È appena uscito nella collana “Il caffè dei filosofi” dell’editore Mimesis (pp. 99, € 8), con una prefazione di Antonella Anedda, Il tempo sospeso delle immagini di Attilio Scarpellini. La sua è una delle voci saggistiche più personali e suggestive della nostra letteratura (“voce” anche in senso letterale, da quando conduce quelle che sono fra le più seguite trasmissioni su Radio Tre): nel suo saper illuminare, a partire il più delle volte dalla sua passione predominante che è il teatro, i materiali più vari ed eterogenei della “scena” culturale contemporanea. Questo piccolo libro è un concept album sulla sospensione: del tempo, del movimento, del senso. Un’ossessione che Scarpellini si porta dietro almeno da L’angelo rovesciato (una delle riflessioni più originali e acute che mi sia capitato di leggere su quella “scena”, che tutti abbiamo in mente, dell’impiegato che si tuffa a capofitto – rovesciato, appunto – da una delle Twin Towers l’11 settembre 2001), e che qui passa – nel saggio più esteso – per il commento ravvicinato a un celebre, folgorante episodio delle Finzioni di Borges, Il miracolo segreto: che anche Michel Foucault una volta ha commentato, da par suo, per illustrare il tipico “effetto Borges” della riduzione dell’infinito a un istante, nel tempo e nello spazio; ma che, racconta Scarpellini, lo perseguita da quando lo lesse per la prima volta, adolescente, sulle pagine di una rivista popolare trovata per caso su una bancarella. L’ultimo scritto compreso nel volume è quello che si presenta qui – per la cortesia di autore ed editore – e che in parte era stato letto, in forma di conferenza, alla quarta serata di Four little packages di Claudio Morganti, il 30 settembre 2016 al Magnolfi di Prato, in occasione del festival “Contemporanea”. Come scrive Antonella Anedda presentando il libro, “a Scarpellini interessa indagare, insieme alla rappresentazione, il ruolo dello spettatore, capire chi siamo noi che guardiamo, riflettere su questo gesto, sui suoi effetti, le sue responsabilità”.
A.C.
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“Non è strano che lo spettatore non voglia che si mostri il suo volto, che gli si aprano le ferite, che lo si scuota nel corpo – per presentare se stesso nella sua reale, autentica condizione? Vuole essere toccato dal fato degli esseri superiori, vuole essere divertito da quelli inferiori, vuole l’oblio attraverso la sublimazione delle emozioni e la risata. Vuole sottoporsi al potere della Cultura, con la quale non coincide…” (Ludvik Flaszen)
“Non esiste in questo mondo nulla e nessuno il cui essere stesso non presupponga uno spettatore.” (Hannah Arendt, La vita della mente)
Nell’agosto del 1821, in un teatro di Baltimora va in scena una rappresentazione dell’Otello di Shakespeare. Un soldato monta la guardia all’ingresso della sala. Nel momento in cui Otello sta per strangolare Desdemona, il soldato esclama: “Non sia mai che in mia presenza un maledetto negro abbia ucciso una donna bianca”. E senza ulteriori esitazioni, imbracciato il suo fucile, spara e rompe il braccio all’attore che interpreta il Moro[1]. Quasi due secoli dopo un gruppo di terroristi islamici irrompe nella sala del Bataclan di Parigi dove si sta svolgendo un concerto e fa una strage. Una ragazza, sopravvissuta all’eccidio, dichiarerà alla televisione di non essersi inizialmente accorta di nulla perché credeva che il fumo e gli spari facessero parte dello spettacolo. Nel primo caso, uno spettatore incivile, che non ha stretto alcun patto con le leggi della rappresentazione, scambia l’azione drammatica per un’azione reale e, senza dubbio guidato dai suoi pregiudizi razziali, insorge per impedirla, con un involontario omaggio al teatro in quanto arte del fatto. Non troppo diversamente, se ci si pensa bene, si sono comportati i giovani fondamentalisti cattolici che, contro ogni consapevolezza del simbolico, o forse troppo offuscati da esso, invasero la scena di Sul concetto di volto nel figlio di Dio per impedire lo spettacolo che dal loro punto di vista era un atto di blasfemia. Lo spettatore casuale di Baltimora scambia, come dicono i francesi, la preda per l’ombra; Stendhal che di quell’episodio fa il centro del suo saggio su Racine e Shakespeare, dice che egli è caduto nella trappola dell’illusione perfetta, uno stato che si riscontra sempre più raramente a teatro, mentre, ad esempio, domina frequentemente i sogni. “Avere delle illusioni, essere dentro un’illusione, significa prendere una cosa per un’altra (se tromper), stando a quel che dice il Dizionario dell’Accademia. Un’illusione […] è l’effetto di una cosa o di un’idea che ci induce a sbagliare