«Vivere è passare da uno spazio all’altro cercando il più possibile di non farsi troppo male». Lo scriveva Georges Perec in Specie di spazi, uno strano bestiario uscito nel 1974 che invece di specie di animali rari cataloga e descrive specie di spazi frequenti, comuni, noti e forse, proprio perché noti, talvolta non veramente conosciuti. Per chi, come Perec, da bambino figlio di ebrei polacchi era sfuggito all’occupazione tedesca di Parigi grazie alla Croce Rossa, aveva perso la madre in un campo di concentramento, aveva poi fatto il paracadutista durante il servizio militare, questa frase assumeva un senso molto concreto: era la descrizione precisa di un’esperienza esistenziale. E un po’ lo è diventata anche per noi tutti in questi ultimi mesi, in cui il passaggio da uno spazio a un altro, l’attraversamento di spazi e di luoghi è divenuta una questione vitale anche nel quotidiano.
Abbiamo imparato a conoscere intensamente anche il desiderio di «luoghi stabili, immobili, intangibili, mai toccati e quasi intoccabili, immutabili, radicati» di cui parlava Perec in quel libro. Abbiamo, come lui, dovuto ammettere ancora una volta che tali luoghi non esistono. «Ed è perché non esistono» – scriveva ancora Perec – «che lo spazio diventa problematico, cessa di essere evidenza, cessa di essere incorporato, cessa di essere appropriato». Diventa un dubbio, qualcosa che va continuamente individuato, designato, conquistato. Qualcosa di fragile, soggetto all’azione distruttiva del tempo, all’inaffidabilità della memoria, ai mutamenti inaspettati della vita. Scrivere era per Perec la possibilità di agire contro questo avanzare del vuoto, di lasciar sopravvivere qualcosa, di lasciare tracce, di tener vivi spazi e luoghi che abbiamo abitato. O di farli apparire diversamente, o di ricrearli abitandoli diversamente, percorrendoli in modo nuovo, rappresentandoli o ricordandoli come non avevamo mai fatto prima. Per Perec il primo spazio è la pagina: «Lo spazio comincia così, solo con delle parole, segni tracciati sulla pagina bianca». L’Aleph, «questo luogo borghesiano in cui il mondo intero è simultaneamente visibile», per lui non è altro che l’alfabeto. Ma lo spazio può anche essere letto «come uno spartito», ha detto una volta Bruce Chatwin parlando delle vie canti degli aborigini australiali in Songlines (1987). Lo spazio può prendere forma e continuare a vivere e trasformarsi anche nell’ascolto e nelle voci che nominano le cose e i luoghi del mondo.
È a questa possibilità che si è affidato Fabio Condemi per progettare un ciclo di dieci trasmissioni radiofoniche ispirate ai capitoli del libro di Perec e andate in onda su Radio India, il palinsesto concepito e realizzato dalle compagnie residenti al Teatro India-Teatro di Roma per rispondere al blocco forzato del lavoro teatrale. È un esperimento, è il tentativo di proseguire il lavoro teatrale su altre rotte per ampliare quello spazio che chiamiamo teatro. Il teatro chiuso dalla pandemia ha prodotto una radio che ha molto del teatro, di un teatro fatto del montaggio di voci molteplici, di un teatro che si lascia volentieri ispirare da testi non teatrali. Come ha fatto Fabio Condemi con il suo Jacob von Gunten, uno degli spettacoli più belli prodotti in Italia negli ultimi anni, e con queste trasmissioni ispirate al bestiario spaziale di Perec, in cui dà spazio alla musica e alla letteratura, all’architettura e al teatro, al cinema e alla pittura, al comic strip e al design. Il montaggio è splendidamente curato da Alessandra Cimino, mentre Gabriele Portoghese ha contribuito con le sue intense letture e i consigli musicali. I due testi che qui si propongono sono stati trasmessi nella seconda puntata, dedicata al Letto e nella quarta, dedicata all’Appartamento.
