Jean Louis Schefer, ‘Carré de ciel’

Alcuni anni fa – nel 2003, per la precisione – Jean Louis Schefer pubblicava un volume illustrato, fuori commercio, intitolato Fenêtres. Di quel libro il recente Carré de ciel serba il ricordo. La vera origine, ciò che innesca questa passeggiata tra dipinti, è però la voce “Fenestra”, contenuta nel magnifico dizionario di Gerhard Johannes Voss, Geraldi Joannis Vossi Etymologicon linguae latinae (Amsterdam, 1662). Vi appare una citazione dalle Etimologie di Isidoro di Siviglia, che vogliamo riportare: «Le finestre sono vie di accesso la cui parte esterna è più stretta di quella interna, come vediamo, ad esempio, nei magazzini. Il loro nome si deve al fatto che esse fenerant, ossia lasciano passare la luce, che in Greco si dice phos; ovvero al fatto che attraverso di esse un uomo posto all’interno di un edificio può vedere l’esterno. Altri ritengono che la finestra sia stata così chiamata perché ministrat, ossia fornisce, luce alla casa; si tratterebbe, quindi, di un nome composto grecolatino: il greco phos, infatti, significa, appunto, luce». Cosa emerge da questo tenzone etimologico? La luce, nata nell’oriente greco è regolata – amministrata – da un quadro geometrico romano.

Il libro è un brillante tour de force lungo secoli di pittura, nel tentativo di fissare mondi immaginari, dipinti grazie a variazioni luminose, composti a partire da differenti modulazioni cromatiche. Una storia della luce? Una fisica, piuttosto. Ciò che Schefer coglie, nel suo viaggio, è una metamorfosi della natura della luce. Da qui la sua domanda: quand’è che un pittore ha deciso che la luce non fosse più il mezzo d’illuminazione del soggetto ma l’oggetto stesso della sua pittura, una delle sue componenti insieme a i colori della tavolozza? Luce, aria, bruma, sostanza cromatica: ciò che Diderot chiamava, a proposito di Chardin, l’aria che circola tra le cose, diventa per Schefer il vero soggetto della pittura. Della luce ci viene indicato il suo percorso qualitativo: dalla trasparenza cristallina della pittura olandese, in cui gli interni sembrano immersi un una specie di acquario, fino al suo ispessimento, la sua densità pulviscolare nel XIX. Magari in una delle Danseuses di Degas.

E ancora: luce, quadro geometrico. Due sono i poteri che emergono da questa amministrazione luminosa: descrittivo e analitico. Esiste una luce cartesiana, e una newtoniana. La prima si occupa delle linee; l’altra, della contaminazione cromatica dei corpi. La grande differenza, o, meglio, divisione tra Nord e Mezzogiorno è proprio legata alla qualità della luce. Vermeer, Rembrandt e Caravaggio sono quasi contemporanei, ricorda Schefer. Ma che differenze tra la luce olandese e quella italiana! In Italia le finestre sono spesso sprovviste di vetri, sono ritagli nel muro da cui emerge la messa in scena di una situazione (allegorica, morale, onirica). In quelle olandesi invece il vetro permette riverberi, rimbalzi luminosi che riflettono parte della composizione. La luce entra dalle finestre, in interni dove una fanciulla legge una lettera, oppure suona la spinetta. A volte una domestica spazza per terra. Forse distende la luce, cancella le ombre dal dipinto.

Schefer si prodiga in un superbo resoconto descrittivo, o, meglio, un corpo a corpo tra pittura e scrittura. Emerge una tensione musicale, un ritmo, un vero e proprio respiro della frase che fa i conti con gli aspetti del dipinto, la sua materia cromatica. La scrittura verifica la sua stabilità, ne testa la consistenza. Nei dipinti, una luce entra da una finestra, rimbalza, o viene deviata da una superficie riflettente. La scrittura tenta di cogliere questi movimenti. I dipinti vengono così descritti con magnifico slancio ecfrastico. Ma la scrittura fa di più: devia, perturba le figure dipinte. Una specie di forza immaginaria le altera, vi schiude una sorta di impensato. Prendete la straordinaria descrizione del quadro di  Pieter Janssens Elinga, Interno con gentiluomo, donna che legge e cameriera (ca. 1670):

«La profondità della parte sinistra mostra il pittore controluce davanti a una finestra, la cameriera in primo piano anch’essa in controluce e riserva un prodigio di luce sulla parte destra: due quadrati accecanti formano un angolo retto sul pavimento e il muro proiettando violentemente l’ombra di una sedia su una parete, un’ombra allungata e sfumata in deformazione. Le due grandi tessere rettangolari, la cui griglia lascia passare un leggero scarabocchio di foglie e rami, permettono l’entrata di un sole, sembrano l’attuazione di un rigoroso dispositivo ottico. (…) La singolarità, l’invenzione del quadro, è evidentemente il colpo di forza e la brutale verità della luce che agisce per se stessa: essa stacca o dipinge due schermi bianchi e proietta, come se la quadrettatura sul muro fosse una fonte luminosa, l’ombra diagonale progressivamente sfumata di una sedia dipinta su un muro. L’ombra è letteralmente una fotografia che rappresenta l’anamorfosi di questo corpo geometrico. Penso sia un caso unico nella pittura olandese.