mediante un’apparenza ingannevole. Illusione significa dunque l’azione di un uomo che crede qualcosa che non è, come ad esempio nei sogni”. E tuttavia è lo stesso scrittore francese a constatare che di tanto in tanto anche lo spettatore più consapevole si sorprende a sognare, che in ogni rappresentazione ci sono momenti di illusione perfetta. E quanto a illusioni perfette, non è lontano il tempo in cui i fratelli Lumière lanceranno la locomotiva del cinema contro gli spettatori che scappano a gambe levate pensando che il treno di Le Ciotat stia per uscire dallo schermo e travolgerli. Quanto più uno strumento di riproduzione è nuovo, o evoluto in una scala che dalla finzione artigianale ascende alla simulazione tecnologica, tanto più lo spettatore sembra tornare verso la propria condizione originaria di essere suggestionabile e suggestionato. L’intera architettura che gli è stata creata attorno, d’altronde, si comporta come un grande dispositivo di sedazione degli sconfinamenti di un’immaginazione proterva: gli spettatori moderni sono tutti come gli uccelli che andavano a beccare l’uva dipinta da Zeusi, scambiandola per vera, ma il loro ardore non ha mai per oggetto la realtà a cui finiscono per credere solo quando è innervata dalla finzione – “questa volta è morto male!” sembra che abbia commentato uno spettatore parigino vedendo sulla scena Molière che, quella volta, stava per morire davvero… È dal punto di vista dello spettatore, e non dalla “prospettiva del principe”, che nel secondo atto della tragedia di Shakespeare, Amleto assiste alla mostruosa metamorfosi del corpo dell’attore attraverso una “semplice finzione”, che, dice, è appena “l’ombra di un dolore”, e anzi non è niente – “Per Ecuba! / Cos’è Ecuba per lui, e lui stesso per Ecuba? / E tuttavia la piange…”: la trappola del teatro, che dovrebbe imprigionare la coscienza del Re, agisce anzitutto su colui che pensa di averla ordita, perché dall’ombra della finzione incarnata, così fantasticamente verosimile – e gremita di sintomi: il pallore del viso, la voce rotta, le lacrime agli occhi, la follia del gesto – ricade nel freddo silenzio del suo corpo di spettatore, alle prese con un dolore che invece sarebbe realissimo, quello per la morte del padre. Alle prese, comunque, con un perturbante fantasma. Il peso dell’essere – commenta Georges Banu – è superiore a quello del personaggio[2]. C’è qui un “diniego”, una smentita, del teatro, dell’arte, della mimesis, in rapporto alla cieca immersione del soggetto in sé stesso (Amleto vede tutto fuori di sé, nella proiezione dell’attore, e niente dentro sé stesso, nell’ottusa inerzia di un Io frastornato, preso dal caos del proprio coinvolgimento – c’è un singolare contrappasso del niente della finzione, che può tutto, rispetto al tutto della vita, che non può nulla). Ma questa smentita è altresì una conferma dell’efficacia dialettica dell’interpretazione, poiché prima di essa non esiste alcuna coscienza del vuoto emotivo che lo spettatore porta dentro di sé, ed è proprio quel vuoto che, attraverso il teatro, risuona: dolente e chiusa in sé stessa, la vita immediata appare allo spettatore in difetto di rappresentazione. Come il comico dice al poeta nel “Prologo in teatro” del Faust di Goethe: “prendete a piene mani dalla vita / tutti la vivono, pochi la conoscono”. Il teatro è uno specchio obliquo in cui il non essere rivela l’essere, il sensibile l’ideale.
Al polo opposto del soldato di Baltimora, spettatore arcaico, pre-teatrale e in un certo senso pre-moderno, c’è la spettatrice post-teatrale del Bataclan che nello spettacolo ingloba anche il reale nella sua irruzione più imprevedibile e meno addomesticabile – questa spettatrice smaliziata, consapevole, emancipata, come direbbe Rancière, porta la disillusione a un tal grado di potenza che essa si rovescia in un’altra illusione: l’illusione anestetica che tutto sia segno, finzione, interpretazione, spettacolo. Anche in questo caso c’è un confine che salta, la scena e il mondo si confondono in un abbraccio letale per entrambi, perché se il mondo intero è uno spettacolo, non c’è più scena possibile. “Dappertutto – scriveva Jean Baudrillard nel 2005 – ciò che era separato è confuso, dappertutto è abolita la distanza: tra i sessi, tra i poli opposti, tra la scena e la sala, tra il soggetto e l’oggetto, tra il reale e il suo doppio […] Attraverso l’abolizione della distanza, del pathos della distanza, tutto diviene indecidibile […] Immersione dello spettatore nello spettacolo. Quando tutti diveniamo attori, non c’è più azione, non c’è più scena, è la morte dello spettatore in quanto tale. Fine dell’illusione estetica”[3].
