Eleonora Marangoni. Vedere il mondo di spalle

17/07/2020

Nelle pagine di Viceversa. Il mondo visto di spalle (uscito il 2 luglio per Johan & Levi) è contenuta una parte della collezione privata di Eleonora Marangoni. Una galleria di immagini, un’esposizione immaginaria in cui si evolve di sala in sala accompagnati da una voce sensibile. Indugiando su un’opera e un dettaglio, ci lascia avvicinare a un corpus di immagini che sembra indifferente alla nostra premura scopica. Perché Viceversa è composto solo da figure di spalle. Nelle arti visive (pittura, fotografia, cinema) come nella letteratura, senza dimenticare affreschi e murales, fumetti e caricature, disegni e vasi.

Un fenomeno raramente trattato nella sua complessità. Due i testi che mi vengono in mente: Figure di schiena (doppiozero 2013) di Luigi Grazioli, che si focalizza sulla pittura tra Quattrocento e Seicento e L’Homme de dos. Peinture, théâtre (Adam Biro, Paris 2000) di Georges Banu, che insiste sulla pittura e il teatro, ripreso in un bell’esergo dall’autrice: “Un viso si legge come una notizia, una schiena come una poesia”.

Ci vuole poesia infatti per descrivere queste figure che hanno perso la faccia, figure distratte, disubbidienti o discrete nel loro lasciarsi osservare senza essere viste.

Icono-testo in cui si accavallano descrizioni e immagini, Viceversa rispecchia le inclinazioni dell’autrice, che si muove agilmente tra letteratura (Lux, Premio Neri Pozza 2017, Premio Opera Prima 2019, candidato al Premio Strega 2019) e storia dell’arte (Proust. I colori del tempo, Electa 2014 sul rapporto tra parole e colore nello scrittore francese). Un icono-testo al quadrato, se una delle scintille di Viceversa è la copertina di Nove racconti di J.D. Salinger (Einaudi 1962) con una figura di schiena in bella mostra.

Non vanno sottovalutate queste figure di schiena. Capo-volgono tante nostre certezze di spettatori, instillando il dubbio di trovarci dalla parte sbagliata, di non essere padroni della visione dove qualcosa ha senso se è assieme sensato e orientato.

Viceversa continuerà sui social media in una pagina Instagram dedicata (viceversa_2020) che, ogni giorno e per un anno, posterà immagini di figure di spalle non incluse nel libro. Ma da dove viene questa monomania, questa fissa per le nuche? Non restava che discutere con Eleonora Marangoni.

Riccardo Venturi

Un atlante di immagini

R.V. – Viceversa è al principio una collezione di immagini raccolte nel corso di diversi anni: questo è quanto il lettore apprende sin dall’introduzione. Nel libro – un viaggio in 122 immagini – mi sembra che una delle tue prime preoccupazioni sia stata quella di come rendere visibile per i lettori questa collezione stratificatasi nel tempo. E nei traslochi da una casa all’altra.

Immagino queste riproduzioni di figure di spalle sparigliate a terra e tu che, come l’André Malraux del museo immaginario (tra l’altro esiste anche una foto dove è ripreso di spalle), cerchi i nessi e le assembri creando – e disfacendo – tassonomie visive e concettuali.

Partirei insomma da quanto precede Viceversa: come raccontare una collezione o quella che tu chiami “monomania”? Come rendere un archivio intimo – afferente alla sfera privata e quindi non visibile – un atlante che si espone e si apre al mondo?

E.M. – Oltre alle immagini fisiche – fotografie, cartoline, poster… – di cui mi ero andata pian piano circondando, molte figure di spalle erano anche immagini digitali; JPG salvati nella cartella download, foto scattate in vari posti e musei del mondo, o anche solo a passanti in strada o ad amici durante un viaggio. Quindi diciamo che la collezione era doppia: virtuale e digitale. Come racconto nell’introduzione, non era una neppure una collezione: il collezionista è per definizione “cosciente” di quello che sta facendo, ha un obiettivo: alimentare la sua raccolta, darle un senso e un ordine. Io invece a lungo ho solo ubbidito a un istinto. 

Fotografavo spesso persone di schiena, tornavo a casa con poster o quaderni o addirittura barattoli di marmellata le cui etichette raffiguravano persone riprese di spalle; archiviavo foto di Ghirri, quadri di Gnoli o di Gideon Rubin sul desktop, ma senza uno scopo preciso. Queste non erano le uniche immagini che alimentavano il mio immaginario: con le immagini ci lavoro, ne sono dunque spesso circondata, ma senza dubbio per le figure di spalle avevo sviluppato una predilezione.

