Ci sono due grandi posture davanti alla pagina scritta. Esiste lo scrittore-lettore che penetra all’interno del labirinto del linguaggio, seguendone ogni diramazione. Di ogni vicolo (fosse pure un vicolo cieco) individua un dettaglio che permetta di riconoscerlo e dargli un nome. Attraverso la lettura coglie ogni elemento del paesaggio e, poi, per mezzo di nuove parole disegna la sua cartina. In fondo, la sua è una cartografia. Come un cartografo disegna atlanti, mappe per orientarsi, per vedere quel che non si vede. Crea immagini di mondo. La sua scrittura mostra la vita dall’alto di uno sguardo assente. Ogni frase ne chiama un’altra, grazie all’infinita capacità riproduttiva della scrittura; da una pagina all’altra, da un libro all’altro, senza soluzione di continuità.
Esiste poi un’altra postura. La si può, talvolta, incontrare in un caffè o sulla panchina di un parco, persino in una biblioteca. Gli occhi concentrati sulle parole che scorrono attraverso le pagine. Quasi perso, questo lettore, prende spesso appunti, totalmente isolato dagli altri. La mimica del suo volto assume mille espressioni: stupore, piacere, dolore, melanconia. Ma, ad un certo punto, lo sguardo si alza dalla pagina, il libro si chiude, la frase non ha più corso e nei suoi occhi appare il mondo, il mondo si dà a vedere, si presenta. E lì che, per lui, si trova il compimento della frase infinita. Dalla pagina al mondo, dalla linea alla visione, questo è il suo cammino.
Immagine: Gisèle Freund, Virginia Woolf’s working table, Sussex, 1965.