Una scritta nei titoli di testa definisce La Jetée (1963) “un photo-roman de Chris Marker”. Un’opera quindi composta da fotogrammi, che però non ha un andamento immoto, perché le parole dell’io narrante fuori campo dinamizzano le immagini e spingono il racconto su almeno due (o più) binari. Il linguaggio verbale e quello della fotografia intessono una narrazione altra rispetto alla forma di κινεμα (“immagine in movimento”).
Si tratta di un fotoromanzo fantascientifico, che si muove sia in una dimensione atemporale sia su tre livelli temporali diversi: nel passato, prima del bombardamento di Parigi nel corso della Terza Guerra Mondiale, nel presente, dove i superstiti sono costretti a vivere sottoterra, sia i vincitori del conflitto sia i prigionieri, nel futuro, in cui il protagonista viene spedito dagli scienziati. Gli ultimi superstiti sopravvivono nelle gallerie circolari sotto il Palais de Chaillot, come fossero topi di laboratorio in un labirinto del tempo deformato. I vincitori della guerra indossano strane lenti oculari, e conducono una serie di esperimenti sui sopravvissuti, tra cui il protagonista della narrazione, che pare avere circa trent’anni. Gli scienziati sperimentano viaggi nel tempo sperando di andare a vivere in un luogo abitabile, visto che il presente è un mondo che è stato devastato dalle esplosioni nucleari. Il protagonista è stato scelto dagli sperimentatori per andare a perlustrare la Parigi prebellica, attraverso la forza straordinaria di un suo ricordo, che ritorna continuamente sulla piattaforma dell’aeroporto di Orly. I viaggi avvengono mentre l’uomo è steso su un’amaca di un corridoio sotterraneo e indossa una maschera chirurgica (una macchina che permette di viaggiare nel tempo della memoria) sugli occhi.

La voce narrante travalica ogni declinazione del tempo e sovverte anche i limiti dello spazio. Una modalità che sembra andare oltre il senso comune e la logica, spostando, frase dopo frase e fotografia dopo fotografia, un racconto che è contenuto a sua volta in un andamento circolare. L’epilogo della storia coinciderà con l’inizio della narrazione per immagini. Il finale svela che il bambino vede morire se stesso da adulto, all’aeroporto di Orly. E si comprende come mai nell’opera di Chris Marker il bambino sia più colpito dal volto della donna che ha assistito alla sua morte piuttosto che rivolgere l’attenzione alla sua dipartita. Il momento della morte è vissuto al contempo da una visione che proviene dal passato (il bambino vede la fine della sua vita che avverrà all’aeroporto di Orly) e dal tempo in cui gli scienziati mettono in azione un viaggio nel tempo partendo da un’immagine che si è fissata nella memoria del protagonista.
La jetée è la piattaforma di osservazione, da cui parte e arriva la visione indotta. È il punto in cui si riattiva continuamente un ciclo infinito, forse quello dell’illusione di tutti i mortali che si proiettano verso altre vite. Cosa si riprende dall’inizio? Tutta la sequenza del fotoromanzo è stata progettata per dare senso all’unico fotogramma che mostra la morte di chi narra la storia? La morte accade in un passato che è futuro e presente allo stesso tempo. Accade qualcosa di simile a quella coincidenza di due direzioni contrapposte, presenti nel Faust di Goethe. In La Jetée il narratore è indotto dai suoi carcerieri a viaggiare nel tempo, fino al finale beffardo. Ma cosa accade dopo il colpo di scena? Cosa si innesca oltre l’attimo in cui distopia e utopia divengono una cosa sola? Forse possiamo considerare tutte le immagini del fotoromanzo come photo trouvée presenti nella mente del protagonista. La voce narrante trova le foto della sua vita in un non-luogo, là dove un tempo c’era ancora Parigi, prima della distruzione causata dalla Terza Guerra Mondiale, o nella sua mente.

La sequenza delle photo trouvée costituisce il tentativo di far esistere nuovamente la vita personale di un individuo, nonostante la verità sia costituita da morte e sopraffazione, prigionia e dolore, causata dai carcerieri del potere e dagli scienziati senza scrupoli. Il protagonista esiste e resiste al contempo nella riattivazione di un suo sogno. Il suo è un estremo tentativo di mantenere vivo un volto amato, che diviene simbolo dell’amore stesso, di qualcosa in grado di spingere qualcuno ad andare oltre ogni evento terribile. La memoria qui diventa inno alla resistenza. E non importa se questa resistenza si risolve nella creazione di una realtà altra. Ma in che cosa si risolve questa ulteriore realtà? In una dissipazione del tempo e dello spazio?
Perché tutto deve richiudersi in un ciclo di immagini immobili, congelate come attimi cristallizzati nelle fotografie? Il regista inserisce nella sequenza di pose fisse solo un breve frammento filmico che dura tre secondi, un sorriso esitante della giovane donna amata dal protagonista (forse frammento di un suo sogno quando era bambino), come se la sintassi fotografica venisse contaminata da un virus. Quel cortocircuito muove qualcos’altro stando dentro una sequenza di fotografie che lo precede e che lo lasciano alle spalle.