Di questo spettacolo globale e generalizzato, gli spettacoli propriamente detti rischiano di diventare dei semplici ologrammi. Nel 1967, in un libro che si chiama La società dello spettacolo, dove il teatro non è citato neanche una volta, quasi si trattasse di una forma arcaica e desueta di spettacolarità – o di un paradigma ormai diluito nella realtà – Guy Debord scrive “Considerato secondo i suoi termini più propri, lo spettacolo è l’affermazione dell’apparenza e l’affermazione di ogni vita umana, cioè sociale, come semplice apparenza”. E ancora: “Lo spettacolo si presenta come un’enorme positività indiscutibile e inaccessibile. Non dice nulla di più di ‘ciò che appare è buono, ciò che è buono appare’. L’atteggiamento che esige per principio è questa accettazione passiva che in realtà ha già ottenuto grazie al suo modo di apparire senza replica, grazie al suo monopolio dell’apparenza”[4]. Il termine con cui il teorico francese designa la condizione dello spettatore contemporaneo, è un termine marxiano: alienazione; alienazione dello spettatore a vantaggio dell’oggetto contemplato, alienazione dell’interiorità del soggetto a vantaggio dell’esteriorità della sua oggettivazione – del divenire a sua volta oggetto, merce, immagine. Insomma, nel 1967 Debord dice: siamo tutti spettatori, relegati in una situazione di separatezza rispetto alla nostra stessa vita, perché o si vive o si contempla; nel 2005 Baudrillard, che è stato un suo lettore, sembra affermare il contrario: siamo tutti attori, lo spettatore in quanto tale e la sua illusione estetica sono finiti, travolti dall’interattività delle reti dove il produttore e il fruitore tendenzialmente si identificano. Ma è evidente che cambiando l’ordine dei fattori il prodotto non cambia, dire siamo tutti spettatori e dire siamo tutti attori è la stessa cosa, perché a non cambiare è la centralità e la pervasività dello spettacolo in quanto relazione sociale tra gli uomini. Lo spettacolare è semplicemente entrato nell’era della sua massima diffusione, la rappresentazione è stata soppiantata dalla simulazione more than reality, più vera del vero, e ogni spettatore è ormai un attore immanente su un’arena multimediale dove gli assenti hanno sempre torto ed “esserci” significa essere visti. Che ne è del teatro, allora, in questa volatilizzazione di tutte le tecniche dell’immagine trasformate in funzioni di un supporto portatile sul quale ogni giorno si postano o si caricano spezzoni della propria esistenza? Che ne è di uno spettatore locale nell’orizzonte dello spettacolo globale che lo avvolge e che esercita una continua pressione sul suo immaginario? È ancora vero quello che ha scritto il filosofo Alain Badiou, e cioè che mentre il cinema conta il suo pubblico, il teatro “conta su ciascuno dei suoi spettatori”[5]? Ludwik Flaszen in alcune note degli anni Ottanta aveva scritto: “Se Guy Debord ha ragione e tutto è spettacolo – la società, lo stato, l’intero globo in simultanea su un palco tv – che cos’è il teatro, l’antenato di ogni fatto spettacolare?”. Forse, si risponde Flaszen, il destino del teatro è di abbandonare la valanga spettacolare con cui la nostra epoca ci aggredisce. “Forse il suo destino è di un annunciare un intervallo. Forse il suo destino non è di essere arte dello spettacolo, bensì arte della sospensione dello spettacolo. L’arte dell’intervallo. L’intervallo di uno spettacolo universale”[6]. Il teatro: un’arte della sospensione e dell’intermittenza. Ma cosa significa interrompere lo spettacolo? Significa insinuare un’esperienza nel mondo che è ormai divenuto la negazione di ogni esperienza, pensare la scena come relazione con un tu che è la sua alterità costituiva, un tu non dialettico, e tanto meno proiettato, un tu vivente e fraterno che rende il più possibile letterale ciò che all’inizio era soltanto rappresentato.
