Mirosław Bałka, o del mondo contaminato

Ricordate chi era Drupi? Un ex idraulico con l’hobby della pesca, divenuto improvvisamente famosissimo in tutta Europa a metà degli anni Settanta. In Polonia (dove, secondo Wikipedia, i suoi concerti richiamavano più pubblico di quelli di Elton John), lo chiamavano “Drupi-Głupy”, Drupi-lo-Scemo. Nell’arte ascetica e rarefatta di Mirosław Bałka (Otwock, Polonia, 1958) anche Dupi-lo-Scemo diventa portavoce di un ricordo, di un passato al tempo stesso vicino e straordinariamente remoto, di una speranza, di una congettura per il futuro: “un augurio, una previsione, una poesia ermetica.

“Sereno è”, ripete, nella Galleria Raffaella Cortese di Milano, un singolare oggetto metallico, a metà strada fra una telecamera per la videosorveglianza, un’arma puntata, una caraffa di un mondo post nucleare, fissata molto in alto su di una parete molto bianca. “Sereno è”, cantava Drupi nel 1974: Bałka aveva 16 anni e la Polonia di Gierek godeva di una breve ed esaltante crescita economica, di un, forse apparente, allargarsi delle maglie della censura. Rossana Rossanda si entusiasmava delle prospettive aperte dall’incontro del Primo Ministro polacco con gli operai di Stettino, il Partito riallacciava i rapporti con il Vaticano.

Mirosław Bałka, Sereno è, all’interno della mostra “L’orecchio di Dioniso”, Galleria Raffaella Cortese, Milano 2020

Sereno è fa parte della mostra L’orecchio di Dionisio (23 giugno-18 settembre 2020) presso la galleria Cortese, che dal 2003 promuove le opere di Bałka, e in quell’anno aveva ospitato la prima mostra italiana dell’artista. La stessa città di Milano nel 2017 aveva presentato la prima mostra antologica dell’artista nel nostro paese, Crossover/s, a cura di Vicente Todolì (Hangar Bicocca, 16 marzo-30 luglio 2017). Vi erano presenti diciotto opere, create in un arco di tempo dal 1995 (Soap Corridor) al 2017 (Unnamed), dalle dimensioni diversissime, dal piccolo hard skull (2006; 15 x 22 x 19: un objet trouvé, un casco da motociclista rinvenuto ai bordi di una strada), al grande Cruzamento (2007; 200 x 1320 x 2200, due corridoi in forma di croce delimitati da griglie di acciaio), all’imponente vasca metallica continuamente riempita di acqua nera Wege zur Beahndlung von Schmerzen (2011; 900 x 500 x 500). Vi si potevano inoltre vedere tre brevi installazioni video: BlueGasEyes (2004; 3’37”), Primitive (2008; 3’) e MapL (2009-2010; 45’).

Mirosław Bałka, BlueGasEyes, 2004 (fermo immagine)

“Sereno è…”. Un ricordo di adolescente. Banale, come estratto dal dormiveglia. Una delle costanti dell’arte di Bałka è la capacità di utilizzare elementi della propria esperienza memoriale e fisica (l’altezza, l’apertura delle braccia, la temperatura del corpo), sublimandone l’individualità e la finitezza, in aperto conflitto con l’astratto Modulor lecorbusieriano. “Sereno è” intona una voce che è però del tutto priva di corpo, che oggi risuona come l’astratto vaticinio “Tutto andrà bene” che costellava le nostre città.

Si è già detto dell’abitudine di Bałka di impiegare come titoli le misure del proprio corpo o anche le misure degli oggetti rappresentati (fra le opere “milanesi”, il breve corridoio ligneo le cui le dimensioni, 196 x 230 x 141, si adattano a quelle del passaggio del corpo dell’artista, o 105 x 25 x 25, l’altezza e le dimensioni di un mattone su di un’asta metallica). Anche perché, come ha detto Bałka, “la complessità dell’arte risiede nel trovare una modalità per esprimere in forma astratta quanto vi è di più conosciuto, familiare e funzionale”. E dunque anche un “semplice” mattone, grazie alla bizzarra posizione spaziale e alla mediazione dell’artista si trasforma in simbolo, in astrazione.