Francesco Fiorentino

I letti di Kafka
Un giovane che attraversa l’ingresso di un edificio, si affaccia sulla strada e vede che fuori piove. Allora resta lì, su quella soglia, si attarda a osservare la gente che cammina: una ragazzina, due signori che parlano, un giovanotto col bastone, le carrozze, i passeggeri che guardano fuori, la strada, i negozi, i pedoni.
Il giovane si chiama Eduard Raban ed è il protagonista di un racconto incompiuto di Kafka: Preparativi di nozze in campagna. Kafka lavora a questo racconto tra il 1907 e il 1909 producendone tre versioni, tutte e tre frammentarie. Tutte e tre cominciano con questa stessa scena, con quel giovane che si ferma a lungo sull’uscio prima di decidersi a uscire. Ha l’ombrello, ovviamente, e una valigia. Sta andando alla stazione, per prendere un treno che lo dovrà portare dalla fidanzata, in campagna, per passare con lei le due settimane di ferie che lo aspettano e forse, come suggerisce il titolo, per iniziare o portare avanti con lei preparativi per le sue nozze.
Sono note, a ogni lettore di Kafka, le paure, le resistenze, le tenaci ambivalenze che quest’autore provava verso il legame matrimoniale. E anche il suo personaggio sembra provarle, perché fa di tutto per procrastinare l’uscita in strada, sotto la pioggia; perché anche dopo essere uscito continua a temporeggiare, osservando attentamente tutto quanto accade intorno a lui, come a voler fermare il tempo, mentre cammina sotto la pioggia, anzi: mentre si sente costretto a camminare sotto la pioggia, mentre vorrebbe starsene a casa.
Pensa al suo lavoro in ufficio, dove «si fatica tanto che alla fine si è troppo stanchi anche per godersi le ferie», pensa Raban, continuando a osservare la gente camminare sotto la pioggia, con i loro ombrelli, i carri che passano, i cavalli che corrono. Osservare è un’azione di differimento, un’azione fatta per ritardare un dovere che lo opprime, è tempo che si prende per sé, sospendendo i suoi obblighi, che pesano su di lui, che lo sfiniscono. È infinitamente stanco, stanco perché nonostante tutto il lavoro in ufficio si sente un estraneo, uno straniero. Si sente troppo stanco persino per arrivare alla vicina stazione. Si chiede perché non restare in città, a trascorrere quelle settimane di vacanza e a riposarsi. Immagina tutte le possibili, probabili e improbabili contrarietà e spiacevolezze che gli procurerà o potrà procurargli quel soggiorno in campagna: la camera che certo non sarà confortevole, il clima ancora rigido, la compagnia non piacevole. Non si sentirà a proprio agio e sicuramente si ammalerà. Sa di far male a partire ma non riesce a evitarlo.
Cerca di farsi coraggio, si dice che sarà per un tempo limitato, si ricorda di uno strategemma che usava da bambino per affrontare le situazioni difficili e che potrebbe adottare anche ora: immagina di mandare in campagna, dalla fidanzata, soltanto il suo corpo vestito, mandarlo a patire tutto quel che c’è da patire in campagna, mentre lui se ne sta a letto, sotto una bella coperta calda.
A letto, sotto una bella coperta calda, con un’arietta fresca che viene dalla finestra socchiusa: l’immagine di uno spazio protetto e felice.
Il letto può essere metafora di molte cose: può essere luogo simbolico di regressione o di fuga, un posto per sottrarsi al mondo, per riposare, dormire, per oziare, per leggere o anche per scrivere. Può essere anche un luogo politico, un luogo di protesta come lo fu nel leggendario “bed in” che John Lennon e Yoko Ono misero in scena nel 1969. Luigi XIV si dice che abbia governato dal letto.