Qualcuno interpreta ogni fotografia come ripresa di un attimo privilegiato, attimo che dopo lo scatto e la stampa è un istante di vita-senza vita. Perché l’autore sceglie la forma del fotoromanzo? La forma è derivata dal contenuto della storia narrata, o è il contenuto a determinare la forma? Come mai la storia è costruita da una sequenza di immagini fisse, che negano il movimento fin dalla base della loro esistenza? In cosa consiste questo dispositivo o meccanismo della memoria? Il movimento viene lasciato all’immaginazione degli spettatori. Qui forse Chris Marker intuisce un aspetto interessante: per mezzo di un movimento che è solo ipotetico, artefatto, meccanico, il cinema illude lo spettatore, ed è forse per questo motivo che in questo racconto viene negato il movimento illusorio e viene sostituito dal montaggio di immagini fisse. Il protagonista sottoposto alla sperimentazione e al viaggio con la macchina del tempo mentale si aggrappa al suo passato, in particolare e in maniera ossessiva a una sola immagine. Lo fa per resistere alla tortura che gli stanno infliggendo i suoi carcerieri? Si spinge nel passato per sovvertire i possibili nuovi percorsi causati dal tempo, per spingersi solo nella dimensione del sogno irrealizzabile? O c’è dell’altro?

Il genere Fantascienza viene utilizzato da Marker per muoversi nell’insondabile, nei recessi dell’interiorità, per andare anche oltre ogni concezione di spazio e tempo, per vivere nelle emozioni rimaste impresse nella memoria del protagonista. La fantascienza si fa intima, così che l’io narrante possa vivere e mettere al mondo una dimensione ucronica, per riuscire a vivere momenti di una sua proiezione illusoria. È un viaggio nei paesaggi interiori del tempo. In che cosa consiste allora il paradosso della persona che può vedere la propria morte, senza rendersi conto di ciò che sta vedendo? Tracce e suggestioni di La Jetée sono confluite nella trama de’ L’esercito delle 12 scimmie (1995), di Terry Gilliam.

Chissà invece cosa accadrebbe innestando l’ossessione del personaggio narrante di La Jetée nella mente di Dominic “Dom” Cobb, protagonista del film Inception (2010) di Christopher Nolan. Sarei curioso di vedere gli effetti e seguire gli svolgimenti di ciò che si viene a creare al confine tra le due realtà. In entrambi i film l’uomo che viaggia nel tempo, nello spazio o tra veglia e sonno, coinvolge il soggetto del suo desiderio o del suo amore in un sentimento che non potrà avere mai veramente luogo, né lieto fine. Le immagini sconnesse creano percorsi, sia lineari sia labirintici, e momenti che esplodono in innumerevoli spazi-tempi di straordinaria intensità.

In Inception si entra nel sogno di qualcun altro per carpire segreti. Così pure in La Jetée, ma in un’altra maniera, perché la lunga piattaforma in cemento costruita su una terra di nessuno, da cui partono e arrivano continuamente aerei, è abitata da persone che hanno l’aspetto di manichini bloccati nella loro positura. Sia l’uomo di La Jetée sia l’estrattore Dominic Cobb hanno un rapporto d’amore con una donna che abita nella loro memoria e nei loro sogni. Entrambi hanno consapevolezza di aver commesso una sorta di crimine psicologico nell’inseguire il loro ricordo e incontrano nei loro viaggi agenti di un futuro o di una dimensione onirica, che pattugliano i canali temporali e sono venuti per costringerli a tornare nella realtà da cui sono partiti. Cobb va per l’ultima volta nel limbo, dove si congeda per sempre dalla moglie, per tornare a riabbracciare i suoi figli rimasti nella vita reale, prima che la trottola-totem smetta di ruotare e prima che ci sia la possibilità di essere ancora dentro un altro sogno.

Mentre l’uomo di Marker sarà costretto a vedere il momento della sua morte e l’espressione atterrita della donna che avrebbe voluto amare. Oppure la visione è un incubo, o un innesto, o un momento che può essere modificato dalla coscienza? Vista la natura retrospettiva delle fotografie, lo spettatore di La Jetée non può far altro che cercare ciò che è già accaduto, come si fa quando affiorano i ricordi o si attiva la memoria, dove coesistono tempi e luoghi diversi. Non si può far altro, allora, che stare in uno stato di sospensione, dove ogn’una delle circa quattrocento fotografie montate in sequenza frattura il tempo pur documentando ciò che è rimasto raggelato sulla superficie di ogni immagine.