La prodigiosa vivacità e mobilità della luce è esattamente un avvenimento in un interno costruito per gradazioni d’illuminazione, quadrettato, che preserva (o commenta) grazie a due figure in controluce una relativa immobilità del giorno, dove la penombra fissa le due silhouette del gentiluomo e della cameriera.

Raramente l’invenzione ottica è stata tanto precisa quanto falsa: la luce, entrata senza dubbio dalle alte finestre anteriori, è qui un evento improvviso, che porta con sé l’idea di una velocità in mezzo a questa vita lenta; essa cancella e dipinge. Le tre macchie luminose sono un punto di vista prospettico pronunciato: non entrano in uno spazio geometrico disegnato da angoli retti, una precipita l’effetto di resa prospettica dei quadrati nei trapezi o nelle losanghe, l’altra provoca un evento in una modificazione geometrica dello spazio: queste due pagine di bianco che schizzano in sfumato l’ombra di una sedia sulla parete hanno una forza onirica più che ottica; il riflesso, i quadrati di luce proiettati sul muro hanno un potere di irradiazione davvero fantastico».

Qui la descrizione prende il volo, decolla:

«Eccolo il libro aperto dalle pagine ingrandite che la donna seduta sul bordo di questa trappola di luce sta leggendo, tanto viva e violenta quanto le due macchie accecanti che proiettano la strana ombra capricciosa di un mobile fantasma.

Lo specchio vagamente inclinato riprende con calma la parte geometrica che gli è garantita da un corretto gioco di ottica: inverte due sezioni di strisce di pavimentazione. Tutto lo spazio di questo interno regolato a quadretti, che gestisce pacatamente gli effetti mediocri della luce radente sul suolo e in penombra, questo spazio, questa dimora che mantiene qualcosa di una lanterna opaca, la lentezza e la tranquillità calcolata del giorno in un acquario in cui alloggiano sagome, riflessi e ombre, questa dimora prosaica viene bruscamente strappata o sbilanciata da un evento fantasma: la luce improvvisa, brillante, distorce parte di una stanza, ne deforma un angolo, vi inserisce il film ambiguo di un’immaginazione che opera in primis o solamente con una specie di degradazione della forma; inizia a mangiare l’ombra che essa attacca al vero mobile, risolvendola in un corpo di polvere. Parte felice di un’invenzione e finzione secondaria: si vorrebbe credere che il disturbo della geometria, se non dipendesse da una meccanica ottica, sarebbe legato a un momento di lettura e che il libro aperto nelle mani della donna proietti davanti a lei l’ordine silenzioso, violento e deformato di un punto di vista romanzesco sulla realtà. Non trovo altro modo di commentarlo: una luce senza causa arriva come un evento, essa è almeno modificazione o disturbo di un’assicurazione e di un’immaginazione dello spazio stabile. Prima di cancellare i ruoli o le figure, questa parte abbagliante ripulisce lo spazio e lo svuota di ogni determinazione regolare: un quarto di finzione s’introduce qui come il film di una luce nuda.

Una singola azione in quest’acqua calma, l’ombra di una sedia gettata su un muro dalla luce che rilancia uno specchio, si muove così come il dito di una meridiana si sposta, perde la sua forma e si cancella scandendo l’ora. Una sola traccia asciutta in questo giorno inondato».[1]

Un uomo cammina in un museo immaginario. Osserva i dipinti sfaldarsi e ricomporsi sotto i suoi occhi, come per effetto di un colpo di otturatore. La dimensione spettatrice e insieme immaginaria affianca la descrizione, come in quel trattato di retorica antica, Schemata dianoeas: «enargeia est imaginatio, quae actum incorporeis oculis subicit».

Diverse qualità della luce illuminano queste figure dipinte. Ne escono cose scritte, commentate assecondando le loro proprietà luminose, oppure lasciandosi trasportare da un riverbero, da una sfumatura capace di rivoltare il quadro come un guanto. Pagine di dettagli, intuizioni, invenzioni. Forse esageriamo, ma solo Diderot e Roberto Longhi sapevano fare di meglio.

In copertina: Pieter Janssens Elinga, Interno con gentiluomo, donna che legge e cameriera (ca. 1670)


[1]   Jean Louis Schefer, Carré de ciel, P.O.L., Paris, 2019, pp. 61-64.

scrive, traduce e svolge attività di programmazione cinematografica. È interessato alle frontiere disciplinari. Collabora con la Cineteca di Bologna, per la quale ha curato il dvd “Histoire(s) du cinéma” di Jean-Luc Godard, oltre che rassegne su diversi filmmaker. Il suo ultimo libro si intitola “Copie originali. Iperrealismi tra pittura e cinema” (Johan & Levi, 2014).

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