Napoli d’estate è uno scivolo spaziotemporale. Scendi dal treno e sei in un luogo perduto che il tuo corpo conosce e ne prova spavento ed euforia. In effetti, non ti scrivo da una vera e propria città, è come ti scrivessi da un’inquietudine planetaria, da un vortice azzurro di vento quasi doloroso e così generoso da irridere il proprio stesso dolore.
Qui ognuno si comporta e veste il proprio corpo secondo leggi sconosciute ai più. Qui i corpi esistono ancora e proclamano la propria libertà senza confini. Qui si può anche morire, tanto si è immortali.
Qui è tutto abbondante: gli ori, il sangue, il luccichio del mare, l’onnipresente cavità della morte, i cornetti, i cuscini, l’immenso scavo sotto la città, la città rovesciata che sposta i suoi fantasmi sotto la città solare. E pure il numero di ragazzini (quelli vivi, quelli di superficie). E pure l’inventiva degli stessi: essi cavalcano motorini capaci di concepire strade che non esistono sulla terra. I motorini, a Napoli, prendono vita per immaginare: scorciatoie, alternative sinusoidali, salti, squittii, tagli obliqui, che costringono i corpi a sfrecciare paralleli all’asfalto.
Ah, ti ho voluto bene.