Antonella Anedda, mondi senza vento

28/07/2020

È uscito da Carocci Apri gli occhi e resisti. L’opera in versi e in prosa di Antonella Anedda di Riccardo Donati (pp. 118, € 15). Grazie alla cortesia di autore ed editore ne riproduciamo un capitolo, preceduto da una versione più ampia della recensione di Andrea Cortellessa apparsa sul «Sole 24 ore».

Sempre più spesso l’industria accademica, publish or perish, incoraggia studi sull’«estremo contemporaneo»: cioè su autori in piena attività. Pratica in più sensi rischiosa: intanto per l’azzardata canonizzazione dei propri oggetti; e poi perché quegli autori, se “vivi” non solo letteralmente, “fotografa” in movimento un’opera che potrà sempre contraddire gli esiti della ricerca. (Parlo per – autoinibita, ripetuta – esperienza personale.) Ma proprio per questo vanno apprezzati i tentativi nei quali al puntiglio dello studio si associno non solo l’ammirazione per l’altezza di una ricerca letteraria, ma anche l’adesione a un pensiero, a una prassi, a un indirizzo di esistenza. Ricordo quanto mi colpì, tanto tempo fa, uno studio del giovanissimo (e a me allora perfettamente ignoto) Paolo Zublena su un poeta che, a quel tempo, era a sua volta per me poco più di un nome, Eugenio De Signoribus: la passione “militante” (per usare ancora questa formula atroce), congiunta all’acribia della ricerca, in certi (rari) casi può dar vita a un ibrido prezioso. Provvedendo intanto a segnalare opere il cui aggetto, sul panorama della «letteratura circostante», ha un’evidenza non più ignorabile.

È questo il caso del libro, breve ma puntualissimo, che Riccardo Donati ha dedicato ad Antonella Anedda: cioè «uno dei rarissimi casi di classico vivente» (come attesta il culto tributatole – cartina di tornasole, questa, quasi sempre attendibile – da autori più giovani espressioni delle più diverse tendenze). Pare anche a me che, persino al di là del suo valore intrinseco, il “caso” di Anedda sia paradigmatico di un movimento più complessivo. Il suo bacino di coltura, ben documentato da Donati, affonda negli anni Ottanta romani: ambiente dominato da un clima di reazione, da un lato contro l’intellettualismo degli sperimentali anni Sessanta, e dall’altro contro la politicizzazione coatta degli anni Settanta. Vi si sovrapponeva il magistero dell’autore più giovane, e più isolato, del «pubblico della poesia», Milo De Angelis: che recuperava con coraggio la tradizione analogica del simbolismo, accentuando (sulla scorta del Blanchot lettore appunto di Mallarmé) la “neutrizzazione” di un Io radicalmente “sbiancato” dai cascami narcisistici e tribunizi che i suoi fratelli maggiori invece, sempre più sfrontati, in quegli anni reintroducevano in poesia (caratteri che oggi sguazzano senza quartiere, infatti, nella colluvie di pseudoversi social). Su questo palinsesto interveniva, poi, un’altra lezione decisiva, quella di Amelia Rosselli: che invece da quei cerebrali Sixties veniva dritta. E che nel ’92 faceva in tempo a salutare sul «manifesto» la raccolta d’esordio di Anedda, Residenze invernali (senz’altro ispirata al suo Serie Ospedaliera), come un «quasi capolavoro».

Fra il molto altro insegnava Rosselli a «estinguere la passione del sé! / estinguere il verso che rima / da sé: estinguere persino me…»: versi da Documento fatti suoi da Anedda nei «Cori» di Salva con nome, la sua raccolta (del 2012) che porta all’estremo il programma enunciato nella Luce delle cose (2000): «parlare a partire da se stessi, ma senza lasciarsi invadere da se stessi». Per dirla con un altro autore-chiave (anche di Rosselli) come Kafka, citato invece in Dal balcone del corpo (2007): «Tra te e il mondo scegli il mondo». Viene così meno ogni scoria, «spunti irrazionalistici e residui di un’imagerie oracolare», da Donati indicati nelle sue prime prove, ma ben presto abrasi dalla pronuncia pacata e perentoria di una scrittura tanto intima quanto intransigente.