A volte l’artista volutamente si ritrae dalla propria opera. Come in quella che caratteristicamente definisce essere “il cuore” della mostra milanese, l’opera al tempo stesso più “potente e delicata”: 7 x 7 x 1010 (2000), una lunga collana di saponette usate, raccolte fra cittadini di Varsavia. L’idea dell’installazione era venuta all’artista già molti anni prima, quando, da ragazzo, osservava la pietas con la quale la nonna conservava i resti di sapone quasi consunti, che andavano a formare dimesse composizioni multicolori.

Il carattere collettivo – se vogliamo molto “polacco”, “slavo” – dell’opera dell’artista era ben evidenziato nella mostra milanese. “Secondo una formula semplificata e cruda […], la cultura della memoria polacca è troppo collettivistica e quindi tradizionale, e quindi meno europea”, ha scritto lo storico della cultura Robert Traba. Caratteristica che ben risulta a confronto con la cultura della memoria tedesca: “individualizzata, e quindi più europea”. Alcuni artisti polacchi, fra cui ad esempio Paweł Althamer o Artur żmijewski, avevano però trovato una strada per un “collettivismo europeo”, certamente non tradizionalista. Si tratta di quel fenomeno definito da Piotr Piotrowski Agorafilia, che caratterizzerebbe l’impegno di molte manifestazioni artistiche dei paesi della cosiddetta Europa Orientale (o meglio Centrale, almeno per quanto riguarda la Polonia), ovvero dei paesi un tempo dal di là della cortina di ferro. È un’arte che, sempre secondo Piotrowski, non “rappresenta la politica, ma che è politica” ovvero “una politica che, con metodi artistici, possa trasformare il reale”. Di Paweł Althamer, a titolo di esempio, si può rammentare la gigantesca opera collettiva Bródno 2000. Nel mese di febbraio di quell’anno l’artista aveva convinto gli inquilini del grande blocco post sovietico, nell’allora degradata periferia di Varsavia in cui abitava, ad accendere o spegnere la luce alla stessa ora, in determinati ambienti. L’installazione luminosa, durata 30 minuti, aveva richiesto la collaborazione di 200 famiglie. Come risultato, l’intero lunghissimo blocco era stato trasformato dalla gigantesca scritta luminosa “2000”. Questa apparentemente semplice iniziativa aveva poi generato una serie di azioni sociali, fra cui la creazione dell’imponente parco delle Sculture di Bródno, istituito del 2009, in cui sono presenti opere di artisti come Roman Stańczak, Jens Haaning, Ai Wei Wei. Anche Bałka ha nel suo curriculum artistico diverse iniziative simili, come ad esempio Signaalit/Signals (4 aprile-4 luglio 2013), durante la quale abitanti di Helsinki, precedentemente contattati, comunicavano fra loro alcune esigenze primarie relative alla vita collettiva per mezzo di bandierine di segnalazione. Dell’azione facevano parte anche incontri aperti e discussioni. Importante per l’artista era anche il mezzo prescelto, ovvero uno strumento antico e non tecnologico (bandierine simili venivano usate dai marinai nell’Ottocento), ovvero una strada per la comunicazione che potesse prescindere, ad esempio, dall’utilizzo di luce elettrica, e poter essere usato anche in caso di blackout.

