Ancora una volta è necessario ribadire che il fine ultimo dell’analisi è alquanto amorale: non la cura (forzosa) di ciò che si discosta più o meno evidentemente dalla normalità – come poteva supporre la prima psicoanalisi con fare ingenuamente ottimistico –, bensì piuttosto l’appianamento, attraverso la messa a dimora in coscienza, di ogni conflittualità interna, ma in favore anzitutto del proprio buon vivere. Questo significa che i mezzi in uso all’analisi non sono per l’appunto quasi mai gli stessi operanti all’interno della moralità: ciò che l’individuo può fare non coincide mai con quello che deve – e anche questo non è sicuramente quello che realmente egli vuole –. In qualsiasi analisi – fosse pure quella ecfrastica – si tratta sempre di salvare il piccolo fantasma di ognuno, ma non come demone perverso, bensì come felice inclinazione. Più propriamente, all’interno dell’analisi iconica, il gioco si declina nella modalità seguente: bisogna riuscire a mostrare, attraverso il lavoro esegetico, la realtà di tutti quei luoghi in cui l’immagine dice effettivamente quel che deve, a prescindere cioè da quello che gli altri – cioè tutte quelle persone che pensano di poterla utilizzare al pari di un semplice mezzo di comunicazione – avrebbero voluto in definitiva facesse. Ciò significa che la lettura dello spazio visivo non deve mai limitarsi a ciò che inerisce la semplice visibilità di superficie – poiché, sulla scorta platonica, l’immagine su questo piano è veramente ingannatrice – e tuttavia nemmeno cadere al di fuori di ciò che in essa si mostra come profondamente iconico. Più che leggere l’immagine è allora necessario prestarle ascolto: bisogna sentire – (αἰσθησις =aisthesis, cioè l’estetica, ma nel senso originario del “sentire” col corpo, “percepire”) – cosa essa dice di diverso rispetto quello che è obbligata a mostrare.
Un uomo, seduto compostamente al suo desco, probabilmente prende nota di una qualche comunicazione importante che gli è appena sopraggiunta per telefono. Il vestiario formale, l’arredo sobrio ma curato, le due bandiere alle spalle (una nazionale e l’altra sovranazionale), etc., ci fanno capire di esser al cospetto della fotografia – l’accento sull’oggetto mediale non è casuale – di un uomo di potere. Così quest’uomo qui rappresentato, proprio poiché appartenente ad una qualche élite, è appena giunto a conoscenza di una notizia che sembrerebbe essere alquanto importante: il suo viso è velato da acuta concentrazione, la bocca è semiaperta come pronta a chiedere all’interlocutore maggiori informazioni, la fronte è leggermente corrucciata, lo sguardo è fisso, lo stilo annota qualcosa con prontezza, etc. Sembrerebbe che il fotografo, nel bel mezzo della sua seduta di lavoro, abbia avuto la fortuna di essere presente proprio durante il sopraggiungere di questa inderogabile comunicazione, e che come un ladro non si sia fatto scrupoli a cogliere questo istante così riservato. L’immagine in questione, a questa prima lettura, sembrerebbe mostrarci due semplici cose: da una parte 1} che qui siamo all’interno di uno scatto voyeuristico, dal momento in cui ciò che è qui rappresentato non ci sarebbe dovuto essere destinato – e ciò, implicitamente, significherebbe lasciar trasparire l’alta moralità dell’uomo in questione, che può essere preso anche alla sprovvista poiché privo di segreti da nascondere –. E 2} che egli è un uomo continuamente al lavoro, poiché anche quando il suo tempo sarebbe dovuto essere destinato ad una sessione fotografica dai toni leggeri, egli è anzitutto ligio alla causa – e ciò significa che il suo piacere è sempre abdicato, come si suole dire, all’importanza del dovere –. È su questo doppio rigido binario che quest’immagine chiede di essere letta, ed è in questo modo che essa evidentemente ci è mostrata.