È per questa strada che fra i due capolavori in versi di Anedda, Notti di pace occidentale (1999) e il recente Historiae (2018), si dispiega una delle pochissime scritture oggi in grado di misurarsi – cogli strumenti umani della poesia – con le emergenze del «mondo grande e terribile» di cui parlava Gramsci. Dalla postura ricorrente dell’osservatorio (il balcone di leopardiana memoria) ci si protende sulla «dismisura delle cose» e il loro «baratro»: i nostri occhi «alti e miopi e assordati» cercano per quanto possibile di «vedere da vicino», «dietro il condominio», «il nostro mondo occidentale» al quale «a ore strane vengono i nostri alieni». Uno sguardo che da ultimo, darwinianamente e zanzottianamente, si spinge sino a sprofondare nei sedimenti terrestri soggiacenti all’Antropocene superbo e sciocco.

Lo sguardo, ecco. L’esergo posto da Anedda a un libro inclassificabile come La vita dei dettagli (2009), forse in assoluto il suo capolavoro, è dal più epifanico Joyce: «… thought through my eyes…». Dove la paronomasia, persa in traduzione, equipara il «pensiero» all’«attraversamento» compiuto da una vista che è, piuttosto, visione (tanto più penetrante, infatti, quanto più “metafisica”: eyes wide shut). E il maggior merito di Donati (che all’attivo ha diverse pubblicazioni sul rapporto, nel Novecento ricchissimo, fra poeti e artisti visivi) è quello di ricostruire il background da storica dell’arte, di Anedda: che la porta a esperimenti, come appunto La vita dei dettagli e Salva con nome, di non solo italiana eccellenza in quella «poesia espansa» dell’iconotesto: sicché quel titolo Historiae, oltre che dichiaratamente a Tacito, fa pensare alle “storie” per figure nelle quali, secondo Leon Battista Alberti, consiste il maggior vanto dei pittori. E forse proprio il penchant per le immagini (nella cui ekphrasis è maestra assoluta, oggi, nella nostra lingua) ha salvato Anedda dal rischio di “purismo” dell’ideologia letteraria in cui si è formata.

C’è un’altra “rima figurale” che percorre un po’ tutta la sua opera, presa in questo caso da Beckett: quella del «dondolio». Espressione ritmica del dolore somatizzato, lo si può leggere anche come una sigla del suo andirivieni – quasi un Fort Da in termini psichici – non solo fra parola e immagine ma anche fra poesia e saggio, fra italiano e lingua sarda (alla quale, a partire da Dal balcone del corpo, sono pudicamente riservati gli abbandoni più lirici e lancinanti), fra prosa e verso, fra «io» e «mondo». Perché una poesia come questa si rivela grande, cioè spaziosa, soprattutto quando guarda all’altro da sé. È sempre altrove.

Andrea Cortellessa


Non vorrei dipingere – un quadro –
piuttosto essere quello
che indugia sulla sua deliziosa
luminosa impossibilità –

Emily Dickinson [J505]

Esistono paesaggi mai turbati dalla pioggia, navi dalle vele gonfie immobili nella radura, mani non soggette a invecchiamento, parole mute affidate a cartigli, creature soprannaturali che camminano portando in mano la propria testa o il cui volto è composto da ortaggi. Tutto questo avviene nei quadri, le tavole dipinte cui lo sguardo si affaccia per contemplare le azioni degli uomini e della natura miracolosamente sottratti alla legge nientificante della distruzione (almeno in apparenza e per un po’). «Il tempo non ha importanza», si legge ne La luce delle cose, «gli anni sono premuti sulla carta, sulla tela, tela e carta che trattengono le cose» (LLDC, p. 95). Gettando campate plurisecolari, le opere d’arte si collocano al crocevia delle epoche, sono veri e propri nodi transtemporali, stratificazioni di memorie culturali coagulate in un oggetto fisico. E proprio il fatto di essere oggetti, privi di umori e passioni, conferisce loro la perfezione di una quieta immanenza, propria di tutto ciò che, non-vivendo, è libero dal giogo del destino: «silenzioso è il retro dei quadri / silenziosi gli angoli, l’aria / senza respiro degli oggetti» (RI, p. 24). Sottratta al calar delle tenebre e a nefaste congiunture atmosferiche (dunque, metaforicamente, all’inverno della storia), l’opera d’arte, raffigurazione di un istante che dura senza avvenire, rappresenta una tregua di luce in un mondo fragile e tormentato. È a suo modo un’isola, un frammento di spazio/tempo che sta, per chi lo contempla, dentro/fuori il presente (e “isole” di tregua sono di conseguenza i musei, ambienti protetti «dove schermano la luce, non gridano, non scorre il sangue», LVDD, p. 2).