Il minimalismo poetico e l’essenzialità degli elementi usati da Bałka è certamente uno dei tratti più caratteristici della sua arte e va a comporre quello che, molti anni fa, il critico del “New Yorker” Peter Schjeldahl aveva definito un “haiku polacco”: “mi colpiva la bellezza di oggetti trasudanti un senso di tale povertà che qualsiasi lavoro dell’Arte Povera mi sarebbe sembrato, al confronto, un gadget di gran lusso”, aveva scritto nel catalogo di una mostra americana. La Polonia comunista nella quale Bałka, nipote di un falegname e figlio di uno scalpellino di lapidi, è cresciuto era in effetti per alcuni versi ancora quel paese dalla “semplicità apostolica” verso cui, dall’esilio americano, si struggeva di nostalgia Cyprian Norwid nel 1854: “Ho nostalgia, Signore, di quel paese / dove sollevano da terra una briciola di pane / in segno di rispetto verso i doni del Cielo”.

Appelons cela O.A.S. Trois fils – Objet-Art-Shoah. Que les trois se tressent ensemble.
(Gérard Wajcman, L’objet du siècle, p. 28)

Soap Corridor è un’opera di grandi dimensioni (250 x 1000 x 900, la larghezza è di 120) del 1995, la prima, in ordine temporale, fra quelle esposte all’HangarBicocca. Una sua versione precedente era stata presentata alla Biennale di Venezia due anni prima, quando l’artista aveva ricoperto di un sottile strato di sapone l’ingresso al Padiglione polacco. Di nuovo un’opera ispirata alle misure del corpo dell’artista, e di nuovo il sapone, un elemento sintetico con cui il nostro corpo entra in contatto intimo, e sul quale rimangono flebili tracce di chi lo ha usato. È un elemento quotidiano e modesto ma anche dal forte contenuto simbolico, così come tutto ciò che ha a che fare coi lavacri e la purezza; col sapone si lava il corpo del neonato, col sapone si lava il cadavere prima di venire deposto.

Nel 1995 il Corridoio era stata adattato, nella stessa forma presente a Crossovers/s, per la grande mostra organizzata presso la Galleria Nazionale di Arte Moderna Zachęta di Varsavia da Anda Rottenberg, allora sua direttrice, dal titolo Dov’è Abele, tuo fratello? Benché l’intento non fosse esplicitamente in questa direzione, Dov’è Abele, il cui tema centrale era quello della responsabilità reciproca degli esseri umani, viene ritenuto il primo grande evento di arte contemporanea dedicato alla memoria della Shoah. Non tutti gli artisti presenti (fra cui Anselm Kiefer e Jannis Kounellis) avevano però collegato le loro opere direttamente a questo tema, e così aveva fatto Mirosław Bałka. Nel catalogo l’artista aveva riprodotto il testo di una brochure del 1904, rinvenuta per caso (una sorta di objet trouvé), sulla vita di Jan Beyzym, missionario fra i lebbrosi in Madagascar. Ma in Polonia, nel contesto della mostra, il sapone porta forse inevitabilmente ad altre associazioni di pensiero. Era nell’Istituto di Anatomia di Danzica che operava il famigerato dottor Rudolph Spanner, forse inventore delle celebri saponette composte con il grasso degli ebrei uccisi nei lager, e la sua storia è uno degli otto “medaglioni” di Zofia Nałkowska, per decenni lettura obbligatoria nelle scuole polacche. Benché l’esistenza di questo macabro prodotto non sia mai stata definitivamente comprovata, la leggenda che lo accompagna non è ancora scomparsa. Il Corridoio è diventato immediatamente uno dei simboli dell’arte polacca sulla Shoah, e continua ad esserlo, benché l’artista se ne sia più volte schermito. “Padre Beyzym – ha detto Bałka – lavava i lebbrosi, li cibava, se ne prendeva cura. Volevo che il sapone non apparisse nella dimensione dell’Olocausto ma in quella della cura di un essere umano nei confronti di un altro”.

