Il titolo della rubrica che Antinomie ha predisposto per questo periodo (chiedendo ai suoi collaboratori di mandarci delle più o meno effettive “cartoline” dai loro “altrove” estivi) è rubato – e ci pare più che giusto, con un pensiero a Lacan e soprattutto a Poe – a Jacques Derrida: cioè al libro del 1980 (in italiano tradotto integralmente, da Mimesis, solo nel 2015) che reca appunto il titolo La carte postale. Come altri testi del suo autore, è questo un libro uno e bino: che a una sorta di storia della filosofia occidentale in forma di «satira di letteratura epistolare» (i cui frammenti sono datati fra il ’77 e il ’79) fa seguire parerga e paralipomena che ragionano sull’atto stesso di «indirizzare», e l’«effetto di posta» che ne consegue (cioè su quella che, giocando col lessico di Freud, Derrida chiama un’«economia bindinale»: ossia fondata sul legame, bind, fra chi indirizza e colui a cui si indirizza).
Risponde a un caso eloquente che esattamente nello stesso torno di tempo altri due scrittori stessero lavorando su questa “forma semplice”, su questo iconotesto di massa che è la “cartolina”: nel 1978 usciva da Feltrinelli Postkarten, raccolta poetica di svolta di Edoardo Sanguineti (al quale, sulla soglia dell’esecrato postmoderno, premeva soprattutto mettere a fuoco il senso, per lui mortifero, di quell’ominoso prefisso «post»); mentre lo stesso anno Georges Perec pubblicava sulla rivista «Le Fou parle» Duecentroquarantatré cartoline illustrate a colori autentici (testo dopo la sua morte raccolto, nell’89, in L’infra-ordinaire; Bollati Boringhieri 1994), che lavorava invece su quell’altro «effetto di posta» che è lo stereotipo dello “scrivere da” (un po’ l’equivalente letterario dell’afflizione topica dell’amico che ti infligge le diapositive delle sue vacanze; la “cartolina” riassume in sé, ai due lati della sua materialità, tanto la persecuzione scritta che quella visiva).
Sincronicità eloquente, si diceva: perché non si capisce bene quanto Derrida Perec e Sanguineti ne fossero consapevoli, ma si era allora al tramonto di quella che potremmo chiamare la “civiltà postale” – almeno per come hanno fatto in tempo a conoscerla le persone della nostra generazione. Oggi, un paio di rivoluzioni tecnologiche dopo, siamo forse giunti al tramonto pure di quell’appendice, di quella venticinquesima ora rappresentata sino a poco tempo fa dalla civiltà della posta elettronica – sostituita da quel flusso di “amicizie” immateriali, e perfettamente spersonalizzate, che sui social network hanno a loro volta preso il posto dei rapporti «bindinali» fra persone fisiche: conosciute cioè nell’hors-texte.
Sicché è oggi che si realizza compiutamente quello che Franz Kafka scriveva a Milena Jesenská. “Indirizzarsi” per iscritto comporta, su qualsiasi medium si svolga, «un contatto con fantasmi, e non solo col fantasma del destinatario, ma anche col proprio che si sviluppa tra le mani nella lettera che stiamo scrivendo. […] Scrivere lettere significa denudarsi davanti ai fantasmi che ciò attendono avidamente. Baci scritti non arrivano a destinazione ma vengono bevuti dai fantasmi lungo il tragitto. Con così abbondante alimento questi si moltiplicano in modo inaudito. L’umanità lo sente e li combatte; per cercar di eliminare l’azione dei fantasmi tra uomo e uomo e per raggiungere il contatto naturale, la pace delle anime, essa ha inventato la ferrovia, l’automobile, l’aeroplano, ma ciò non serve più, sono evidentemente invenzioni fatte già durante il crollo; la parte avversaria è molto più calma e più forte, anche se l’umanità dopo la posta ha inventato il telegrafo, il telefono, il telegrafo senza fili. Gli spiriti non moriranno di fame, ma noi periremo».
In copertina: cartolina indirizzata a Guillaume Apollinaire, autografa, firmata “Auguste” e datata Liège, 31 ottobre 1899.