Antonella Anedda ha dedicato alle immagini il proprio percorso di studi e una parte rilevante della sua produzione creativa: «più che un’iconologa», dichiara, «ero un’adoratrice silenziosa di paesaggi e soprattutto di bestie dietro le figure» (AA, 2002a, p. 18), e Adorare (le immagini) è il significativo titolo di un testo de Il catalogo della gioia che rappresenta una sorta di manifesto in versi del suo rapporto, persino viscerale, con la pittura (ICDG, p. 28). Da appassionata perlustratrice dei territori del figurativo, da avida collezionista di ritagli ottici, di libro in libro la scrittrice romana ha squadernato un’impressionante cultura visiva che spazia tra le epoche e le civiltà. Già nei due volumi di prosa del 1997 e 2000 si affollano i richiami ai maestri delle origini (Giotto, gli anonimi artefici delle cattedrali romaniche e gotiche), dell’età rinascimentale (Masaccio, Raffaello, Botticelli, Lotto, Mantegna, Piero della Francesca, Carpaccio, Pontormo, Tiziano, con incursioni fiamminghe: Bosch, Vermeer) e della modernità più bruciante (Goya, Géricault, Cézanne, Klimt, Van Gogh, Gauguin, Picasso, Boccioni, Kokoschka, Klee, Giacometti, Burri, Hopper, Rothko), per non citarne che alcuni. Tutti venerati, tutti guardati con l’occhio grato di chi riconosce, nel perimetro delle loro “dipinture”, uno «spazio per l’autentico», per dirla con le parole di Marianne Moore (a place for the genuine, in The Poetry).

Quando attiva, sul piano dell’invenzione, le proprie raffinatissime competenze in fatto d’arte, Anedda preferisce però lasciare nel cassetto gli strumenti dell’analisi e dell’indagine critica, dimenticare quanto prescritto dalla storiografia e dalla scienza iconologica. La relazione che il suo sguardo, certo affinato dallo studio, intrattiene con l’immagine è tutt’altro che freddamente professionale: ogni quadro costituisce un’occasione di incontro con un volto, un paesaggio (un cielo, un corso d’acqua), un oggetto. Le tele sono, al pari dei libri degli scrittori amati, oggetti privilegiati per la riflessione, spazi di pensiero che dispiegano la coscienza in tutte le direzioni: memoriale, affettiva, esistenziale, resistenziale. E, come capita con i testi, quello di Anedda è sempre un parlare verso, un parlare a. Un dialogo, un cenno civile. «Ho provato», si legge ne La luce delle cose, a parlare «non di quadri libri ma a quadri e libri come spazi che in sé stringevano il segreto di un ulteriore spazio, di un ulteriore tempo. A quadri e libri, davanti a quadri e libri, frontalmente e non al di sopra. Non l’insidioso per ma il semplice a della dedica e del dono» (LLDC, p. 12). Tale dialogo con Alessandra Capodiferro si articola a partire da due elementi decisivi, tra loro interrelati: la distanza e il dettaglio.