Ma il letto è soprattutto un luogo privato, un luogo dell’interiorità, un luogo anche della disintegrazione della coscienza nel sonno e nel sogno. Una volta era un privilegio per pochi. Oggi è un privilegio per molti. Di cui però non tutti godono. Molti lo hanno perso, per esempio tutte quelle donne e quegli uomini in fuga che oggi cercano asilo da qualche parte. Forse a caratterizzare la condizione del profugo è proprio questa mancanza: la mancanza di un letto, di un luogo in cui ritirarsi, in cui disertare dal mondo, in cui sottrarsi al potere di ciò che ci circonda e ci assedia. Il profugo è chi non ha un letto, chi non ha un luogo proprio. La condizione di profugo consiste forse proprio in questa impossibilità di rendersi irreperibile rispetto a ciò che succede, a ciò che ci viene imposto, a ciò che si pretende da noi. Essere profugo significa essere sempre esposto, senza protezione, allo sguardo degli altri che – come dice Eduard Raban – tendono a occupare interamente lo spazio che ci circonda. Allora si tratta di trovare un modo per respingerli un po’ indietro, per riconquistare un po’ di spazio proprio, dove si può essere come si vuole, anche debole e silenzioso, dice Raban.
Il letto in cui egli immagina di poter restare mentre il suo corpo va in giro a patire, a piangere, a singhozzare per lui, è la metafora di uno spazio mentale in cui le contrarietà, le ansie, le asperità, le inclemenze e forse anche le nostre stesse resistenze non avranno più tanta presa su di noi. Uno spazio psichico che serve a alleggerire il peso dell’esistenza quando qualcosa nell’esistenza diventa un peso troppo grande. Uno spazio proprio che è soprattutto uno spazio interno. A ogni difficiltà da affrontare si può dire a noi stessi che non si è soltanto là, in quel posto, ma che una parte di noi è altrove, che siamo anche dove non siamo, che abbiamo questa capacità di non essere soltanto nel luogo in cui siamo, che la nostra esistenza trascende il qui e ora.
Per Eduard Raban – e forse per Kafka stesso – il letto sembra essere questo rifugio di fronte all’invadenza del mondo, una di quelle immagini dello spazio felice di cui parla Gaston Bacherlard nella sua Poetica dello spazio (1957). Li chiama spazi amati, spazi di possesso, difesi contro forze avverse,dimore dell’intimità costruite e abitate dalle «nostre intime rêveries». Il letto in cui Raban immagina di restare è un luogo simile, un luogo dell’immaginario, ma anche concreto, un luogo dove si dimora o si torna a dimorare in se stessi, qualcosa come il primo universo di ogni individuo.
Una delle mosse più strane, affascinanti e geniali di Kafka sta nell’aver associato, anzi legato strettamente questo spazio felice, questo spazio di possesso interno, questo nucleo intimissimo dell’io, alla dimensione dell’animalità. Quella parte dentro di noi che non è nel nostro corpo e che è capace di sottrarci all’invadenza del mondo e della coscienza, quella parte di noi stessi che viene prima del sociale, che viene prima dello spazio domestico e che anzi da esso è insediato, questa parte di noi è per Kafka una parte animale. E il suo posto è il letto. Dice Raban che quando resta a letto, mentre manda in giro il suo corpo vestito, deve «avere la forma di un grosso coleottero, di un cervo volante o di un maggiolino».
Ma Kafka non sarebbe Kafka se non ci dicesse che questo spazio felice interno è sempre minacciato, e lo è perché è uno spazio sociale, perché anche l’intimità più intima è comunque immersa nel sociale, cioè non dipende solo da noi, ma da forze che non siamo noi a governare, che vengono dall’esterno, ma anche dall’interno di noi stessi. Chi se ne sta a letto ha nemici esterni, come gli obblighi che gli impediscono di restarvi, ma anche nemici interni, come gli incubi che lo possono sempre visitare.
