Cari lettori,
il mio prossimo libro di racconti è dedicato a un’arte clinica ancora poco nota: la sovietica “Musica delle ossa” – discreta definizione, per inciso, della scrittura poetica. Neanche a farlo apposta, proprio di questo parla la cartolina inviata.
“Passeggiando per un mercato a San Pietroburgo vidi uno strano disco con sopra un bacino. Non capivo se fosse una radiografia o un’incisione musicale. In effetti era entrambe le cose: un disco realizzato su una radiografia”. Chi parla è Stephen Coates, autore del progetto X-Ray Audio con il fotografo Paul Heartfield, e curatore, nel 2017, della mostra Bone Music. Per afferrare il discorso occorre sapere che l’Urss della Guerra Fredda, ossia tra il 1947 e il 1964, vietò rock e jazz.
La soluzione arrivò dall’Ungheria, dove la censura era meno rigida e Ruslan Bogoslowskij, insieme a Boris Taigin, iniziò a usare macchine che, costruite per copiare registrazioni militari su lastre radiografiche, erano facilmente reperibili negli ospedali. Queste registrazioni musicali a 78 giri consistevano di lastre ritagliate, bucate al centro e incise su un solo lato. Malgrado la loro pessima qualità, simili supporti risultavano riproducibili da qualsiasi giradischi.
Nacque così la “musica delle ossa”, in russo roentghenizdat, microsolchi sottilissimi, dall’aspetto funerario, che si consumavano nel giro di pochi mesi: scatole craniche, gabbie toraciche, femori o fratture trasfigurate in puri mondi sonori.