Quando in seguito ho avuto l’idea di questo libro, il modo di procedere è stato diverso. È lì che il processo è diventato razionale. Ho selezionato le immagini più interessanti, cercando un filo rosso tra quelle che già conoscevo e altre di cui sono andata in cerca, nel tentativo di costruire un discorso che rispondesse ad alcune domande che mi ero fatta: cosa significano queste immagini per me? come mai mi dicono tanto? che ruolo hanno avuto nella mia vita, e che ruolo hanno avuto nella storia dell’arte?

Malick Sidibé, Vues de dos, 1998

Figure di schiena

Alla ricerca di questo filo rosso, assieme alle figure di schiena mi ha sorpreso imbattermi in animali e persino in cose. La nozione di “figura” sembra abbastanza ampia da permetterti di includere, e a volte addirittura di affiancare a figure umane, cavoli (Edward Weston) e cavalli (Théodore Géricault), o ombrelloni da spiaggia (Luigi Ghirri). Fino alla perfetta mise en abyme dei quadri stessi quando non sono esposti contro la parete, come nel caso di Lina Bo Bardi alla piancoteca del Museu de Arte de São Paulo. Come sei arrivata a includere, nella tua collezione e, di riflesso, nel corpus (umano e non-umano) di Viceversa, quelle cose che spalle non hanno? Alcune hanno un recto e un verso ma altre sfuggono completamente alla polarità frontalità/dorsalità.

Sono convinta che, a modo loro, anche gli oggetti conducano una loro esistenza, non siano insensibili all’ambiente in cui si trovano e nel quale vengono lasciati e percepiscano in qualche modo quello che c’è intorno a loro. In questo senso, anche un ombrellone da spiaggia nella mia testa è dotato di un fronte e di un retro: il suo sguardo è rivolto al mare, naturalmente, come ogni cosa del resto in una spiaggia. L’ombrellone solitario scattato da Ghirri per me non è così lontano dal contemplatore romantico alla Caspar Friedrich. Ancora più struggente forse, perché condannato all’immobilità.

Gideon Rubin, Untitled, 2012

Credo che nel mondo esistano delle polarità, dei centri di attrazione che richiamano lo sguardo degli uomini, ma anche degli animali e delle cose. E alcuni grandi artisti ci mostrano proprio questo: che, oltre a noi, anche le cose, gli oggetti parlano. Non solo di schiena, naturalmente: penso a tutti i lavori di still life di Irving Penn, alle nature morte di Chardin, alle magnifiche foto vegetali di Charles Jones. Flaubert diceva: “Ogni cosa è interessante, basta osservarla abbastanza a lungo”: credo sia un ottimo punto di partenza quando si intraprende un lavoro di questo tipo.

Come racconto anche nel libro, Edward Weston iniziò a scattare foto di cavoli nel 1927, e la sua ricerca andò avanti per nove anni. Nel 1930, un anno prima della foto riprodotta in Viceversa, scrisse: “Il cavolo ha risvegliato la mia attenzione. […] Nel cavolo percepisco il segreto della forza della vita; un cavolo mi confonde, mi emoziona. Rappresentandolo, posso comunicare agli altri perché la sua forma è proprio questa e non un’altra, e quale relazione questa forma intrattiene con tutte le altre”.

Senza nessuna retorica, credo sia da qui che si debba partire: dal presupposto che poco cambia se il nostro oggetto di studio siano persone, animali o oggetti. Alcune cose ci parlano, ci trasmettono qualcosa, e di quell’intuizione possiamo fidarci, da lei possiamo lasciarci guidare.

Lo sguardo di Ghirri

A proposito di Ghirri, mi rendo conto che è uno degli artisti che attraversa tutto il tuo libro, ogni volta con tipologie visive diverse (ombrellone, visitatori dei musei, vacanzieri, politici nel mezzo di un comizio) e con i suoi scritti. C’è qualcosa nella sua fotografia, se non nella sua poetica, che tocca non solo il tema delle figure di schiena ma anche il tuo modo di lavorare a Viceversa o la tua sensibilità verso le immagini?