Secondo Anda Rottenberg il commento di Bałka al Corridoio costituisce uno “‘spostamento metafisico’ […] che l’artista applica muovendosi da un contesto (evidente) a un altro (più sublimato). Bałka ha ‘usato’ il racconto su padre Beyzym per allontanare ‘l’interpretazione immediata, che sarebbe stata troppo banale e limitata’”. È anche comprensibile però che in quegli anni ancora travagliati, nei quali tuttavia la Polonia conosceva un – troppo breve! – periodo di apertura alla “pluralità delle culture della memoria”, una certa parte dell’intellighenzia polacca sentisse il bisogno di un artista “nazionale”, gią noto all’estero e generalmente apprezzato, in grado di sublimare la riflessione sulla Shoah; così come ad esempio Anselm Kiefer, nelle sue contraddizioni, in Germania, Christian Boltanski in Francia, o, in misura forse minore, Fabio Mauri in Italia. La Shoah resta comunque uno dei temi fondamentali e più caratterizzanti dell’opera dell’artista polacco, che alcuni accusano di aver dato inizio alla “Olocaustomania” nelle arti visive del suo paese.

Gli disse ancora: “Esci e fermati dinanzi al Signore nella montagna: ecco che il Signore sta passando”.
Un vento impetuoso e forte da fondere le montagne e spezzare le pietre andava davanti il Signore: non era nel vento il Signore. E dopo il vento, un terremoto: non era nel terremoto il Signore.
E dopo il terremoto, un fuoco: non era nel fuoco il Signore.
E dopo il fuoco, una voce, un sussurro sottile.
(Libro Primo dei Re, 19:11-12)

Bałka aveva iniziato a produrre opere riguardanti la Shoah dopo il 1989, una volta venuto meno il dominio della censura e di un’amnesia collettiva che coinvolgeva in egual misura governo e governati:

A un certo punto – ha detto – ho cominciato a sentirmi ossessionato dal passato di Otwock, di un posto da dove in un solo giorno, durante la Seconda guerra mondiale, sono stati deportati quasi tutti gli ebrei. Provavo dolore e rimpianto. E provavo rancore, quasi rabbia nei confronti del mio ambiente, dei miei genitori, della mia scuola. […] Provavo rimpianto e vergogna, perché ho conosciuto questa storia solo nel 1989, quando avevo già trentun anni. A trentun anni non si è più un ragazzino, è più difficile giustificare la propria ignoranza, è più difficile reputarsi innocente. Mi sentivo in colpa.

E dunque l’arte di Bałka partecipa, o è forse addirittura l’apripista, a quello che Izabela Kowalczyk in un volume del 2007 ha definito “un nuovo fenomeno” nell’arte polacca. Il sempre presente interesse per la storia, scrive Kowalczyk, a partire dal volgere del millennio non si appunta più su concreti fatti storici, per incentrarsi invece sui modi in cui la storia “viene costruita, a che fini e come essa venga utilizzata, come si mescoli alla fiction e come funzioni nella nostra immaginazione”.

Mirosław Bałka, 250x700x455, ø 41×41 /Zoo/T, 2007-2008 ph. Attilio Maranzano

Le opere di Bałka presenti in Crossover/s che abbiano un riferimento immediato allo sterminio ebraico sono almeno quattro: i già menzionati video mapL, BlueGasEyes, Primitive e l’installazione in acciaio 250 x 700 x 455, ø 41 x 41/Zoo/T (2007-2008). Non sarebbe difficile però ricollegare (quasi) tutte le produzioni dell’artista polacco a tematiche relative all’ambito della riflessione sul post-sterminio ovvero, come suggerisce l’antropologa culturale Joanna Tokarska-Bakir, agli studi post-umanistici, o agli Environmental (o Landscape) Studies. Si tratta dello studio delle relazioni reciproche fra uomo e ambiente anche nelle sue manifestazioni più segrete, dei rapporti fra “ciò che è umano e il non-umano, organico e non-organico, vivo e morto”. Il nazismo, la Shoah (e altre stragi), così sostengono e dimostrano studiosi come Timothy Snyder o Tim Cole, hanno modificato profondamente e definitivamente non solo la nostra percezione del paesaggio e dell’esistente, ma anche la loro stessa struttura.