Jerzy Grotowski, in un’intervista pubblicata sulla rivista Kultura nel 1972, ripresa e tradotta da Carla Pollastrelli nel terzo volume dell’opera completa del regista polacco[7]: “Credo che dovremmo domandarci piuttosto quale sia il bisogno umano, un semplice bisogno umano, un bisogno per così dire più ampio. E se ci poniamo la domanda in questi termini, persino la parola ‘teatro’ decade. Indispensabile non è il teatro ma qualcosa di completamente diverso. Superare le frontiere tra te e me: farmi avanti a incontrarti così da non perderci tra la folla – o tra le parole, o in dichiarazioni, o tra pensieri finemente definiti. In principio, se lavoriamo l’uno con l’altro – toccarti, sentire che mi tocchi, guardarti, liberarmi della paura e della vergogna che mi provocano i tuoi occhi quando sono accessibile a essi, tutto intero. Non nascondermi, essere quello che sono. Almeno per qualche minuto, dieci minuti, venti minuti, un’ora. Trovare un luogo dove essere in comunione diventi possibile. A dire il vero non è ancora un bisogno pienamente evidente, sta nascendo, è qualcosa che emerge. Non ha ancora dato frutti, non è cosciente e non ha forma, del resto non dovrebbe nemmeno assumere una forma fissata. Ma si sta approssimando, è ormai vicino, e in avvenire – così credo e sento – distruggerà ciò che finora abbiamo definito con il nome di teatro. Sarà piuttosto un incontro, non un confronto, ma – come dire? – un giorno santo che ci accomuna. Che comprenderà coloro che si conoscono l’un l’altro, ma poi, in qualche modo… e in misura sempre maggiore… gli sconosciuti, quelli che vengono da fuori ma hanno lo stesso bisogno, appartengono – per così dire – alla stessa specie. E si incontreranno all’interno di qualcosa che è stata preparata dagli uni per gli altri, gli sconosciuti, e quel giorno santo diventerà possibile, ripeto, non un confronto, ma un giorno santo. La si annullerà il teatro, si annullerà la vergogna e la paura, il bisogno di nascondersi, e anche di interpretare costantemente un ruolo che non siamo noi”.
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Chiedersi che ne è del teatro nella società dello spettacolo vuol dire chiedersi che ne è dello spettatore locale nell’era dello spettacolo come monopolio globale delle apparenze.
Quasi tutte le teorie dello spettatore, o i programmi di formazione dello spettatore, mettono lo spettatore in relazione con lo spettacolo – nessuna, invece, lo mette in relazione con quello che è il suo vero alter ego, l’attore.
Lo spettatore viene dalla luce del mondo e scivola progressivamente nel buio dell’isolamento dove una luce si accende solo per lui; questo scendere nella penombra, per poi essere scaricati sulle rive dell’Ade, è il momento preferito da Stendhal a teatro, il momento in cui, racconta nei suoi Diari, si sente sé stesso, o forse si ritrova, sottraendosi finalmente al gioco sociale degli sguardi che solitamente anticipa lo spettacolo. Stare a teatro è vedere il mondo che tramonta attorno a noi. Non visti, si può finalmente vedere. Gli occhi, come scrive Robert Bresson nelle sue note sul cinematografo, eiaculano.
Sentire sé stessi equivale finalmente a dimenticarsi, o, come scrive Georges Banu in un lucido appunto sullo spettatore, mettersi tra parentesi, inaugurare una epoché (l’esperienza di Cartesio nella stanza olandese dove nascono il Discorso sul metodo e il dualismo moderno non è forse quella di uno spettatore assoluto?): “N’aime etre spectateur que celui qui admet mettre sa vie entre parenthèses pour épouser le cours des spectacles qui passent et ne reviennent pas”[8]Mollare ogni identità in nome del piacere di un istante che, forse, neanche si presenterà all’appuntamento, poiché potrebbe non averci atteso, essersi presentato prima o dopo di noi, o non presentarsi affatto. È in questo senso che il teatro avviene, come dice Claudio Morganti, sia che noi lo facciamo sia che noi non lo facciamo[9]. “I ciliegi quest’anno non ti hanno aspettato” scrive un amico a Banu che si appresta a recarsi in Giappone per assistere a quell’annuale rinnovo della fioritura dei Sakura, l’effimero, e perciò il più bello, fiore di un ciliegio che non dà frutti. Lo spettatore, come l’attore, è tenuto amleticamente a “essere pronto”, ma se il secondo è pronto a esserci, a interporre la propria manifestazione sulla scena vuota dell’essere, il primo è pronto a sospendere la propria incredulità e a smarrirsi nella fioritura delle apparenze.
