Carissimi,
ecco una fotografia scattata a Martha’s Vineyard nel 1897. Non ci sono mai stata. Sarei dovuta andare pochi giorni fa a casa di amici che mi avevano invitata su quest’isola del New England, non lontana da Providence dove mi trovo quest’estate. È da lì che, pensavo, vi avrei inviato una cartolina.
La ragione per cui non sono andata è molto meno interessante di quella che mi spingeva ad andarci. Oltre che per le sue frequentazioni presidenziali, Martha’s Vineyard è conosciuta per essere stata l’isola dei sordi: nel diciannovesimo secolo la sua popolazione aveva infatti la più alta concentrazione di persone sorde di tutti gli Stati Uniti. Una cospicua minoranza dei suoi abitanti era colpita da una misteriosa sordità che la moderna genetica avrebbe poi rivelato essere ereditaria, trasmessa di generazione in generazione e favorita da unioni tra consanguinei. In ogni famiglia vi era almeno una persona sorda. E l’intera popolazione di Martha’s Vineyard, sorda o no, comunicava attraverso ciò che i linguisti riconoscono come un peculiare idioma dei segni (MVSL, Martha’s Vineyard Sign Language), sorta di versione dialettale della lingua dei segni nazionale (ASL, American Sign Language).
Il fantasma della sordità totale accarezza i miei pensieri: come deve essere, mi chiedo, non sentire pronunciare affatto le parole dell’altro e nemmeno le proprie?
La vecchia questione filosofica del fonologocentrismo sembra qui mostrarsi in una luce inedita. Molti di noi ricordano ciò che Derrida dice a proposito del fantasma di una voce che intrattiene un legame privilegiato con il senso: la particolare trasparenza del significante fonico sarebbe ciò che permette alla voce di cancellarsi nel momento stesso in cui trasporta il senso alla coscienza. L’esperienza del sentirsi-parlare è allora immaginata come un’auto-affezione pura che permette di restare presso di sé; sentire la propria o l’altrui voce diventa ciò che costituisce la nostra ipseità, il nostro poter essere soggetti: ascoltare il senso che la voce pronuncia.
Seguendo questa logica, la disabilità dei sordi consisterebbe allora nel fatto che essi non sono capaci di una pura esperienza di trasporto del senso: quando parlano la lingua dei segni, infatti, ricorrono a gesti, marche che non si cancellano, significanti esterni, spaziali che sembrano interrompere l’immediata presenza a sé della coscienza. I segni farebbero uscire il soggetto da se stesso in un’esteriorità mondana dove il senso rischia fatalmente di corrompersi.
L’esperienza di Martha’s Vineyard nel diciannovesimo secolo non soltanto contesta questa logica, ma sembra persino decostruire la nozione stessa di disabilità: la lingua dei segni è parlata da tutti, l’isola adotta il bilinguismo e i sordi diventano Sordi. Martha’s Vineyard resta infatti un modello di ciò che negli ultimi anni viene chiamata la cultura Sorda, caratterizzata dal fatto di riconoscere e assumere la propria condizione di sordità senza viverla come una disabilità, in opposizione alla nozione di sordità vissuta invece come handicap. Laddove i Sordi infatti parlano la lingua dei segni, i sordi, affidandosi al paradigma medico-scientifico, cercano di raddrizzare e correggere ortofonicamente il loro deficit per poter parlare come un “normale udente”. La comunità Sorda di Martha’s Vineyard è una testimonianza tanto più preziosa in quanto, più tardi nello stesso secolo, la storia della comunicazione tra non udenti sarà marcata dalla vittoria dell’oralismo sulla lingua gestuale: nel 1880 il famoso Congresso di Milano sull’educazione dei sordi decretò infatti la superiorità della lingua orale su quella dei segni, che venne bandita dalle scuole. Il modello di espressione fonologocentrica vinceva e cominciava la lotta per l’emancipazione dei Sordi dalla discriminazione audistica.
Qualche mese fa ho improvvisamente perso una parte dell’udito nell’orecchio destro. Hearing Loss, “perdita di udito”, è diventato un sintagma ricorrente nel mio quotidiano, il nome che intitola il mio dossier clinico e accompagna il mio iter medico. È il termine cui spesso io stessa ricorro per definire la mia nuova esperienza percettiva: anche volgendo l’orecchio “abile” in direzione della voce, sento decisamente meno di prima, chiedo sovente agli interlocutori di ripetere quello che dicono, e poi talvolta lo richiedo ancora, e se anche allora non capisco, non chiedo più, sorrido e immagino. Le cose si complicano ulteriormente quando la stessa scena avviene in inglese, lingua che, non essendo la mia, riesco poco a immaginare. Spesso spazientisco gli interlocutori — questo sì, lo sento —, non scevra da un sottile senso di colpa per tanta mia insistenza. Eppure, non posso impedirmi di pensare che se vivo la mia nuova percezione uditiva in termini negativi di mancanza, diminuzione o menomazione è perché la giudico dal punto di vista (sic) dell’udente che io stessa sono sempre stata e malgrado tutto ancora sono. Ovvero giudicando l’interlocutore in base alla sua capacità — abilità — di funzionare in un sistema esclusivamente audiofonico. È privilegiando io stessa il pregiudizio “audistico” che misuro la perdita del mio udito. Hearing Loss è allora il nome del bullismo audiologico che mi auto-infliggo, dell’oppressione che l’udente che sono esercita sul non udente che ho cominciato a essere.
Interessandomi sempre più ai Deaf Studies, ho scoperto recentemente il lavoro di un artista e performer britannico, Aaron Williamson, noto per aver coniato, alla fine degli anni Novanta, il termine Deaf-gain, che da allora ha ispirato molti teorici della diversità. Williamson racconta stupito di come, diventato sordo in giovane età, tra tutti i medici che gli parlavano della sua perdita di udito, non ve ne fosse nessuno che gli dicesse che stava invece guadagnando la sua sordità.
Carissimi, era questo che avrei scritto da Martha’s Vineyard con una cartolina. O forse più d’una.
L.