Non esiste visione senza un intervallo tra lo sguardo e il suo oggetto, che altrimenti resta impercepito: come insegna Erwin Straus, la distanza è la forma spazio-temporale del sentire, in un ripetuto va e vieni tra contatto (visivo, uditivo, tattile) e distacco (cfr. Didi-Huberman, 2001, pp. 145-6). Anedda attribuisce un senso ulteriore a questo dato fisico, percettivo: la distanza è la consapevolezza dello iato che separa l’essere umano, come entità fisica vivente (trascinata dai fenomeni, sballottata dalle circostanze, mortale), dalla perfezione dell’oggetto-tela. «Davanti a un’immagine o a un foglio scritto, davanti a un quadro o a un libro», si legge nelle prime righe di Bonifacio, notte, «la voce, come il corpo, indietreggia. Non esattamente silenzio, ma voce che sale e si ferma perché intuisce la distanza di ciò che è verticale, di quello spazio – un grande, un piccolo abisso – che ci separa dalle cose» (LLDC, p. 9). La distanza rappresenta, dunque, qualcosa di molto concreto (il fronteggiarsi di due verticali, quella del corpo e quella della tela, del muro, dello schermo) ma anche una metafora del nostro essere al mondo, l’indizio d’una separatezza costitutiva («quei segni laggiù sono i geroglifici del nostro spavento, delle nostre attese, di ciò che trasmutando ci abbandona», LLDC, p. 10). Siamo al problema decisivo della necessità di un’alleanza del soggetto senziente col mondo percepito. 

Nell’opera di Anedda il perseguimento di tale alleanza impone di disubbidire – nella mente, sulla pagina, essendone il corpo impossibilitato – all’imperativo normalizzante della distanza (LVDD, p. x), immergendosi senza riserve in «quei segni laggiù». Parlare non di loro ma a loro, proprio come ai «miti oggetti» di Ora tutto si quieta, tutto raggiunge il buio, sorta di manifesto della prima stagione dell’opera di Anedda. Ai testi si dà respiro insufflandoli del nostro fiato, ai quadri prestando loro, incondizionatamente, i nostri occhi. Non, dunque, la contemplazione ordinata, rigorosa, scientificamente calibrata e predisposta, bensì una ricercata vertigine, un disequilibrio produttivo, un generoso e disinibito sprofondare fino a perdersi nell’immagine. Detto altrimenti: un’esperienza di abbandono, da cui deriva la felicità della scoperta di quella forza indocile e volitiva che è il dettaglio – fortemente consentanea, si capisce, a un’opera come quella di Anedda da sempre antiautoritaria e a-gerarchica. «Il dettaglio costruisce non solo l’orizzonte ma l’autenticità dello spazio» (CSGA, p. 86); e altrove: «lo sguardo non riunisce ma scompone, libera i dettagli del quadro, lascia che diventino un altro quadro. La storia non viene raccontata, ma solo resa possibile» (LVDD, p. ix). Di conseguenza, «la tecnica dell’analisi del dettaglio perde la sua matrice filologico-investigativa» (Casadei, 2011, p. 131), si svincola dagli ambiti disciplinari (la pratica iconologica) e invita l’occhio a trasgredire, «a liberare la superficie dipinta dalle catene della gerarchia e della prospettiva» (Mariani, 2010, p. 372).

Distanza/incontro di due verticali
fotogramma da Pier Paolo Pasolini, Decameron (1971)
L’allievo di Giotto studia la parete col disegno preparatorio

Il dettaglio di Anedda non è, dunque, «il ‘particolare’, indice o indizio per riscontri morfologici chiamato a far sistema con altri elementi analoghi, bensì rappresenta un fatto figurativo estrapolato dal contesto, isolato e poi ri-significato perché agisca da motore creativo di un originale spazio interiore, emotivo ed esistenziale» (Donati, 2015, p. 16). Pura potenza attrattiva, il dettaglio è un provocatore ottico che si dirige verso di me per invitarmi, quasi ammiccando, a rompere la distanza:

Il corpo è davanti a un quadro. A un tratto un dettaglio ci attira tanto da farci avvicinare. L’intero quadro diventa resto. Il dettaglio è l’isola del quadro. Per vedere meglio dobbiamo trasgredire lo spazio, abolire ogni distanza ragionevole. Il desiderio disubbidisce, porta al delirio. Il quadro scompare. Lo ha inghiottito il buio. Resiste solo il dettaglio che ti ha fatto cenno (LVDD, p. 2).

Il lettore noterà qui una concezione quasi animistica della materia dipinta: e, in effetti, del titolo La vita dei dettagli ciò che più conta è soprattutto quel dei, da non confondere col più banale nei, per quel tanto che sottintende di attivazione biologica, fisiologica, del frammento figurale, catalizzatore di un incantamento visivo. 