Lo spettatore Stendhal vive a teatro lo stesso piacere che attribuisce al suo eroe più tardo, il Fabrizio Del Dongo della Certosa di Parma (che non a caso è il romanzo degli occhi, come Il Rosso e il Nero è quello delle mani): imprigionato nella Torre, Fabrizio benedice la sua prigione perché gli permette di contemplare quotidianamente Clelia Conti. Questo tipo estatico di spettatore che nella notte del teatro taglia fuori il mondo, diviene raro nelle nostre sale dove la relazione che lega lo spettatore all’artista è sempre più basata sulla maggiore o minore vicinanza dei rispettivi immaginari. Per ogni discorso che cominciamo con noi stessi quando siamo a teatro, è pronto un metalinguaggio, o una narrazione istituita, che lo giustifica o lo scarta, ed è proprio la presenza di uno spettatore globale e immanente a rendere sempre più rare le esperienze singolari di contrappunto emotivo. Anche il più dimesso degli spettatori, oggi, ha nel suo piccolo dei problemi di consenso o, come suggerisce Flaszen, “vuole sottoporsi al potere della Cultura”.
Ma torniamo al problema principale dello spettatore locale: il suo corpo… Il buio e il silenzio sono il medium di un attraversamento dello sguardo che riduce la distanza tra lo spettatore e la scena, per quanto quest’ultima possa essere lontana e malgrado in questo movimento bi-univoco e irreale non sia possibile stabilire con precisione chi vada incontro a chi. L’unica cosa certa è che, da una parte e dall’altra, è il desiderio ad accorciare le distanze. Una famosa parete separa lo spettatore dal palcoscenico, e tutti si sono industriati ad abbatterla, ma è una parete d’acqua, un velo sottile, pieno di ferite, di varchi, di incrinature, di bruciature di sigaretta.
Il corpo dello spettatore è imprigionato da un’architettura che da più di cinque secoli privilegia lo sguardo, tutto il Rinascimento è stato, in questo senso, una gigantesca teoria dello spettatore che ha trattato il mondo come una scena e la scena come un quadro e, successivamente, uno schermo. Persino Antonin Artaud, mettendosi alla ricerca di un modello per il suo teatro della crudeltà, ha finito per scegliere un dipinto, sia pure di un artista “primitivo” come Luca di Leida. Se la condizione dello spettatore, dice Alfonso Maurizio Iacono, resta quella della Caverna di Platone immersa nel buio, il tema è quello della frontalità della visione di cui il quadro e l’inquadratura diverranno i dispositivi universali nell’estetica della visione occidentale. E di nuovo, quello della frattura che ogni frontalità comporta tra soggetto e ambiente: “Questo teatro – il teatro moderno, il teatro contemporaneo – quasi sempre costringe gli spettatori a guardare di fronte, ad avere un rapporto frontale con la scena e gli attori, con coloro che stanno davanti a voi, che parlano, fanno gesti, si muovono, rappresentano qualcosa stando dall’altra parte del sipario. Il tema è quello della frontalità, dello stare di fronte, del guardare di fronte. La frontalità ha alle spalle un’idea di conoscenza: quella segnata e determinata dal primato della visione. Vedere è un avere a distanza, un possedere senza toccare[10], e questo ci dà la strana sensazione di un’enorme potenza. Maurice Merleau-Ponty, avendo riflettuto sul tema della frontalità, a proposito di Paul Cézanne, e in contrasto con la filosofia di Cartesio, ebbe a dire: ‘dopo tutto il mondo è intorno a me, non di fronte a me’. Cosa significa esattamente che il mondo sta intorno a me? Significa che esso non ci sta solo davanti, ma ci circonda, e circondandoci, si fa ambiente. Noi abbiamo acquisito la tendenza a vedere le cose di fronte. Guardiamo lontano davanti a noi, in profondità, ma spesso non ci accorgiamo di quel che ci sta accanto, dietro, sotto, sopra, intorno”[11].
