
[18] Dal Lago-Giordano, Mercanti d’aura, op. cit., p. 95.
[19] Giorgio Agamben, “Archeologia dell’opera d’arte”, in Arte e anarchia, Neri Pozza, 2017. Il saggio è tratto da una lezione tenuta all’accademia di architettura di Mendrisio nell’ottobre del 2012.
[20] Erwin Panofsky, Idea. Contributo alla storia dell’estetica, Bollati Boringhieri, 2006.
[21] Cit. in Ernst Gombrich, “Idea in the Theory of art: Philosophy or Rhetoric?”, 1989, in cui ci sono interessanti osservazioni sul saggio di Panofsky.
[22] Danto considera questa una definizione dell’arte tout court. Cfr. Arthur Danto, La trasfigurazione del banale. Una filosofia dell’arte, Laterza, 2008. Ma è più pertinente e meno problematico limitarla all’arte del paradigma “contemporaneo”.
[23] “Archeologia dell’opera d’arte”, op. cit., pp. 27-8
[24] Giorgio Agamben, Autoritratto nello studio, Nottetempo, 2017, p. 13.
[25] Riprendo qui una parte delle conclusioni di Catastrofi d’arte, op. cit.
[26] Sarah Thornton, 33 artisti in 3 atti, Feltrinelli, 2017, p. 7.
[27] Cfr. Danto, La trasfigurazione del banale, op. cit, pp. 250-2.
[28] È il carattere “allografico” del paradigma conemporaneo di cui accenno nell’ultimo capitolo di Catastrofi d’arte, op. cit.
[29] Pierre Cabanne, L’ingegnere del tempo perduto, Conversazioni con Marcel Duchamp, Abscondita, 2009, p. 110-11.
[30] Cit. in Catastrofi d’arte, op. cit., p. 65.
[31] Hal Foster, The Return of the Real, The MIT Press, 1996, p. 16.
In copertina: la figura ambigua Duck-Rabbit, studiata da Jastrow e resa celebre da Wittgenstein.