Ma il punto è: cosa essa realmente dimostra? Quando un’immagine ostenta troppa verità si può star sicuri che cada, prima o poi, nel suo stesso tranello illusionistico. Come suggerivo poco sopra, credo sia opportuno sentire cosa l’immagine abbia da dire, piuttosto che limitarsi semplicemente a leggerla. Ad una più attenta osservazione infatti, la fotografia in questione appare energicamente in contrasto con la naturalezza che parrebbe a prima vista ostentare. Se non dovesse bastare il forte gioco di luci proveniente dall’alto – tutt’altro che ambientale! –, si guardi la simmetria perfetta che regna in questa architettura razionale: se si pone il volto dell’uomo come plesso significativo della costruzione – in cui, detto per inciso, il segmento visibile della cravatta segna la medianità esatta del quadro visivo – quello che sta al di qua ed al di là di questa rigida divisione si corrisponde, sostanzialmente prima ancora che formalmente, pressoché perfettamente. In primissimo piano, quello che sembra essere un piccolo putto argenteo apicale, ha il suo perfetto omologo nella mano che impugna la stilo; il bicchiere di cristallo si contrappone bene alla pila di fogli all’altro lato del tavolo; il filo della cornetta e il braccio che scrive dell’uomo hanno pressoché la stessa inclinazione rispetto al piano; il bianco del velame alla sinistra dell’uomo è corrisposto specularmente da una certa buia ombrosità da cui scaturisce una piccola pianta; etc. Insomma, quella che sembrava essere la ripresa fortuita di un istante reale, ecco che diventa ben subito un momento costruito artificialmente sul vuoto. Così, dove prima appariva qualcosa ora, nell’evidenza della costruzione, sembrerebbe che qualcosa piuttosto manchi. Ma cosa? Proprio ciò di cui essa ostenta d’esser colma, cioè la realtà. Tutto appare d’improvviso dal suo lato tragicamente fittizio, comico, irreale. Per esempio: ben si sente – mi si potrà poi anche contraddire, ma con una certa difficoltà – di come quella cornetta bianca sollevata all’orecchio non stia realmente comunicando all’uomo alcunché: è lì come null’altro che la rappresentate muta dell’idea che il fotografo aveva il compito di rappresentare (essere costantemente al lavoro, parlare con uomini importanti, non avere tempo da destinare per sé, etc.). Ma è allora da qui che tutto diventa veramente interessante: se tutto ciò fosse vero, cosa sta ascoltando quest’uomo se non il tu tu tu della linea telefonica libera? E per di più: cosa significa un volto così concentrato proprio di fronte a questo silenzio? Tutto in questo caso assume una diversa prospettiva: il suo volto allora non è più quello dell’uomo concentrato sul da farsi, bensì quello allibito di chi sta cercando di venire a patti col vuoto. Egli, così si potrebbe dire, sarebbe cioè 1} concentrato 2} nell’ascolto attento 3} del silenzio vuoto 4} di una tacita comunicazione, che si pone in essere non altrimenti che come 5} il tu tu tu muto di questo apparecchio telefonico. Spirale diabolicamente vertiginosa, che porta tutto quello che è qui presente al proprio fondo di assoluta inanità. Per di più: se egli sta veramente ascoltando questo silenzio assordante, cosa starà scrivendo con così tanta attenzione e cura? E non solo cosa, ma persino come scrivere quella comunicazione non ancora sopraggiunta (o, ma è uguale, sopraggiunta solo tacitamente)? Si noti anche quello strano modo di riscrivere i propri appunti: il foglio che egli sta riempendo dall’alto – come se avesse per la verità appena incominciato – è, a ben guardarci, già fittamente compilato in tutta la sua superficie. Insomma, quello che appariva ad un primo sguardo è, in realtà – cioè nella realtà più vera dell’immagine – assolutamente contraddetto: solo cioè prestando la giusta attenzione al discorso visivo instaurato dall’immagine si può evitare di cadere nel tranello della sua visibilità.