Sono figlia unica, quando ero piccola con i miei abbiamo viaggiato parecchio, ma anche quando stavamo in casa mi piaceva andarmene in giro a far foto qui e là. Ai tempi del liceo mi facevo regalare spesso quelle kodak uso e getta che si portavano a sviluppare dall’ottico, e fotografavo cose a dir poco banali. Quasi mai persone, va detto: mi piacevano invece le tende, i comodini, le foglie, i sassi, le sedie vuote. Le mie foto, neanche a dirlo, erano tutt’altro che dei capolavori, ma nascevano da un interesse autentico, da una specie di devozione al quotidiano e all’apparentemente banale di cui Ghirri poi è stato maestro. Niente di originale in questo, me ne rendo conto, ma è andata così. E quando, molti anni dopo, ho scoperto la sua fotografia, è stato come se qualcuno mi dicesse: vedi, quel mondo che cercavi di catturare con le tue kodak da quattro soldi esiste, lo ha esplorato lui in lungo e in largo, eccolo qui. Arriva da un altro tempo e da un altro spazio, ma è lo stesso. La stessa cosa mi è successa tempo dopo con le foto di Stephen Shore. Sia lui che Ghirri avevano un modo di fotografare che assomigliava al mio modo di guardare il mondo. Succede con scrittori, fotografi, registi e pittori: insomma con i grandi artisti. È come se ti svelassero attraverso il loro sguardo una cosa che tu in realtà già conosci, che ti porti dietro da quando sei nato ma che non sai esprimere. Ti raccontano un mondo che in parte è anche il tuo, ma lo fanno con i loro mezzi, inseguendo la loro personale idea di esattezza e di grazia. Si possono poi ammirare artisti lontanissimi da noi, naturalmente, e non significa amarli di meno. Ma con alcuni è come se avvertissimo una vera e propria prossimità, una rapporto quasi intimo di corrispondenze.

Luigi Ghirri, Polaroid, 1979

In Francia, anche se in parte era già noto a una élite, il grande pubblico Ghirri l’ha scoperto grazie a una mostra fatta al Jeu de Paume l’anno scorso. Ho ritrovato la stessa sorpresa, la stessa commozione nei commenti di alcuni miei amici, la sensazione che gli venisse finalmente svelato un mondo che in realtà conoscevano già. Anche se una parte del suo lavoro è estremamente italiana, legata a una precisa idea di provincia e di quotidianità, il sentimento delle sue foto è trasversale, viaggia lontano nello spazio e nel tempo. E con le figure di spalle ha molto a che fare, come lui stesso racconta nei suoi scritti.

Scrivere le immagini

A proposito dei tanti modi di guardare il mondo, chi non proviene dalla storia dell’arte – in quanto disciplina oggi moribonda, ahimè – si pone spesso davanti alle immagini con uno sguardo e una scrittura innovativi. In Viceversa adotti diverse strategie retoriche: descrivi le immagini, le narrativizzi, t’interroghi sulle intenzioni di chi le ha realizzate ma anche dei soggetti rappresentati come se fossero protagonisti di un racconto. Sei spettatrice a volte discreta, che sa mantenere la distanza critica di sicurezza, altre volte impertinente, come se volessi vedere il volto di quella figura che ti volge le spalle.

Forse dipende dalla natura della collezione-corpus di Viceversa, perché l’immagine di una figura di spalle è anche, in qualche modo, un’immagine che dà le spalle a chi è preoccupato solo d’interpretarla.

La scrittura di Viceversa è sempre sensibile alla facies (si j’ose dire) visiva. Immagino che il tuo sguardo sia filtrato tanto dalla letteratura che dalla storia dell’arte, forse da una terra di mezzo che resta ogni volta da esplorare. Mi vengono in mente due autori che citi, prossimi, mi sembra, a come vedi e scrivi le immagini: Daniel Arasse e John Berger…

Mentre scrivevo ho cercato di mantenere un equilibrio tra narrazione personale e indagine artistica. Spero di esserci riuscita. Il campo della storia dell’arte è un grande terreno di esplorazione di stili e tonalità diverse di racconto. Sei davanti alla Gioconda: in quanti modi puoi descriverla? Esiste davvero uno che sia quello più giusto? È una domanda affascinante, perché il racconto dell’opera d’arte è la somma di (almeno) tre soggettività, quella dell’artista, quella del critico e quella del lettore. Non può esserci davvero oggettività, e quindi tanto vale giocare un po’, procedere per analogie e scommettere sui punti di contatto. Oltre a Berger e Arasse mi vengono in mente autori come Victor Stoichita, lo stesso Roberto Longhi, o ancora il tono colto ma mai spocchioso di un divulgatore come Matteo Marangoni, che aveva una voce modernissima già negli anni ’50. Non credo di innovare in alcun modo, in questo senso, semplicemente ho cercato una voce adatta a esprimere quello che stavo facendo. Il percorso è quello di una curiosa che si avvicina a una tematica vasta e potenzialmente infinita, guidata da un’intuizione o meglio da una piccola ossessione, ci si tuffa dentro e prova a restituire a chi legge le cose che ha capito, o anche solo a raccontare le bellezza di alcuni misteri destinati a rimanere tali.