A cosa si ricollega l’enorme potenza del “possedere senza toccare” che è, per così dire, la pratica sublime di ogni spettatore (almeno prima che lo spettacolo contemporaneo non stabilisse di conquistare trasversalmente l’intero territorio dei sensi, sfruttando proprio il crollo centrale della frontalità dell’oggetto e rimettendo lo spettatore sensorialmente in contatto con l’intorno del mondo – anche a rischio di vanificarne la cornice con un investimento finzionale)? Al primato della visione, dice Iacono; a quello metafisico della trasparenza, gli fa eco François Jullien, a quell’esigenza, tipica dell’arte occidentale, di sottrarre l’essere alla condizione di opacità a cui lo sottopone l’esistenza. Una caduta della e nella vita, una lesione ontologica della presenza dell’essere, precedono e fondano la pratica artistica della ri-presentazione (ré-presentation). Prima di ogni spettatore e di ogni dispositivo spettacolare, prima del buio artificiale e sperimentale della Caverna, ci sono il brusco dis-adeguamento della presenza reale, la falla che destabilizza l’ordine del mondo, il delitto che infetta l’integrità della comunità sociale (e, dietro l’angolo, il capro espiatorio necessario alla sua “purificazione”). All’inizio di ogni teatro il tempo è sempre fuori di sesto. La crisi tragica è già lì, al pari di un dato o di uno stato di fatto, come la peste nell’Edipo Re o la guerra civile che si è già consumata nell’Antigone. Una ferita dell’essere o dell’ordine politico (something is rotten in the state of Denmark) – un sommovimento del cosmo come il cielo che si squarcia sulla scena della Passione di Cristo – presiede all’apertura di ogni scena che, più che rappresentarla, la rivela. Di questa rivelazione lo spettatore è la cartina di tornasole.
Lo spettatore, per lo più assieme ad altri spettatori, non forma una comunità di pubblico se non attraverso il riconoscimento di una trasformazione: c’è teatro, dunque, soltanto se gli spettatori che escono dalla sala non sono esattamente le stesse persone che erano entrate. Per questo il teatro, come scrive Claudio Morganti, comincia dopo lo spettacolo, con la sua fine[12]. Ma tra due silenzi, tra due bui, nel corpo dello spettatore formicola la sua promessa, si instaura lo spazio vuoto dell’attesa.
Di questa tensione contagiosa, di questa attesa vigile e vuota, forse nessuno ha scritto meglio dell’americano Thomas Wolfe in un racconto dal titolo shakespiriano, L’inverno del nostro scontento[13]: qui, quella che Elio Pagliarani avrebbe definito più tardi la “socialità dell’arte”, che soltanto nel teatro celebra la propria festa (in una distanza abolita che vede il fiato dell’attore accordarsi sul ritmo cardiaco di quello dello spettatore)[14] si rivela in un’inedita apparizione degli spettatori come comunità vivente di volti che si sporge dalla penombra, producendo il suono di un “grande chinarsi in avanti”. Si può anche misurare la differenza di prossemica tra le scene del nuovo teatro degli anni sessanta evocate dal poeta italiano e quelle, lontane e ancora popolate dal repertorio della tradizione, richiamate dallo scrittore americano che avrebbe voluto farsi drammaturgo. Ma per Wolfe come per Pagliarani, il metronomo della trasformazione teatrale è dato dal divenire sensibile del fiato, del respiro: “Poi, in pochi minuti, le luci si abbassarono. Ci fu un vasto, frusciante respiro per tutto il teatro, il suono di un grande chinarsi in avanti, e poi, per un momento, in quella luce fioca vidi la cosa che mi è sempre sembrata così piena di magia e di bellezza: un migliaio di persone che sono diventate improvvisamente un’unica creatura vivente, e tutti i fragili puntini bianchi delle facce che sbocciano come petali lì, nell’oscurità di velluto, sollevate, assettate, silenti, e intente, e bellissime. Poi si alzò il sipario, e su un palco enorme e torreggiante stava la figura deforme e solitaria. Per un momento seppi che l’uomo era Brandell; per un momento non riuscii a provare nient’altro che una sbalordita sorpresa, un senso di irrealtà, nel pensare al miracolo di trasformazione che era stato creato nello spazio di pochi minuti nel sapere che questa crudele e sinistra creatura era l’uomo con cui avevo appena parlato”.