L’immagine del grande coleottero che se ne resta a letto, nei Preparativi di nozze in campagna, è la cellula germinale di quella che è forse l’opera più nota di Kafka: La metarmofosi. L’idea per questo racconto gli viene a letto, come l’autore scrive a quella che sarà la sua fidanzata, Felice Bauer, il 17 novembre 1912. L’incipit del racconto è uno dei più celebri della letteratura mondiale. Il racconto inizia con Gregor Samsa che svegliandosi una mattina da sogni inquieti si ritrova trasformato, nel suo letto, in un insetto enorme. Ma mantiene la sua identità di essere umano. È soltanto il corpo, quel corpo che Raban vuole mandare in giro a svolgere i suoi doveri, che si è trasformato nel corpo di un insetto. E nessuno sembra meravigliarsi più di tanto. L’impossibile irrompe nel reale e pare non inquietare in fondo nessuno. Neanche lui. Che è solo preoccupato del lavoro, dei suoi doveri lavorativi e familiari, delle reazioni del suo datore di lavoro e dei suoi genitori. Spera ancora che gli altri non si accorgano di niente e lui possa avviarsi verso la stazione per andare a lavorare. In realtà è oppresso da quell’impiego di commesso viaggiatore che lo costringe sempre a lasciare il suo letto, ma è obbligato a praticarlo per pagare i debiti di famiglia.
Il desiderio di sottrarsi a tutto questo non è espresso ma è palese. Quella metamorfosi è una punizione per essersi svegliato in ritardo, ma ancora di più è una rivolta, è la rivendicazione di uno spazio proprio, intimo, uno spazio di possesso protetto dall’invadenza di forze avverse, come dice Bachelard. Uno spazio che si può ritrovare solo come insetto, avrà pensato Gregor Samsa, uno spazio che si può trovare soltanto nella forma di un essere repellente, che gli altri sfuggono, che vogliono cacciare via e che quindi non possono più sfruttare. L’animalità è questo spazio finalmente libero che può diventare una prigione, perché è uno spazio che si sottrae alla socialità, che viene prima della socialità, e forse dell’identità stessa. È incomunicabile, ma proprio per questo porta a un isolamento che è letale. Il letto dell’animalità – questo rifugio ultimo nel fondo non umano dell’individualità – è un letto che anche può uccidere, se da esso non ci si rialza continuamente.

Gli uffici di Kafka
«Qualcuno doveva aver calunniato Joseph K., perché, senza che avesse fatto nulla di male, una mattina venne arrestato». Chi ama Kafka lo ha già riconosciuto: è l’inizio del Processo, uno degli incipit più belli della letteratura mondiale. Joseph K. è un funzionario di banca, e un giorno, al risveglio, si trova in camera questi strani tipi che lo dichiarano in arresto per non si sa quale accusa, che si mangiano la sua colazione, che cercano di impossessarsi della sua biancheria, mentre dalla finestra di fronte altre persone osservano tutta la scena.
È una profanazione del suo spazio privato. Joseph K. si sente aggredito in casa sua. Ma quella in realtà non è neanche casa sua. Una delle cose strane di questo romanzo pieno di stranezze e di misteri è il fatto che un alto funzionario di banca non abbia un appartamento proprio, ma abiti da pensionante insieme a altri pensionanti presso una certa signora Grubach. Alla quale commentando l’accaduto dice poi che in banca una cosa simile non gli sarebbe potuta accadere, perché là ha un usciere personale, ha il telefono per l’esterno e l’interno sulla scrivania, ma soprattutto perché là è «sempre alle prese con il lavoro, quindi presente a me stesso».

È dunque l’ufficio lo spazio in cui è presente a se stesso, lo spazio della stabilità, lo spazio su cui si fonda il suo senso di identità, di sicurezza. L’ufficio, non la casa. In ufficio lo ritroviamo quando non è in giro per la città, lo ritroviamo a riposare, a riflettere, guardando fuori dalla finestra: qui è lui a guardare dalla finestra, mentre a casa sua sono gli altri che lo guardano dalle loro finestre, persino quando è a letto. È un mondo capovolto: è a casa che si è esposti agli sguardi e all’irruzione degli altri, mentre in ufficio si ha tempo e spazio per raccogliersi, per pensare. In ufficio si trova quello spazio dell’introspezione che in verità si dovrebbe trovare a casa, nel proprio appartamento. È invece le parti sembrano essersi invertite.