Fairfield Porter, The Cove, 1964

Rückenfiguren

Quella che chiami “piccola ossessione” ha trovato il suo luogo deputato nel museo, su cui non manchi di rivenire in Viceversa, da Degas a Stefan Draschan passando per Thomas Struth. Luogo deputato dalla modernità per osservare le opere d’arte e che tale resta (malgrado il passare del tempo o l’institutional critique), il museo è anche quel luogo in cui ci si imbatte senza requie in figure di spalle nell’atto di vedere un’opera.

Possiamo provare fastidio per questi visitatori che ostruiscono il nostro sguardo, il rapporto intimo tra noi e l’opera. Ma possiamo anche identificarci col loro assorbimento visivo che osserviamo – dal di fuori – una messinscena delle soggettività coinvolte nel racconto di un’opera d’arte cui accennavi prima: artista, critico e lettore.

Ho sempre pensato che alcune figure di spalle, come la celebre Rückenfigur di Friedrich che tratti in uno dei capitoli più densi, suggeriscano – se non addirittura intimino – allo spettatore un modo di approssimarsi all’immagine. Come se un dipinto includesse al suo interno il codice per accedere al suo segreto. A questo punto la figura di spalle esercita una forma di discrezione ma, non so se sei d’accordo, fornisce, per così dire, anche delle istruzioni. Come se nella Rückenfigur Friedrich non si limitasse a dire: “ecco un paesaggio montano”, ma “fai bene attenzione! Ecco come devi guardare questo paesaggio montano!”.

È esattamente così. Attraverso il viandante, Friedrich ci mostra non soltanto il mare di nebbia, e come un mare di nebbia dovrebbe essere guardato da un uomo provvisto di una vita interiore. Lo fa però senza mostrarci il volto di quest’uomo, ma solo la sua posa, il modo che ha di abitare lo spazio che gli sta intorno. Per spingerci a identificarci con quella figura, e soprattutto per sottolineare che il vero soggetto del dipinto non è un uomo che osserva un panorama, ma la relazione che lega quell’uomo a quel paesaggio. E forse, in questo senso, se il dentro è influenzato dal fuori, vale anche il contrario: il sentimento malinconico e contemplatore non arriva solo dal viandante, ma dal paesaggio stesso, in un gioco senza fine di riflessi e rimbalzi.

Inoltre, le rückenfiguren ci costringono a immaginare di continuo: un volto, un’espressione facciale, la qualità di uno sguardo. Sono figure ‘esigenti’, ma anche indifese, si cui proiettiamo le nostre visioni del mondo, le nostre malinconie e i nostri desideri. Sugli obblighi cui ci sottopongono (e le possibilità che ci regalano) ha giocato ad esempio Sophie Calle, che per il suo progetto Voir la mer ha portato su una spiaggia alcuni abitanti delle zone interne di Istanbul, che non avevano mai visto il mare. Queste persone vengono riprese mentre osservano di spalle per la prima volta l’orizzonte di fronte a loro e poi non appena si voltano, col primo sguardo col mare negli occhi. Alcuni sono commossi, altri sembrano tutto sommato indifferenti, alcuni felici e altri quasi inconsolabili. Lo avremmo immaginato, vedendole di spalle? Oppure no? È bello domandarselo mentre le si osserva. In questo modo, Sophie Calle celebra la rückenfigur e in qualche modo la oltrepassa, mostrandoci una traccia nascosta, il lato segreto di cose che per definizione sarebbero destinate a rimanere tali.

Gerhard Richter Betty, 1988

Il bello velato

È sorprendente pensare alla natura poliedrica delle figure di schiena. Le rückenfiguren di Friedrich sono delle apostrofi rivolte allo spettatore ma anche, come suggerisci, delle immagini cariche di malinconia.

I volti trasformati in nuche – le figure cioè che si rifiutano di darsi allo sguardo del pittore, del fotografo o del regista – si danno in tanti modi diversi. In questa iconologia non mancano quelle che tu chiami figure disubbidienti. Le ragioni di tale disubbidienza sono tante, dal riserbo a una sofisticata sensualità che mette in risalto il collo e la schiena, fino a una denuncia politica come nelle foto di Santiago Serra.

Nel loro insieme, queste figure di schiena disubbidiscono a quello che resta l’architrave della modernità visiva: che l’arte sia e dia qualcosa da vedere. Salvo poi renderci conto che la storia dell’arte è piena di immagini che si sottraggono, si velano, si dissimulano – anche se sempre in superficie, sempre prese in un gioco voyeuristico. Una tradizione antica quanto le immagini, che tu fai risalire addirittura alla Flora di villa Arianna, sorta di musa protettrice della tua collezione-libro.