Distanza/incontro di due verticali
fotogramma da Valerio Zurlini, La prima notte di quiete (1972)
Alain Delon fronteggia la Madonna del Parto di Piero della Francesca

Il dettaglio rappresenta, insomma, l’elemento minoritario – e spesso inatteso, conseguenza d’un incontro fortuito – da far proliferare perché diventi il fuoco di un discorso altro, aperto e inclusivo: «di colpo ciò che sembrava trascurabile si è fatto unico, lo sfondo si è ribaltato in un primo piano» (LVDD, p. x). «Così è in Pasternak e in Anna Achmatova, per i quali i dettagli: la brocca e l’icona, il tappeto e il lenzuolo, sono le fessure attraverso cui accogliere l’universale» (CSGA, p. 95). Collezionare dettagli, nella mente e sulla pagina, significa attivare una mobile intelligenza associativa che offra una cornice, uno spazio (seppure labile e provvisorio, come ogni cosa umana) a ciò che il tempo condanna all’evanescenza, come chiariscono due versi di Parla lo spavento: «raccoglierò dettagli come ossa. / Un museo perché non si disperdano» (DBDC, p. 40). E dunque: raccogliere per accogliere; la collezione come forma di accudimento.

Distanza/incontro di due verticali
fotogramma da “Io e… Giorgio La Pira e l’Annunciazione di Beato Angelico”,
un programma di Anna Zanoli (prima messa in onda 19 luglio 1973)
La Pira illustra l’Annunciazione di Beato Angelico

Tra le molte tipologie esistenti di ritagli visivi ve ne sono tre che, oltre alle superfici dipinti, occupano un posto privilegiato nell’opera di Anedda e sono per questo meritevoli di particolare attenzione: l’icona, la fotografia, la mappa. La prima rinvia evidentemente ai culti del mondo cristiano ortodosso, allo spiccato interesse dell’autrice per la cultura russa e in particolare alla sua passione per l’Andrej Rublëv (1966) di Andrej Tarkovskij. Tuttavia, passando in rassegna i vari libri ci si accorge che il termine “icona” designa per lei ben più di un genere pittorico geo-storicamente determinato: rientrano nella categoria anche le tele di Nicolas De Stael e di Mark Rothko (cfr. AA, 1999), le videoinstallazioni di Bill Viola (cfr. Mancinelli, 2010), i retablos sardo-catalani a fondo oro (in un cortocircuito tra Russia e Sardegna che è tipico del suo lavoro) e persino certi files (IS, p. 131). “Icona” è, insomma, ogni “mite oggetto” che funga da supporto all’immagine e sia lavorato per combustione del superfluo, con fatica e lentezza – umile nei materiali, asciutto nell’impaginazione grafica, cromaticamente basico. Ritaglio (ligneo, nella sua forma canonica) di composta armonia e straordinaria luminosità (LVDD, p. 115), scampolo di materia che «splende bellezza» (ICDG 44, p.), «l’icona non distrae, non consola con la bellezza, ma accoglie il mondo attraverso la materia» (LVDD, p. 95). Al pari dei più semplici atti domestici, così centrali nell’opera della poetessa romana, è un tipo di arte che esemplifica al massimo grado ciò che anche la scrittura, per lei, dovrebbe essere: la «pazienza selvaggia della poesia non [è] diversa dal gesto del pittore d’icone che stempera l’azzurro nella chiara d’uovo. Pazienza che attende lo sfolgorio del colore a partire da se stessa, dalle cose, dalle bestie: talento, legno, tempera e galline» (LLDC, p. 70).