Kafka registra un momento cruciale nella storia degli spazi: il momento in cui il rapporto tra la casa e l’ufficio sembra, appunto, ribaltarsi.
L’ufficio è un’invenzione recente. Che avviene verso la fine dell’Ottocento, dopo la rivoluzione industriale, dopo il boom che questa porta del settore terziario, cioè dell’amministrazione pubblica e privata. Nascono così questi nuovi spazi per il lavoro che sarà detto, appunto, d’ufficio. E in fondo per la prima volta si crea una vera opposizione tra spazio privato e luogo di lavoro. Il primo si costituisce come interno borghese, ha scritto una volta Walter Benjamin a proposito di Luigi Filippo o l’«intérieur». Mentre il luogo di lavoro per sempre più persone diventa l’ufficio, che è il posto in cui «il privato cittadino fa i conti con la realtà». L’interno borghese, invece, la casa, diventa il luogo che il privato cittadino costruisce per poter «coltivare le sue illusioni», un rifugio dell’interiorità, uno spazio protetto, intimo, segnato dalle tracce del proprio vissuto.
È uno spazio di compensazione, chiamato a fare da contrappeso a un nuovo senso di insicurezza sociale e anche esistenziale. Perciò questo spazio privato, interno, è da sempre assediato dalla sua crisi. E in crisi infatti ci entra presto. Presto «l’epicentro reale dello spazio vissuto si trasferisce nell’ufficio», scrive ancora Benjamin. Non la casa, ma l’ufficio è lo spazio del quotidiano, lo spazio non casalingo del quotidiano, lo spazio in cui un esercito di impiegati e segretarie passa la maggior parte del tempo.
Magari vivono in casermoni di periferia, in pochi metri quadri, mal riscaldati e illuminati, ma la mattina si mettono in giacca e cravatta o in tailleur, prendono il tram e vanno in ufficio. Lì l’ambiente è più pulito, più confortevole, luminoso, riscaldato, razionale, in una parola: più moderno. Così quello – e non più l’interno borghese – diventa lo spazio in cui coltivare illusioni e sogni. Sogni di una vita migliore, di una vita moderna. L’ufficio usurpa all’interno borghese la sua funzione. Diventa spazio dell’interiorità e della fantasticheria: ma di un’interiorità e una fantasticheria completamente asserviti ai valori dell’efficienza, della produttività, del successo nella lotta per primeggiare.
Appunto questo è per Joseph K. il suo ufficio in banca: non solo un luogo di lavoro, ma anche un posto tranquillo dove starsene a guardare fuori dalla finestra seguendo i propri pensieri oppure dove abbandonarsi alle proprie fantasie disteso sul canapé. Tutte cose che a casa non può più fare; tutte cose che può fare soltanto in ufficio in momenti rubati al lavoro. Di nascosto.

Ecco un altro tema, un altro tema di Kafka e della nostra attualità. La difficoltà crescente a fare cose di nascosto, a serbare qualcosa di segreto. A un certo punto Joseph K., in una chiesa, si sente chiamare per nome da un sacerdote che non aveva mai visto prima e si chiede come faccia a conoscerlo, e ricorda quanto «era bello presentarsi ed essere conosciuto solo dopo». La sua identità, la notizia del suo processo sembrano essere di dominio pubblico. Non è solo un incubo o una realtà dei tempi di Kafka: tutto ciò che è privato diventa di dominio pubblico. Ogni segreto è divenuto impossibile. Ma a costituire lo spazio del privato non è proprio il segreto, la possibilità di serbare per sé qualcosa che resta inaccessibile agli altri?
Una volta si potevano avere segreti davanti agli altri, ma non davanti a Dio, che vedeva e sapeva tutto. Poi è venuta la completa secolarizzazione e il privato cittadino ha acquistato il controllo sul suo segreto: nessuno sa quel che lui non vuol rendere pubblico di sé. Con la nuova omniscenza digitale quel controllo sembra di nuovo perduto. Ci sono in gioco istanze che sembrano sapere o poter sapere tutto di noi, che sembrano addirittura sapere di noi più di quello che noi stessi sappiamo. Come il tribunale nel Processo di Kafka.