“Il bello è velato”, come ha scritto Byung-Chul Han nel suo magnifico saggio La salvezza del bello. “È un nascondiglio”. Anche l’arte in qualche modo lo è. Svela segreti per proteggerli in qualche modo. E credo che di questo doppio movimento di rivelazione e al tempo stesso salvaguardia le figure di spalle siano maestre.

Nella vita posso darti le spalle per molteplici ragioni, e anche senza nessuno scopo, semplicemente per caso. Diciamo che nell’arte invece dietro alla scelta di raffigurare qualcuno o qualcosa di schiena c’è praticamente sempre una scelta razionale, un motivo ben preciso. Per raccontare la seduzione, la malinconia, l’ingiustizia sociale, la fama, l’assorbimento estatico (quello del viandante di Friederich) o artistico (quello del pittore di Vermeer al lavoro).

Diciamo che quando una figura di schiena è dipinta anziché fotografata, il grado di irriverenza per così dire raddoppia. Questo perché in pittura ovviamente l’idea di ‘istante rubato’ non esiste, è pura illusione, una finzione che l’artista allestisce, e un gioco di cui lo spettatore è complice.

La Flora di villa Arianna è stupefacente perché rappresenta un hapax visivo, un caso isolato nello spazio e nel tempo. Mi piace chiamarla la prima disubbidiente della storia dell’arte, ma in realtà è una distratta per definizione: ci dà le spalle perché è persa nel verde a raccogliere fiori. E anche ora che sono arrivata in fondo a questa ricerca, dopo tanto studio e centinaia, forse migliaia di immagini di schiena, continua a sembrarmi una figura unica, senza eguali.

Oltre Viceversa

Migliaia di immagini… posso solo immaginare! Il percorso icono-testuale di Viceversa si conclude con una figura enigmatica – di certo una delle più vicine all’astrazione – di Domenico Gnoli, un pittore che, come ricordi, ha persino dipinto una Gioconda di spalle, beffandosi della tradizione secolare del ritratto. Le figure di schiena, così concludi, hanno la capacità di sospendere le nostre certezze. A lettura terminata, pensavo così alle immagini rimaste a lungo nel limbo prima di essere scartate perché resistevano all’atlante pazientemente costruito in Viceversa. Casi unici (o hapax), oppure grumi tematici diversi da quelli che articolano i capitoli del tuo libro, non so. Per restare in metafora, ti chiedo quali tra queste immagini non solo rappresentano figure di tergo ma, per ragioni non sempre decifrabili, ti hanno dato – almeno ermeneuticamente – le spalle.

Sono tre, te le allego. Una è una serie, proprio di Ghirri, che nel 1979 ha fotografato di ‘spalle’ i busti del Gianicolo. Un’altra è Betty di Gerard Richter, l’ultima è la famosa foto della coppia in macchina scattata da Berengo Gardin su una spiaggia inglese.

Gianni Berengo Gardin, England, 1977

Tutte queste immagini in realtà mi parlavano, e molto, ma in qualche modo si ostinavano a tenersi fuori dal discorso complessivo, si esprimevano in una lingua tutta loro che faticava ad amalgamarsi al resto, a fondersi con i miei ragionamenti. In questo senso, “davano le spalle” al progetto: rifuggivano il mio tentativo di ordine, di catalogazione per insiemi. E quindi, anche se a malincuore, sono rimaste fuori. Ma è giusto così: anche quello che escludiamo ovviamente definisce il nostro lavoro.

In copertina: Michelangelo Pistoletto, Donna nuda che avvita una lampadina, 1968

Eleonora Marangoni

(Roma, 1983) lavora come copywriter nel campo del design e della comunicazione. Specialista di Marcel Proust, ha esordito in Francia con un saggio sull'influenza della pittura italiana nella “Recherche” ("Proust et la peinture italienne", Michel de Maule, 2011) e ha pubblicato in Italia "Proust. I colori del tempo" (Electa 2014), dedicato al rapporto tra colore e letteratura. Il suo romanzo d'esordio “Lux” (Neri Pozza, 2018) ha vinto il Premio Neri Pozza, il premio Opera Prima 2019 ed è stato candidato al premio Strega 2019. Il suo ultimo saggio è “Viceversa” (Johan & Levi, 2020) dedicato alle figure di schiena nell'arte, nel cinema e nella letteratura. (ph. Monica Cillario)

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