Icona
fotogramma da Andrej Tarkovskij, Andrej Rublëv (1966)

Quanto alla fotografia (e lo stesso potrebbe dirsi del cinema, arte però scarsamente presente negli scritti qui esaminati), non fa che ripresentare, nel mondo moderno, quella componente luttuosa che tutte le immagini sin dalla preistoria implicano, portandola però al parossismo. Ogni pennellata, ogni colpo di scalpello è il diario di una perdita: nel fluire stesso della marea di volti prima “immortalati” e poi disciolti dall’azione nientificante del tempo (i «fantasmi di tutti quei corpi che “lastricano la storia dell’arte”», LVDD, p. 129), è sempre la morte che si mostra all’opera. Nondimeno, la pittura si offre ad Anedda come un’occasione di tregua, «un conforto», una finestra spalancata sui secoli. Diversamente la fotografia è, «come la parola», «un castigo. Il quadro consola, la parola e la fotografia feriscono, hanno i denti da lupo del secolo e si spingono avanti senza pace, con ostinazione» (LLDC, p. 19). Laddove la tela o il legno dipinti da mani d’uomo pullulano di dettagli vitali, doni di luce e bellezza (l’autrice parla di «salvezza sospesa», DBDC, p. 69), il foglio di carta impressionato dalla macchina è un segnacolo funesto che restituisce, nella sua impassibile meccanicità, lo sguardo agghiacciante di Medusa. Anche in questo caso, come in quello dello shock causato dalla vista del cadavere della zia che rappresenta la prima, traumatica scoperta della morte in età infantile,alla radice dell’attrazione/repulsione per le foto c’è un ricordo lontano, traumatico e indelebile. La scrittrice lo rievoca una lirica di Historiae, Esilii (HIS, p. 35), che a sua volta riscrive un passo di Cosa sono gli anni: «da piccoli sfogliavamo il libro di medicina legale di mio padre. Lì c’erano vive fotografie di cadaveri, le grosse lingue degli impiccati, le schiene dei pugnalati, i corpi gonfi degli annegati» (CSGA, p. 65). Nel quadro l’orrore, quando c’è, riposa; nella foto si risveglia, e azzanna.

Icona
particolare da Antioco Mainas, Cristo Risorto, predella di N.S. di Valverde (metà XVI sec.)

Quasi tutti i riferimenti fotografici presenti nell’opera di Anedda rinviano a due tipi di fenomeni: le crudeltà di cui è capace la nostra specie (istantanee di perseguitati, inseguiti, assassinati) o il sentimento del congedo (paesaggi perduti, ritratti di defunti). Le prime, le testimonianze di episodi sanguinosi (qualche esempio: CSGA, p. 116; LLDC, p. 20 e 48), compongono una terrificante mostra delle atrocità, una collezione o album delle miserie umane sfogliato con sgomento. Quanto ai ritratti dei morti, non fanno che rinnovare lo strazio, ri-presentando alla coscienza l’angoscioso abisso dell’irreparabile. Tanto che, in un testo de Il catalogo della gioia, si giunge a implorare una pioggia capace di sciogliere i tratti impressi sulla carta fotografica («lo sguardo, le labbra, la fronte») e «finalmente fa[re] di te una cosa che si dimentica in fretta / un oggetto sulla panca ora che il sole sfavilla» (ICDG, p. 34). D’altro canto niente, nell’opera di Anedda, eccetto la violenza dell’uomo sull’uomo, è definitivamente, irrimediabilmente contrassegnato da un segno negativo. Anche la fotografia può offrirsi come mezzo di contatto e intesa tra le schiere.

In ambito domestico, le foto dei cari scomparsi appese ai muri o appoggiate sui mobili rivestono lo stesso valore che l’evocazione in effigie dei defunti ha sempre avuto in ogni civiltà: rispondono ai doveri memoriali-cultuali dell’umanità, rientrano tra i gesti dell’accudimento su cui tante liriche di Anedda si costruiscono. Così già in un testo di Residenze invernali si legge: «la casa veglia le foto dei morti / ogni parete stretta / sui loro verticali sorrisi» (RI, p. 63; cfr. anche p. 22 e, ancor prima, AA, 1987, p. 79). Nella sezione Pneumologia di Salva con nome è esemplare il dialogo, vibrante di sofferte tonalità affettive, che i testi intrattengono con una foto, conservata tra le pareti di casa, della madre da giovane. I ritratti di Anna Achmatova, e persino le foto delle sue esequie, hanno un innegabile valore contrastivo rispetto all’azione nientificante del tempo: «eppure le immagini di quella vita e di tante morti sono restate abbastanza per aggiungere vita, per conservare un frammento» (CSGA, p. 111). Soprattutto, come diventa sempre più evidente nelle prove recenti, raccogliere ritratti di defunti (immagini magari anche scarsamente nitide, sgranate e stampate su carta povera: più “icone”, insomma, che documenti), collezionare «vecchie foto di visi» «di cui non so il nome» (SCN, p. 7), significa ancora una volta operare per tramandare respiri e cucire destini (si interpretino così le immagini di forbici e aghi pubblicate nella sezione Cucire di Salva con nome).