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Seduti sul pavimento con le gambe incrociate, alla fine è stata l’unica condizione possibile per guardare, dal basso in alto, la Resurrezione di Piero della Francesca messa sotto restauro nel rarefatto museo civico di Borgo Sansepolcro. Seduti all’ombra di quegli alberi dal tronco grigio, come attorno a un fuoco o in un picnic – un sacro-profano déjèuner sur l’herbe –, abbiamo finito per staccare lo sguardo dalla scena incastonata tra le colonne per rivolgerlo uno all’altro e cominciare un racconto ondeggiante che dalla parola “sepolcro” ci ha condotto a discutere di Gerusalemme, la minuscola e martoriata città di Dio, della ristrettezza dei suoi spazi e dei suoi corpi, costretti a sfiorarsi malgrado non lo vogliano e ostentatamente si ignorino. “Ho visto la Geenna trenta anni fa ed era solo una discarica di lapidi spezzate e di pietre arse dal sole…”. Noi con le spalle all’evento – l’affresco di Piero – dove a loro volta i soldatiaddormentati, sfiniti dalla veglia, appoggiano le spalle al marmo freddo del sepolcro che è una specie di ribalta su cui il Dio uomo posa orgogliosamente il piede. L’essenziale ci sfugge, a noi e a loro (dicono che il soldato bruno, l’unico frontale, come Cristo stesso, ma con gli occhi socchiusi, mentre il Figlio dell’uomo li spalanca – sono così aperti dal sembrare allucinati – sia Piero in persona, lo stesso personaggio che appare inginocchiato sotto il fantastico manto della Vergine nel vicino Polittico della Misericordia). Il mistero non può essere fissato negli occhi e tuttavia, con un rovesciamento di prospettiva, guarda dritto, spietatamente, nei nostri – dove smettiamo di vedere, veniamo visti – e oltre di essi, nell’orizzonte appena dischiuso del futuro del mondo – in cui non siamo già più. Il corpo glorioso insorge. La nostra amica attrice e cantante ci racconta di come Romeo Castellucci in un suo spettacolo abbia visto questa figura possente emergere dal groviglio di lamiere di un incidente stradale. Osservando il sangue, rappreso ma ancora vivo sul costato di Gesù, cerco di ricordare la nozione ebraica di tikkùn, che tanto mi sorprese in un libro di Gershom Scholem sulla qabbalah ebraica: una redenzione – provo a spiegare –che conserva i segni e le ferite della sofferenza passata, una ricomposizione dell’infranto che non ne cancella le crepe, ma figurativamente le mantiene. Al momento buono, dunque, gli spettatori sono crollati nel sonno, come i discepoli nell’episodio evangelico sulla debolezza della carne, ma anche, come se l’evento, avesse bisogno di un vuoto dell’attenzione e del pensiero per manifestarsi. D’altro canto, ripensando all’affresco di Piero, chi dice che non sia proprio dal loro “dormire e forse anche sognare” che il miracolo sta insorgendo?
Fin dai Greci, la scena è stata più volte ricondotta al sogno e al suo carattere illusorio. Joseph Addison in un saggio pubblicato su The spectator nel 1712 osserva che l’anima umana, quando si sbarazza del corpo e sogna è al tempo stesso teatro, attori e pubblico. Addison richiama le teorie esposte dal medico inglese Thomas Browne nella sua Religio Medici: “Durante un sogno sono riuscito a comporre tutta una commedia; a sostenere l’azione, a imparare i gesti e a svegliarmi ridendo delle mie stesse invenzioni”[15]. Georges Didi-Huberman sostiene che la scena di teatro è sospesa tra sogno e mondo e che il suo comporsi non va letto come un racconto, e tantomeno come un dipinto, ma secondo la grammatica con cui Freud leggeva i sogni, cioè come un rebus: “tra sogno e mondo, la scena diverrebbe quel rebus per eccellenza in cui ogni solitudine di immagine esiste come compagna di un’altra e di tutto ciò che immaginenon è. I sotterranei del sogno costruiscono le nostre città; i mondi paralleli descrivono la struttura del mondo stesso, che non è unico […] Gli incubi non sono brutti sogni, ma le belle descrizioni di uno stato del mondo che ci ossessiona e che, malauguratamente, finisce sempre per riacciuffarci”[16].
Il corpo dello spettatore è in bilico tra due posture, una è quella rilassata che si lascia andare alla conformità della poltrona, con le spalle appoggiate allo schienale, le mani in grembo, l’altra vigile, sporgente, proiettata, con la schiena curva e la testa protesa in avanti: arretrando troppo nella prima, può incontrare il sonno (ovvero la totale identificazione con sé stessi) in cui lo spettacolo è un’intermittenza, una luce che qualcuno ha lasciato accesa. Tendendosi nella seconda rischia l’intromissione, la violazione del confine, il contagio, l’insurrezione del corpo. A teatro, diceva Marina Cvetaeva, un insensato aaah oooh può condurre intere folle all’assalto.