Mirosław Bałka nella casa di Zygmunt Bauman a Leeds, 2011
(Dal volume Bauman /Bałka, Varsavia 2011)

Cancellando la differenza ontologica fra umano e animale, fra umano e non umano, la “prospettiva biosemiotica” avvocata da questi studi consente di “portare alla luce ciò che era stato omesso: il fenomeno inesauribile della vita”, come ricordava Zygmunt Bauman in un dialogo con l’artista. La permanenza della natura (una natura “contaminata”, nella definizione di Martin Pollack), una natura che ingloba il male, che ne viene modificata, che ne è, letteralmente, inquinata e nutrita, indica, nelle opere di Bałka, una strada che non porta a superare il conflitto e a identificare vittime e carnefici su un astratto piano morale, ma che conduce a una visione diversa, “decentrata” dell’orrore. Se non ci è possibile operare il salto fra una percezione legata alla nostra limitata e individuale esistenza fisica e quella biologica, “paesaggistica”, “ambientalistica”, universale o multiversale, propugnata dalla nuova scienza, l’arte può, forse, offrirci uno spiraglio di conoscenza diversa, allargata. E ci suggerisce anche che, sebbene il male sia stato compiuto indiscutibilmente da alcuni e non da altri, esso è, in qualche misura, parte di un retaggio umano, di un processo all’interno del quale ci troviamo a vivere, ad abitare, a condividere. Nel 2018, in una mostra di Mirosław Bałka alla Galleria Dvir di Bruxelles, una delle installazioni consisteva in un dispositivo sonoro che ripeteva a ciclo continuo:

Eichmann
Dumann
Ichmann
Youchmann
Hechmann
Shechmann
Itchmann
Wechmann
Youchmann
Theychmann…

“Dopo la Shoah – ha detto Mirosław Bałka – non esistono più oggetti innocenti, non esistono più oggetti familiari”. Ma se esiste uno sforzo titanico nell’opera di questo artista così lontano da ogni magniloquenza esso sta proprio, forse, nel tentativo di riportare ove possibile oggetti e sensazioni, non già a una innocenza per sempre perduta ma nel mostrarne l’unicità e l’aura di sottile perturbamento che comunque li circonda, rendere loro un qualche tipo di carattere domestico e condiviso. Come in Common Ground (2013-2016), un’installazione composta, come 7 x 7 x 1010, dalle modeste rimanenze di oggetti appartenuti a singoli individui. Qui Bałka ha raccolto 178 zerbini usati (scambiandoli con degli zerbini nuovi!) fra gli abitanti di un quartiere di Cracovia. L’installazione multicolore va a formare una sorta di “figura nel tappeto”. A differenza però che nel racconto di Henry James, l’immagine è del tutto decifrabile: ci parla della possibilità di invito, così come invita lo zerbino sulla soglia delle nostre case, all’interno di uno spazio privato ma condivisibile. Un sogno ardito, e molto “europeo”: la possibilità di essere diversi in un terreno collettivo.

Si ringraziano sentitamente l’artista e lo Hangar Pirelli per il consenso alla riproduzione delle immagini

In copertina: Mirosław Bałka, Common Ground, 2013-2016, “Crossover/s”, Pirelli HangarBicocca, ph. Attilio Maranzano

Laura Quercioli Mincer

è professore associato di Letteratura polacca presso l’Università di Genova. È autrice di un centinaio di titoli e di tre monografie riguardanti anzitutto la cultura ebraico-polacca. Dal 2017 lavora a un progetto promosso dall’Istituto Italiano di Studi Germanici dal titolo “Intermedialità, storia, memoria e mito. Percorsi dell’arte contemporanea fra Germania e Polonia”.

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