Fotografia
scatto che documenta i funerali di Anna Achmatova, 1966

A contare, in questa ri-significazione del lacerto visivo, non è la mera referenzialità, bensì la spettralità d’una suggerita ghost story. Paradigmatico in tal senso il vasto collage di ritratti fotografici che, con funzione di ex voto, campeggia su una parete della chiesa della Trinità alla Maddalena. La prosa Visi. Collages. Isola della Maddalena (SCN, p. 116, ma si veda pure IS, p. 85) s’impernia su un’evidenza etico-poetica perfettamente consentanea a certi esiti dei media landscapes contemporanei (penso, tra gli altri, al lavoro di Antoni Muntadas): la presenza fisica di qualcosa (nel caso specifico un assemblaggio naif di volti e corpi) che infesta un luogo fin quasi a saturare l’aria impedisce a chi guarda di voltarsi dall’altra parte, di sentirsi estraneo e alieno. Il mosaico di presenze senza nome della chiesa maddalenina certifica fisicamente, in concreto, quella «spartizione di uno spazio-tempo simultaneo», quel co-esistere plurale di cui parla Jean-Luc Nancy (1996, p. 91). Ecco allora chiarirsi il valore non passivo dell’espressione “adorare l’immagine”, oggetto di una sorta di raccoglimento religioso nel duplice senso di “raccogliere” e “legare insieme”, promessa d’alleanza, qui sancita dalla scrittura della luce, tra chi guarda e una comunità transtemporale. «Salva con nome può essere letto anche così: come una sequenza di punti di sutura iconotestuali che il poeta applica in risposta al continuo sfilacciarsi e sfrangiarsi dei corpi e della loro memoria» (Donati, 2018, p. 131).

Fotografia
Antoni Muntadas, Estrategias del desplazamiento (2018)

Infine, la mappa. Si tratta di un tipo di immagine che, a partire dai primi anni Duemila, Anedda menziona di frequente, spesso sulla scorta dell’omonimo componimento di Elizabeth Bishop, da lei giudicato tra i più belli del Novecento. Quanto e più del quadro, la pianta di un luogo si pensi a quella dell’arcipelago riprodotta in Isolatria (IS, p. 34) – è, anche in versione digitale (ivi, pp. 130-1), la resa grafica di un mondo quieto, senza gelo e senza vento: «sì, i colori dei cartografi sono più delicati di quelli degli storici, la topografia è imparziale. Ci sono confini senza sangue, prati senza cadaveri. Il tempo atmosferico non esiste. La carta geografica non viene turbata da nulla, non scende nella neve, non soffiano le tormente, i mari sono senza onde» (ivi, p. 28). Dunque, «la geografia come possibile risposta alla storia» (QAM, p. 11), dimensione altra in cui «il tempo si azzera, la topografia non ha sangue», occasione di tregua e conforto (LVDD, p. 144) anche per gli inquietissimi spettri che agitano tanta parte della produzione in versi di Anedda.

Azzerando l’impero crudele della storia, la mappa è un’immagine che relativizza i destini dei singoli e le pretese della specie: «nella distanza, il passato è appena un rigonfiamento della sabbia» (AA, 2002b). Esemplari in tal senso certi lavori di Maria Lai, quali le splendide Geografie. D’altro canto, però – oscuro rovescio della medaglia – questa restituzione in miniatura d’un paesaggio, oggetto dissanguato e astratto, potrebbe adombrare un anelito, sempre risorgente nell’opera di Anedda, a sfilarsi dai limiti del destino umano, configurandosi come ennesimo sintomo di un’impazienza del sé tentato dal “niente di niente” del diventare-cosa. Fuori dal tempo, in uno spazio salvato, sì, ma pericolosamente inerte.