Il corpo dello spettatore può assottigliarsi fino al punto di aprire uno spazio, una zona di pericolo analoga, in cui la scena comincia ad accadere dentro di lui, esattamente come accade nei sogni dove un’energia psichica che l’io non controlla alimenta anche le azioni che gli sono più contrarie, e apparentemente più estranee – poiché in sogno io sono tutto quello che vedo, e tutto quello che sono e oscuramente so – alimenta ogni epifania del visibile, tranne a non credere che i sogni vengano da fuori, da un altrove che si identifica con le forze cosmiche di cui siamo lo zimbello, o con Dio stesso (cosa che personalmente sono ben disposto a credere, ma che non è l’opinione corrente). Didi-Huberman dice che i sogni, con i loro rebus di immagini, ci lasciano soli; Marìa Zambrano sostiene che essi rappresentano nel contempo la nostra vita più spontanea e la nostra vita più estranea, puro fenomeno al quale assistiamo e sul quale non possiamo intervenire, perché, più che il tempo, ci è stata sottratta la disponibilità del suo uso. E questo spiega perché la comunità degli spettatori, slegata e isolata nella visione dello spettacolo, tenda a riunirsi nell’applauso sull’orlo di quell’ultimo buio in cui la scena svanisce, salutandone la sparizione con una manifestazione di liberatorio sollievo, ricacciando fuori ciò che era entrato dentro. Grati agli attori per aver attraversato, al nostro posto, quella zona di pericolo nella quale, da svegli, non oseremmo mai avventurarci da soli.

Immagine di copertina: Honoré Daumier, A teatro, 1861 (particolare)
[1] Così l’episodio viene raccontato da Stendhal: v. Stendhal, Racine e Shakespeare e altri scritti sull’illusione, a cura di Luca Mori, Ets, Pisa, 2012, p. 49
[2] Georges Banu, Amour et désamour du théâtre, Actes Sud, Arles 2013, p. 102
[3] Jean Baudrillard, Il patto di lucidità e l’intelligenza del male, Raffaello Cortina, Milano 2008.
[4] Guy Debord, La Société du Spectacle, Gallimard, Paris 1992, tesi 10 e 12, pp. 6- 7. La traduzione è mia.
[5] Alain Badiou, Rapsodia per il teatro. Arte politica evento, a cura di Francesco Ceraolo, Pellegrini, Cosenza 2015. Per l’inventore dell’“inestetica”, il cinema è fin dalle sue origini condizionato dalla sua natura industriale e privatistica di arte di massa e da un incontro fondamentalmente “fantasmatico” con l’idea, laddove il teatro si propone da sempre come “esperienza d’incontro con l’idea che è esplicita, pressoché fisica…”. Fatte le debite distinzioni, non siamo poi così lontani da quella differenza poetica tra cinema e teatro che Antonin Artaud sottolinea in uno degli appunti del Teatro e il suo doppio, esaltando l’immagine di quello che non è del teatro e della poesia in antitesi alla “visualizzazione grossolana” di quel che è proposta dal cinema.
[6] Ludwik Flaszen, “Il Teatro. L’arte dell’intervallo” in Grotowski & Company. Sorgenti e variazioni, edizioni di pagina, Bari 2013, pp. 219-222
[7] Con il titolo “Questo giorno santo diventerà possibile” in Jerzy Grotowski, Testi 1954-1998, Volume III, Oltre il teatro (1970-1984), La Casa Usher, Firenze-Lucca 2016, p. 76
[8] Georges Banu, op. cit., p. 42.
[9] In Claudio Morganti, La grazia non pensa. Discorsi intorno al teatro, a cura di Armando Petrini, Cue Press, Bologna 2018, p. 125.
[10] Il corsivo è mio.
[11] Alfonso Maurizio Jacono, Attraverso la finestra. La Caverna e Il Teatro, in Tempo. Dieci variazioni su tema, a cura di Attilio Scarpellini, Ets, Pisa, 2018, p. 40.
[12] Ne Il serissimo metodo Morg’hantieff per attori, teatranti e spettatori (Edizioni dell’Asino, Roma 2011), Morganti traccia una “Tabella delle macroscopiche differenze che intercorrono tra spettacolo e teatro” (p.6), dove, nella sezione spettacolo si legge: “Finisce quando si esce dalla sala” e in quella teatro: “Comincia quando si esce dalla sala”. Questo “cominciare” è dettato dalla riapertura nelle mente dello spettatore delle immagini chiuse nei confini temporali dello spettacolo – ed è in questo senso che il teatro, si legge ancora nella Tabella, “trattiene” mentre lo spettacolo “intrattiene”.
[13] Thomas Wolfe, Un’oscura vitalità, a cura di Sabrina Campolongo, paginauno, Vedano al Lambro 2018.
[14] Elio Pagliarani, Il fiato dello spettatore e altri scritti sul teatro, a cura di Marianna Marrucci, L’orma, Roma 2017, p. 10.
[15] Joseph Addison, Sui sogni, in Jorge Luis Borges, Libro di sogni, Mondadori, Milano 1989, pp. 211-215.
[16] Georges Didi-Huberman, La conoscenza accidentale. Apparizione e sparizione delle immagini, traduzione di Chiara Tartarini, Bollati-Boringhieri, Torino 2011, p. 36.