In questo romanzo scritto più di cent’anni fa Kafka registra anche un altro movimento degli spazi che porta fino ai nostri giorni. Lo fa ad esempio quando manda Joseph K. alla ricerca degli uffici del tribunale che lo ha tratto in arresto. Il malcapitato non riesce mai a entrarvi, in questi uffici, e non riesce neanche a capire lontanamente come funzionino, in base a quali criteri prendano le loro decisioni. Tutto resta impenetrabile: accusa, sentenza, procedure. Non ci sono motivazioni, non si conoscono i principi in base ai quali il tribunale giudica, spicca mandati d’arresto, pronuncia sentenze. Solo dicerie.
Kafka è un profeta della burocrazia, cioè di una forma di potere esercitata dagli uffici. All’università Kafka entra in contatto con il professore di sociologia Alfred Weber, che della burocrazia dà una definizione molto precisa. La definisce un «immenso apparato» che tende a assorbire «le parti della nostra esistenza… nelle sue camere, nei suoi comparti e sottocomparti».
In effetti quello che si fa negli uffici è questo: non si trasformano materie prime in merci, ma si categorizzano i fenomeni della vita. Gli uffici sono luoghi in cui il pullulare del mondo, il disordine della vita è ridotto a una massa di dati discreti – dati anagrafici, medici, clinici, finanziari – che poi vengono utilizzati a determinati scopi. Il cliente di una banca, un richiedente asilo, un malato, un contribuente entrano in un ufficio non in quanto individui, ma vi entrano solo trasformati nei dati necessari a sbrigare il loro caso. La vita viene trasformata in un moduli compilati o pratiche da sbrigare e archiviare. E questo secondo procedure che restano oscure – come il processo di Joseph K.
L’ufficio, visto dal di fuori, è una scatola nera in cui al massimo possiamo vedere quel che quel che entra o aspetta di entrare e forse quel esce, ma non cosa avviene il suo interno. L’ufficio è un black box, diceva Hartmut Böhme. Un black box come il tribunale nel romanzo di Kafka – e come il computer.

Il computer comincia a nascere con la creazione dell’ufficio, possiamo dire un po’ esagerando. È con l’ufficio che comincia a nascere il computer, o almeno il principio che lo rende pensabile. La tecnologia digitale è un potenziamento estremo delle tecnologie burocratiche. Anzi, continuando a esagerare, possiamo dire che l’ufficio è anche da un punto di vista spaziale un antenato del nostro computer. Perché è uno spazio lavorativo parallelo a ogni altro spazio lavorativo. Ci sono uffici nelle fabbriche, nelle officine, negli ospedali, ovunque. Il computer porta al compimento ultimo questo carattere ubiquitario dell’ufficio. Con il computer l’ufficio diventa portatile, non è più legato a un luogo. Può essere sempre con noi. Anche a casa. I due spazi, quello della casa e quello del lavoro, l’appartamento e l’ufficio, si compenetrano. Mai più come in questi tempi di telelavoro ce ne rendiamo conto. L’ufficio invade il nostro spazio privato, come già da tempo le pratiche burocratiche invadono i nostri lavori.
Kafka ha sperimentato un modo tutto suo per difendersi da quest’invadenza. Era giurista, per quindici anni è stato funzionario in un ente parastatale contro gli infortuni sul lavoro. Di giorno scriveva i suoi documenti burocratici, di notte i suoi racconti e i suoi romanzi. Si sentiva dilaniato tra la scrivania di scrittore da una parte e quella dell’ufficio dall’altra. La scrivania, che è il centro dell’ufficio, comincia a vivere con lui una vita onirica: una vita letteraria che diventa per lui l’ultimo possibile spazio dell’intimità. Ma quella notte continua a essere insediata da sogni e incubi che vengono dal mondo dell’ufficio. Neanche la letteratura può – né forse vuole – restituire l’illusione dello spazio privato perduto.
In copertina: una scena di The Trial, di Orson Welles (1962)