In copertina: Vittore Carpaccio, Leone di San Marco, 1516, particolare (da Mondi senza vento)

Opere citate
Volumi di Antonella Anedda

CSGA Cosa sono gli anni. Saggi e racconti, Roma, Fazi, 1997.
DBDC Dal balcone del corpo, Milano, Mondadori, 2007.
HIS Historiae, Torino, Einaudi, 2019.
ICDG Il catalogo della gioia, Roma, Donzelli, 2003.
IS Isolatria. Viaggio nell’arcipelago della Maddalena, Roma-Bari, Laterza, 2013.
LLDC La luce delle cose. Immagini e parole nella notte, Milano, Feltrinelli, 2000.
LVDD La vita dei dettagli. Scomporre quadri, immaginare mondi, Roma, Donzelli, 2009.
QAM Più delicati degli storici sono i colori dei cartografi, Quaderno del Premio di Poesia e Traduzione Poetica “Achille Marazza”, XXII edizione, 2018, Borgomanero, Fondazione Marazza, 2018.
RI Residenze invernali, Roma, Crocetti, 1992 (e 2008).
SCN Salva con nome, Milano, Mondadori, 2012.

Altri testi d’autore (siglati “AA”)
(1987) Oltre l’acqua, di notte, in “Prato Pagano. Giornale di nuova letteratura”, 1, dicembre 1987, pp. 79-81.
(1999) Il silenzio dello spazio, in “Ipso Facto”, 5, settembre-dicembre 1999, pp. 39-40.
(2002a) [questionario] Otto domande sulla poesia, “Studi Duemilleschi. Rivista annuale di storia della letteratura italiana contemporanea”, Pisa-Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 2, 2002, pp. 17-8.
(2002b) [prefazione a] Giorgio Bertelli: dalla serie paesaggi con figure assenti, Roma, Edizioni di Negativo, 2002, s.p.

Altri contributi citati
CASADEI A. (2011), Poesia, pittura, giudizio di valore (a partire dall’opera di A.A.), in Poetiche della creatività. Letteratura e scienze della mente, Milano, Bruno Mondadori, pp. 119-34.
DIDI-HUBERMANN G. (2001), Génie du non-lieu. Air, poussière, empreinte, hantise, Paris, Les Éditions de Minuit.
DONATI R. (2015), Disobbedire all’oblio. Appunti su La vita dei dettagli, in “Arabeschi. Rivista Internazionale di Studi su Letteratura e Visualità”, 5, gennaio-giugno 2015, pp. 15-22.
ID. (2018), ʻPerdersi in altri corpiʼ. Su Salva con nome di A.A. in Scritture del corpo. Atti del XVIII Convegno Internazionale della MOD 22-24 giugno 2016, a c. di M. Paino, M. Rizzarelli, A. Sichera, pp. 125-32.
MANCINELLI F. (2010), La vita dei dettagli, in “Poesia”, 253, ottobre 2010, p. 66.
MARIANI A. M. (2010), recensione a A.A. La vita dei dettagli e A. Carson, Antropologia dell’acqua, in “Italian Poetry Review. Plurilingual Journal of Creativity and Criticism”, v, 2010, pp. 372-4.
NANCY J.-L. (1996), Essere singolare plurale, introduzione di R. Esposito in dialogo con J.-L. Nancy, Torino, Einaudi, 2001.

Riccardo Donati

insegna all’Università di Salerno; si occupa di letteratura euro-statunitense tra Sette e Novecento, con particolare attenzione ai rapporti tra arte della parola e arti della visione. Tra i suoi lavori più recenti “Critica della trasparenza. Letteratura e mito architettonico” (Rosenberg & Sellier 2016), “La musica muta delle immagini. Sondaggi critici su poeti d’oggi e arti della visione” (Duetredue 2017), “Apri gli occhi e resisti. L’opera in versi e in prosa di Antonella Anedda” (Carocci 2020). Nel 2013 l’Accademia Nazionale dei Lincei gli ha attributo il Premio Giuseppe Borgia per i suoi contributi sulla poesia.

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