Ma perché ciò accade? Perché l’immagine, più che semplice oggetto passivo del discorso, vive attivamente nella qualità dello sguardo che la palpa ovunque – l’immagine si spoglia solo lì cioè dove lo sguardo la tocca –. Ho già provveduto su queste stesse pagine a mettere in pratica quel procedimento di lettura del quadro che si potrebbe definire senza indugi iconocentrico, cioè imprescindibilmente fondato su quanto è presente (all’interno o attorno) ai limiti visivi dell’immagine. Ma potrebbe mai essere differente il lavoro ecfrastico? La πρᾶξις (=praxis, cioè la “pratica”, intesa però in senso prettamente manual-palpativo) della lettura del quadro non può prescindere da quanto in esso viene portato alla nostra visibilità: se il quadro inizia sulla sua superficie – e mai altrove! –, la sua immagine certamente finisce però nel nostro sguardo (e credo non sia necessario insistere sulla vicinanza pulsionale che lega lo sguardo alla libido. Cfr. p.es.: D.Freedberg, Il Potere delle Immagini. Il mondo delle figure: reazioni ed emozioni del pubblico, Einaudi, Torino 2020, in particolare cap. XII). Ciò significa che siamo noi a dare corpo – o viceversa, come in questo esempio appena analizzato, a svuotare del tutto di ogni consistenza! – le numerose immagini che ci capitano sotto mano. Come ben scrive Federico Ferrari – «Se l’iperproduzione iconografica, di cui siamo tutti coautori, smaterializza il mondo, allora occorre creare e selezionare immagini che abbiano un corpo. Dare un corpo alle immagini, è questa la sola possibilità. Far assumere loro una fisionomia, un volto, una consistenza oppure liberarsene» – credo anch’io ci si debba impegnare, financo con la pazienza del pedagogo, su questa via. È davvero necessario, in questo «Junk food iconografico» (ibid.), obbligarsi ad una cernita sensata, ovverosia decidersi per quei luoghi visivi in cui spendere il proprio preziosissimo tempo. Perché? Perché non è possibile altrimenti fare dell’immagine quello che realmente dobbiamo, cioè un corpo. Dare corpo all’immagine – o, più precisamente, ad alcune preziosissime immagini – significa fondamentalmente reputare non sufficiente il rapporto visuale che si può normalmente instaurare con loro. Desiderare semplicemente qualcosa di più, chi potrebbe negarcelo! Che il destino dell’immagine sia allora altrove dalla sua visibilità? Perché no! Come mi disse un amico molto scaltro dopo aver letto un mio articolo riguardante la smaccata eroticità dei seni appartenenti alle Madonne Galactotrofuse (così come di alcune Sante martirizzate ben poco vestite): “Mi è molto piaciuto! (forse perché me ne intendo più di erezioni che di iconografia cristiana)”. Touché! Non esiste in effetti altro modo per leggere giustamente il quadro che assumersi tutta la responsabilità – fino, in ultimo, all’impudicizia più eretica (o, come nella fotografia qui sopra riprodotta, fino al politically incorrect più nostrano) – della sua visione. Per questo è infantile la pretesa di alcuni storici dell’arte di mettersi davanti al quadro nascondendosi però dietro ai fatti che lo storicizzano (il contesto culturale, l’anno presunto di produzione, la committenza, la biografia dell’autore, etc.), poiché non è attraverso questi sterili dati che l’immagine prende corpo.
È, per ritornare a quanto detto in apertura, solo una questione di valori: il problema è che essi, anche nell’immagine, non sono quasi mai puramente estetici.
In copertina: fotografia trasmessa dal TG5 delle 20:00 del 30/04/2020 durante un collegamento audio con Silvio Berlusconi (particolare)